La Passione di Martin Scorsese

Nel suo nuovo film, “Silence”, il regista riprende la storia che ispirò tutti i suoi lavori, scatenando la più grande controversia della sua produzione: la natura della fede.

Zibaldone post-punk
26 min readNov 23, 2016

Traduzione dell’articolo di Paul Elie, comparso sul New York Times il 21 novembre 2016

Martin Scorsese, Nadav Kander per The New York Times

Un uomo a bordo di un treno in Giappone stava leggendo un libro ambientato proprio in Giappone. Il treno fiancheggiava le montagne del Sol Levante verso la città di Kyoto dove l’uomo, con la barba e gli occhi luminosi, era diretto. Correva l’anno 1989. Il treno era di quelli ad alta velocità.

L’uomo sul treno si trovava davanti a un dilemma, come il protagonista del romanzo che stava leggendo; e a ogni pagina che sfogliava, era sempre più chiaro che il dilemma di entrambi era essenzialmente lo stesso.

L’uomo del romanzo si chiamava Sebastian Rodrigues, un prete Gesuita Portoghese inviato in Giappone nel 17esimo secolo. Era stato mandato in quel Paese per fare da guida ai Cattolici perseguitati dal brutale regime giapponese, ma anche per scoprire cos’era successo al suo mentore, un prete che si diceva avesse negato la fede sotto tortura.

L’uomo seduto in treno era Martin Scorsese, che era in Giappone per ricoprire la parte di Vincent van Gogh in un film di Akira Kurosawa, celebre regista. Si trovava lì anche per superare le pressanti polemiche suscitate dal suo film, L’ultima tentazione di Cristo.

Il film era stato aspramente criticato dai Cristiani conservatori per via di una sequenza in cui Cristo giaceva con Maria Maddalena. Nel rappresentare la vita di Cristo come una battaglia doppiamente tormentata tra le due nature umana e divina, Scorsese aveva voluto fare un film che parlasse sia di dubbio che di un atto di fede.

Harvey Keitel in ‘‘Mean Streets.’’ CreditEverett Collection

Il treno scorreva lungo le montagne e Scorsese divorava le pagine. Quel libro stava parlando a lui e vide in esso un’immagine che avrebbe voluto creare.

Il libro citato s’intitola Silence, scritto da Shusaku Endo, un Giapponese convertito appassionato di letteratura europea e di storia del Cattolicesimo giapponese. Pubblicato in Giappone nel 1966, Silence vendette 800.000 copie, un numero notevole in quel Paese. Endo fu, così, chiamato “il Graham Greene Giapponese” e candidato per il Premio Nobel. Greene stesso menzionò Silence come “uno dei migliori romanzi dei nostri tempi”.

Il missionario Gesuita Francesco Saverio evangelizzò il Paese del Sol Levante nel 1549. Nei secoli successivi, però, il Cristianesimo fu bandito con un regime di torture ai missionari e ai loro seguaci, forzati a fare apostasia calpestando lo yefumi — un pezzo di rame con impressa l’icona di Cristo. In Silence, Endo descrive la vicenda dal punto di vista dei missionari, descrivendo gran parte delle vicende nella forma di un epistolario scritto da Rodrigues al suo superiore. Egli si reca in Giappone con un altro giovane prete, Francisco Garrpe, giurando di scoprire la verità sul loro mentore, Padre Cristóvão Ferreira, ma vengono catturati e vivono la realtà della resistenza evangelica legata a sofferenza e torture. L’ufficiale invita i Giapponesi convertiti ad evitare le torture calpestando lo yefumi. Molti lo fanno, ma alcuni sono ugualmente torturati. Rodrigues vede i convertiti crocifissi, bruciati vivi e affogati. Un giudice che aveva familiarità con i Cristiani avanza a Rodrigues un’infame proposta: la salvezza dei convertiti torturati in cambio della sua apostasia tramite lo yefumi.

Rientrato dal Giappone, Scorsese aveva ottenuto i diritti per un film su Silence. Nonostante gli anni, non passò un giorno senza che egli menzionasse il progetto alle persone che conosceva: attori, amici e persino un anziano pastore, Padre Principe. Sebbene avesse realizzato film di successo come The Aviator e The Departed, Shutter Island e Hugo, egli era sempre più convinto che Silence sarebbe stato il film che avrebbe voluto davvero realizzare. Nel frattempo, un Gesuita era stato eletto Papa; i terroristi Islamici avevano cominciato a colpire i Cristiani in Medio Oriente. Nel 2014, con il successo di The Wolf of Wall Street, Scorsese dichiarò che Silence sarebbe stato il suo prossimo film: egli, anzi, non ne averebbe realizzato altri prima di aver portato a termine il suo progetto. Ventisei anni dopo, il progetto iniziò.

Cosa ha spinto questo grande artista americano a realizzare un film sulla storia dei missionari in Giappone come il suo definitivo, appassionante progetto? Scorsese è conosciuto per i suoi gangster movie; è un maestro sul profano. Ma dall’inizio, si è sempre definito come un artista di inquietudini profondamente cattoliche, e la freccia avvelenata del conflitto religioso lo ha portato a rivedere il suo percorso. Taxi Driver: un veterano del Vietnam nelle vesti di un vendicatore spirituale, deciso a ripulire la città dal sozzume della violenza. Cape Fear: un fondamentalista tatuato determinato a esigere una giustizia divina. Kundun: un giovane uomo cresciuto come maestro spirituale, teso a contrastare l’ateismo comunista. Persino Living in the Material World, il suo documentario su George Harrison, prende come spunto il conflitto tra carne e spirito, tra un Beatle famoso e un uomo in intima ricerca.

Silence è un libro per i nostri tempi: esso individua, in un passato missionario, così tante questioni religiose che ci tormentano nel presente postsecolare — le pretese di verità universali nelle diverse società, il conflitto tra la professione di fede e la sua espressione, e l’apparente silenzio di Dio davanti alle violenze verso i credenti. Per Scorsese, dunque, Silence era la fonte adatta e, nonostante i criteri impegnativi, la sua intuizione straordinaria. Per comprendere questa dedizione, ho parlato con il regista, con i membri del cast e la produzione e tutti gli altri che conoscono bene il romanzo — cercando di comprendere che atto di fede rappresenta questo film.

“Non so se esiste una redenzione, ma di sicuro esiste qualcosa come cercare di fare la cosa giusta”, mi dice Scorsese, con la sua voce new-yorkese, per niente imborghesita, resa familiare dai cameo nei suoi film. “In che modo? Con l’altruismo. Ci credo. Ma come si può attuarlo? Non penso si possa farlo con coscienza, ma è qualcosa che si sviluppa in te — che forse matura attraverso gli errori della vita”.

«Non so se esiste una redenzione, ma di sicuro esiste qualcosa come cercare di fare la cosa giusta» (M. Scorsese)

Mi invita per le 21 a casa sua, nell’East Side di New York, dopo aver speso un intero giorno nel montaggio di Silence in centro città. Il salotto, con un ampio soffitto e interamente rivestito in legno di quercia, è abbellito con una videocamera vintage, i manifesti de La Grande Illusione di Jean Renoir e le fotografie di sua moglie e sua figlia. Lui ha 74 anni, appare massiccio e invecchiato, ma con una straordinaria vita nei suoi occhi e un ardore giovanile che sembra provenire dalla venerazione per i suoi predecessori — come il regista Polacco Andrzej Wajda, che firmò un bozzetto, e Scorsese lo stacca dal muro per mostrarmelo. Ci sediamo e cominciamo a parlare. Mentre le ore passano, la camera, di per sé scura, sembra svanire attorno a noi, fino a somigliare a una sala di proiezione, o una cappella, un luogo cioé dove le domande sulla maniera di vivere si presentano sottoforma di storie e immagini.

“Tutto risale a quello che Padre Principe mi disse l’ulitma volta che ci siamo visti, circa due anni fa”, mi dice. “Sbagliare, fare qualcosa che è moralmente riprovevole, ciò che è peccato — beh, molti non potranno mai più tornare indietro. Ma i Cristiani potranno rialzarsi e riprovarci. Forse inconsciamente, ma entri in una situazione dove puoi fare un’altra scelta. Ed è questa la situazione di Rodrigues” — egli può scegliere di salvare gli altri rinunciando alla sua fede, ciò che egli stesso considera come l’atto più biasimevole in assoluto.

Silence, tanto quanto la New York Trilogy di Scorsese — Mean Streets, Taxi Driver, Raging Bull — affonda le sue radici nell’infanzia. Quando era bambino a Little Italy, Scorsese voleva diventare un missionario. I suoi genitori non erano credenti, in parte perché la sua famiglia aveva sopportato il peso della chiesa siciliana. Ma per lui la chiesa —percepita come una forza malefica in molti romanzi di formazione dell’epoca — rappresentava, al contrario, una porta oltre la sua famiglia e il suo vicinato. “Mi fidavo della chiesa, perché aveva senso quello che pregava, che insegnava. Capii che c’era un altro modo di pensare fuori dal mondo chiuso, nascosto e spaventato in cui ero cresciuto.”

Anche i film raccontavano un mondo diverso dal suo quotidiano. Suo padre, un pressatore in un distretto di indumenti, non guadagnava molto, ma aveva sempre i soldi per portarlo a vedere i film. Il venerdì sera il canale di una TV locale trasmetteva film italiani e così crebbe guardando i capolavori del cinema neorealista, pellicola con una forte dimensione Cattolica — come Roma città aperta di Roberto Rossellini, in cui un prete viene fucilato per aver collaborato con la Resistenza.

Il Cattolicesimo Italo Americano di Little Italy era centrato sulle processioni di santi importati dal Vecchio Continente: San Gandolfo in Elizabeth Street per i Siciliani, San Gennaro in Mulberry Street per i Napoletani. “All’epoca in cui vivevo lì, queste manifestazioni erano quasi scomparse,” Scorsese mi racconta. “Ciò nonostante, mi appassionavano. L’immensa navata della St. Patrick’s Old Cathedral in Mott Street contrastava fortemente con il piccolo appartamento in cui vivevamo, la Messa in latino era così diversa dai discorsi che facevamo a pranzo. Pensavo e agivo velocemente, credendo che tutto quello aveva a che fare con i farmaci per il mio asma”, mi dice Scorsese. “Questo influenzò il modo in cui respiravo e pensavo. Avevo bisogno di evadere. I film me lo consentivano, e così la chiesa. I ritmi in ambedue i contesti erano più lenti e mi consentivano di meditare. Mi davano un diverso senso del tempo.”

Padre Francis Principe, un giovane prete del suo quartiere, parlava sia di fede che di film. “Fu lui a insegnarci le cose”, Scorsese ricorda. “Fu lui a dirci: ‘Non dovete vivere così. Non dovete frequentare questo circolo culturale. Non dovete sposarvi a 21 anni”. Scorsese divenne un chierichetto e ogni anno Principe avrebbe portato i chierichetti al cinema in città a vedere film come Giro del mondo in ottanta giorni, Il ponte sul fiume Kwai— e a discuterne con loro sui gradini della canonica a Mulberry Street. Andarono al Roxy, vicino Times, Square a vedere una rappresentazione teatrale cristiana, The Robe e lo sentirono parlarne male. “Padre Principe detestava il sentimentalismo Cristiano o i fumetti religiosi” ricorda Scorsese. “Sono ‘cliché,’ diceva, a proposito rombo del tuono quando Giuda pronunciava il suo nome — ‘My name is Judas,’ e si sentiva il fragore di un tuono. A oggi non mi è mai capitato di sentire tuonare così bene.” Scorsese, già all’età di 11 anni, desiderò di creare qualcosa di alternativo, “di portare l’epica biblica in altro luogo.”

La fede e i film compensavano la sua alienazione dai giochi con gli altri a causa del mio asma. Al chiuso, egli realizzò diverse tavole, incluse alcune, pochi anni dopo, sulla vita di Cristo. “Allietavo il quartiere,” mi racconta, “rappresentando la Crocifissione sui pontili di West Side e coinvolgendo il Dipartimento di Polizia. Puoi immaginarlo?” Le rappresentazioni al chiuso, invece, erano riservate agli argomenti da adulti, come la relazione del padre con uno zio spendaccione che si diceva prendesse senza permesso i soldi da suo padre per pagare gli strozzini. Per queste diatribe, usava uno schema che aveva appreso dai passaggi della Sacra Scrittura.

“Amare mio fratello vuol dire amare mio fratello!” mi dice , ridendo con consapevolezza. “Ma va oltre il proprio fratello. Siamo forse responsabili degli altri? Qual è il nostro dovere, quando qualcuno fa qualcosa di sconvolgente?…Lo facciamo davvero quando sono nostri fratelli, amici, o quando siamo legati da un voto matrimoniale? Qual è il modo per far qualcosa di meglio per gli altri e per noi stessi? Dobbiamo metterlo in pratica. Vorrei vederlo messo in pratica nella realtà, e sentirlo dire da Padre Principe e dai due preti di Cardinal Hayes.”

Cardinal Hayes era una scuola superiore nel Bronx e dopo un anno di seminario minore — un periodo di prova per accedere al seminario che una volta era la regolare interruzione per quei brillanti ragazzi Cattolici miserabili — , Scorsese la frequentò. (Don DeLillo, il romanziere, era qualche anno più avanti di lui). Respinto dalla Fordham University a causa dei suoi bassi voti, Scorsese frequentò il New York University’s Washington Square College e i suoi programmi di filmografia. Di lì, entrò in contatto con gli anni Sessanta: frequentò i concerti a Fillmore East, andò in Inghilterra e Olanda, fu assistente di regia a Woodstock (fu coinvolto nel montaggio di un film sul concerto) e realizzò il suo film personale — Chi è che bussa alla mia porta, la storia di un giovane uomo che, con l’arrivo degli anni Sessanta, si libera improvvisamente dei dettami Cattolici che lo tenevano lontano dal letto della sua fidanzata, e Boxcar Bertha, la storia di una donna fomentatrice di popolo, “la più libera di tutti”.

Willem Dafoe ne ‘‘L’ultima tentazione di Cristo.’’ CreditUniversal/Everett Collection

Quando, nel 1972, Scorsese ritornò a Little Italy per le riprese di Mean Streets, molti suoi coetanei stavano entrando nei ruoli criminali ricoperti dai loro padri. All’inizio del film, Charlie, un gangster di basso livello interpretato da Harvey Keitel, pensa di andare a confessarsi nell’antica cattedrale. Egli desidera poter scegliere la penitenza più appropriata per lui piuttosto che averne una assegnata dal prete. In un certo senso, viene esaudito: gli capita di dover stare attento a Johnny Boy, interpretato da Robert De Niro — un ragazzo scapestrato del suo quartiere e un avventato giocatore d’azzardo che mette entrambi nei guai. Charlie diventa il suo protettore — e Charlie, desideroso di uscire da quella situazione, lascia il suo amico nei guai senza chiedere l’aiuto del suo potente zio, che potrebbe salvarlo. Pauline Kael, del New Yorker, attaccò il film con un commento biblico: “Charlie parla spesso a Johnny Boy di amicizia, ma non fa nulla. Egli è Giuda il traditore”.

E’ impressionante vedere la trama del protettore riemergere all’altro estremo della carriera di Scorsese, nel film Silence. Poiché i due Gesuiti partono per il Giappone, trovano un interprete di nome Kichijiro in un squallido quartiere e lo trascinano nella loro missione. Egli resiste. Beve fino a star male. Mente. Deplora il suo destino. Si converte, ma apostatizza e gli è concesso di vivere, mentre l’ufficiale uccide i suoi fratelli e le sue sorelle. Rodrigues decide di diventare il protettore di Kichijiro e sopporta con risolutezza l’apostasia di Kichijiro fino a quando non lo tradisce dinanzi all’ufficiale. Ma se Rodrigues è scosso dai dubbi, il contadino diventa la spalla del prete, un uomo la cui fede è tutta orientata nel riconoscimento delle proprie debolezze. Chi è più simile a Cristo: la persona che ha una fede forte o chi è debole, chi viene umiliato? “Umiliazione: questa è la chiave”, Scorsese mi dice. “Come Kichijiro dice nel film: “Dov’è il luogo adatto a una persona debole nel mondo in cui viviamo? Perché non sono nato quando non c’erano persecuzioni? Sarei stato un grande Cristiano.”

Per cinquant’anni, Scorsese è stato un missionario per il cinema: con i suoi film, ha promosso il lavoro dei più grandi registi internazionali, ha consolidato la storia del mezzo di comunicazione con un brillante gruppo di volontari, puntando a preservare i classici. Col tempo, il film su un’avventura missionaria è diventato esso stesso una missione, e l’atto stesso di realizzarlo un atto di fede. “Sapevo che aveva i diritti di questa sceneggiatura ed era molto deluso che non potesse realizzarlo”, mi ha riferito Irwin Winkler, produttore di Raging Bull e Good Fellas. “Pensai in quali tristi acque si trovasse Hollywood, che non permetteva a Martin Scorsese, con tutto il suo successo e i grandi onori, di realizzare il film che avrebbe voluto fare”.

Cominciò, allora, un grande sforzo collettivo guidato da Emma Tillinger Koskoff, la produttrice del film, perché il progetto diventasse realtà. Winkler mise mano a dozzine di dispute legali connesse al progetto. Randall Emmet, un produttore, garantì nuovi finanziamenti, e nel 2013 Scorsese e alcuni soci si recarono a Cannes per ritornare con 21 milioni di dollari di finanziamento per la distribuzione. “Non penso che egli lo avesse fatto prima”, Koskoff mi disse, “ma per questo film Scorsese ha fatto molte cose per la prima volta”. Avrebbe voluto realizzare il film senza parcella. Tutti gli attori principali — Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson- hanno una carriera nei film d’azione, ma avrebbero voluto lavorare per la Screen Actors Guild o con tasse drasticamente ridotte (“una miseria” ha detto Neeson, senza lamentarsi). E la Paramount Pictures firmò come distributore statunitense nel 2014.

Koskoff e lo scenografo Dante Ferretti selezionarono diverse location a Vancouver, Montreal, nel Nord-Est del Pacific Northwest e in Nuova Zelanda. Dopo quattro viaggi in Taiwan, decisero che sarebbe stata Taiwan — per otto mesi. Nel complesso 750 persone, tra cast e team di produzione, avrebbero messo la loro fede nell’atto di fede di Scorsese.

Silence è una storia sullo scontro tra “il bisogno di credere e la voce dell’esperienza”, per citare Scorsese. Per rendere in maniera corretta i dettami gesuitici, il regista ha coinvolto Padre James Martin autore e, nello specifico, editore del settimanale gesuita americano. Il regista e il sacerdote hanno avuto diversi colloqui a casa di Scorsese, e Padre Martin ha lavorato intensamente con Garfield e Driver. Come De Niro imparò la boxe per Raging Bull, così loro hanno familiarizzato con i riti e le costituzioni dei Gesuiti per conferire autenticità al loro ruolo.

Garfield, conosciuto per il suo ruolo nei due film di Spider-Man, s’è preparato a interpretare Padre Rodrigues entrando interamente nel processo che i Gesuiti chiamano “direzione spirituale”. Cresciuto alla periferia di Londra e con un padre Ebreo, Garfield ha sviluppato il suo personaggio approfondendo gli “Esercizi Spirituali” di Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore dell’ordine dei Gesuiti. Gli esercizi, concepiti nel 1520, invitano l’esercitante a usare la sua immaginazione per collocarsi nella Compagnia di Gesù, ai piedi della Croce, tra le anime tormentate dell’inferno. Garfield ha avuto incontri spirituali con Padre Martin, ed entrambi hanno condiviso le loro riflessioni con email o tramite Skype. Per di più, l’attore è partito per St. Beuno’s, una casa di esercizi spirituali nel Galles, per un ritiro di sette giorni.

“Se avessi avuto 10 anni, non sarebbero bastati per preparare questa parte”, mi spiegò Garfield. “Sono stato completamente risucchiato nel mondo dei Gesuiti e preso dalla loro spiritualità. La preparazione è durata circa un anno, e dopo siamo andati in Taiwan. Traboccavo di entusiasmo.”

«Silence è un libro per i nostri tempi: esso individua, in un passato missionario, così tante questioni religiose che ci tormentano nel presente postsecolare» (M. Scorsese)

Non è inusuale per gli attori alludere vagamente alla loro spiritualità. Ma Garfield descrive il processo con franca chiarezza. “Negli esercizi, tu entri nella tua immaginazione e accompagni Gesù nell’intera sua vita, dalla Concezione alla Crocifissione fino alla Resurrezione. Cammini, parli, preghi con Gesù, soffri insieme a lui. Ed è devastante vedere qualcuno che è stato to amico, che hai amato, essere così brutalmente ucciso”. Prima che Garfield partisse per Taiwan, Martin gli diede una croce che aveva ricevuto in regalo durante il noviziato.

“Andrew ha colto il punto dove un Gesuita è un Gesuita”, mi ha confessato Padre Martin. “Ci sono parti della trama dove l’attore avrebbe voluto fermarsi e dire, ‘Un Gesuita non lo avrebbe mai detto’, e si sarebbe fatto venire in mente qualcos’altro.”

“Non penso di essere chiamato a diventare un sacerdote”, Garfield mi ha detto con risolutezza, come se partecipare alla realizzazione di questo film gli avesse aperto una possibilità. “Ma ho avuto la sensazione di essere stato chiamato a qualcosa: chiamato a lavorare con uno dei più grandi registi di sempre, e chiamato a ricoprire questo ruolo come qualcosa di utile per il mio percorso spirituale.”

Driver ha interpretato l’inaffidabile fidanzato in Girls e il cattivo Kylo Ren in Star Wars: il risveglio della forza. Per interpretare Francisco Garrupe (Garrpe nel romanzo), il compagno un pò scettico di Rodrigues, Driver, che è cresciuto nell’Indiana Battista, ha lavorato per somiglianza. “Questo film è la storia di una crisi di fede”, ha detto, spiegando che ha cercato di applicarvi le categorie di fede e dubbio così come concepite da tutti. “Ci può essere fede in un lavoro, in un progetto o nel matrimonio; ci possono essere, altresì, dubbi su un lavoro o su un progetto e anche sul proprio matrimonio. Quando ci pensi puoi comprendere bene questi due stati.” In questo modo, l’attore si è immedesimato nella fede e nel dubbio — perdendo circa un terzo del suo peso per il ruolo. “Ventitré chili”, mi ha raccontato mentre beveva caffé nero. “E’ questione di controllo, e come attore devi avere controllo. Ma è anche una sofferenza: ti dà quelle sensazioni che puoi usare nel ruolo.” Egli ha perso peso in quattro mesi e mezzo, sempre seguito da un nutrizionista. All’inizio, l’attore ha trascorso una settimana a St. Beuno. Garfield era già lì in ritiro quando Driver raggiunse il luogo, un edificio in stile Gotico Vittoriano dove il poeta Gesuita Gerald Manley Hopkins una volta viveva. Poiché avevano fatto promessa di non parlare, i due attori si salutavano a cenni solo quando s’imbattevano nel refettorio.

Liam Neeson, cresciuto in Irlanda in ambiente Cattolico, si è preparato utilizzando lo stesso schema per The Mission, film del 1986 del regista Roland Joffé sulle missioni dei Gesuiti nel Sud America. Daniel Berrigan, poeta Gesuita e pacifista, fu un mentore in quel film e celebrava la Messa per gli attori — Neeson, De Niro, Jeremy Irons- sul set in Colombia. Neeson mi ha detto: “Ricordo Padre Dan dire, “Sai che Stanislavski ha basato il suo “metodo” per attori sugli “Esercizi Spirituali” di Sant’Ignazio? Feci tutta quella strada per scoprirlo! La cosa mi colpì molto.”
Ora, invece, in Taiwan a interpretare Padre Ferreira — un anziano Gesuita sospettato di aver abiurato per evitare le torture — Neeson si è sottoposto a una finta tortura, messo sottosopra con corde su una fossa di escrementi. L’attore Giapponese Yoshi Oida, determinato a fare il suo meglio per interpretare un convertito crocifisso nel mare, pendeva su una croce mentre una macchina gli gettava addosso una marea d’acqua. Oida aveva 82 anni. Prima che Driver filmasse la sua ultima scena — nella quale Garrupe, da tempo nascosto, riappare affamato dai suoi aguzzini — egli era allucinato per la fame. “Filmai la scena e saltai sul primo aereo per New York dove avevo una lettura per Girls”, mi ha detto, “e feci tripla colazione in un ristorante di Brooklyn.”

Il giornalista A.O. Scott, critico cinematografico per il New York Times, una volta ha scritto che l’approccio di Scorsese ai film “è uno svago sacerdotale, una sorta di esercizio spirituale inserito in questioni tecniche”. E così è stato per Silence. “Marty insiste perché ci sia silenzio sul set”, mi ha detto Garfield. “Il silenzio ci dice: ‘Qualcosa sta per accadere qui’.” Scorsese ha impostato la sceneggiatura secondo un ordine cronologico, cosicché il cast avrebbe potuto percepire le emozioni crescenti dei protagonisti. Alla fine, Garfield giunge alla scena nella quale Rodrigues calpesta lo yefumi, profanando il Dio in cui crede e rinunciando a quella fede per la quale aveva attraversato mezzo mondo. Sia l’attore che il regista prepararono la scena: un piede nudo schiacciava un pezzo di rame, il volto di Cristo consumato dai piedi di innumerevoli apostati prima di lui. “E’ qualcosa che entrambi aspettavamo”, Garfield ha detto, “ma Marty ha atteso così tanto-ha aspettato decenni per filmare quella scena.” Il regista era pronto; il prete calpesta — ed ecco un problema tecnico. “Persi quasi la testa, e credo anche Marty”, Garfield ricorda. “Egli volle rifarlo un’altra volta.”. Ci fu una seconda volta, e il prete profanò l’immagine di Cristo una volta per tutte.

Passo dopo passo, la realizzazione di Silence fu terminata. Il film che Scorsese aveva in testa su quel treno attese 27 anni e 46,5 milioni di dollari per essere realizzato.

“E’ tutto nelle mani di Dio”, mi dice con filosofia ora che il salotto della sua casa è immerso nel buio. E’ l’una del mattino. “Non sappiamo perché, ma è così che il film è fatto. Doveva essere per forza così.”

Liam Neeson in ‘‘Silence.’’ CreditKerry Brown/Paramount Pictures

Scorsese potrebbe parlare come un filosofo, perché aveva vissuto con questo spirito. Un progetto che è una passione, religioso per natura, basato su un romanzo; ritardi, difficoltà di finanziamento e riluttanza da parte degli esecutivi: fu come con L’ultima tentazione di Cristo, tratto dal romanzo di Nikos Kazantzakis.

Quando il romanzo fu pubblicato ad Atene nel 1955, il suo messaggio — che Gesù fu tentato di scendere dalla croce e vivere una vita terrena con Maria Maddalena — fu visto come una sfida alla Cristianità conservatrice, rappresentata dalla Chiesa Greco-Ortodossa. Col tempo, raggiunse gli Stati Uniti con la traduzione inglese; erano gli anni Sessanta e il libro fu accettato dalla controcultura di allora come il modello di una rivelazione religiosa che passa dalla conoscenza della carne.

Scorsese lesse il romanzo negli anni Settanta, dopo che gli fu regalato da Barbara Hershey e David Carradine, le due star di America 1929, Sterminateli senza pietà. Quando Scorsese decise di farne un film, nell’era di Reagan, il romanzo era ancora visto come una sfida verso i Cristiani conservatori.

Il regista dichiarò che gli obiettivi del film erano trasparenti. Egli voleva dare al Vangelo un accento contemporaneo, allo stesso modo con cui i più grandi artisti come Caravaggio fecero. E volle onorare la sua visione dell’infanzia e “portare l’epica biblica in un altro luogo”. Ma il progetto si rivelò più complicato del previsto.

Dopo essersi impegnato per il film nel 1983, la Paramount Pictures cominciò ad avanzare dei dubbi. Scorsese ritirò le riprese (previste in Israele) e il budget, condividendo di voler rinunciare ai costi. Quando dei fondamentalisti Cattolici vennero a conoscenza del progetto, fecero un’ostile campagna scritta contro l’impresa madre della Paramount, la Gulf and Western. Salah Hassanein, capo della United Artists, all’epoca la seconda compagnia di produzione e distribuzione cinematografica, dichiarò che non avrebbe proiettato il film nei suoi cinema, citando i precedenti con Brian di Nazareth e altri film a tematica Cristiana, così come era successo anche con il film Mohammed: Messenger of God, che portò a una minaccia di attentato terroristico. In uno straziante incontro tra Scorsese e gli esecutivi, il capo della Paramount, Barry Diller, cancellò il film.

All’epoca le intenzioni di Scorsese erano molto più complicate. “Gli dissi che Dio non poteva essere solo nelle mani della Chiesa”, mi riferì dopo, ricordando l’incontro con Hassanein. “Ci sono tanti ostacoli tra noi e lo spirito. Per questo, produrre questo film sarebbe stato cercare di rendere Dio accessibile a quella gente che stava lontana dalle chiese. Io dissi: “Ho avuto tre divorzi. Questo m’impedisce di parlare di Dio perché la chiesa mi dice che non posso? No, no! Posso parlare a me stesso perché io sono io.’”.

Arrabbiato e irrequieto, egli accettò due progetti già iniziati da altri: Fuori orario, ambientato nella Bassa Manhattan, e Il colore dei soldi, una storia sul gioco del biliardo, con Paul Newman e Tom Cruise. Il colore dei soldi incassò 52 milioni di dollari: il più grande successo mai raggiunto. Rincuorato, cambiò i suoi agenti con l’agente di Newman, Michael Ovitz, capo della Creative Artists Agency. “Mike mi domandò: ‘Cosa vuoi fare? Qual è il film che vuoi davvero realizzare?” Io gli risposi, “L’ultima tentazione di Cristo ed egli mi rispose “OK.” Ed io replicai “L’ho già sentita”.

Ovitz diede velocemente il via libera alla realizzazione del film con la Universal, che aveva prodotto Il colore dei soldi. Scorsese filmò in Marocco con Willem Dafoe nella parte di Gesù, Harvey Keitel in Giuda, David Bowie come Ponzio Pilato e Barbara Hershey nella parte di Maria Maddalena.

Martin Scorsese mentre guida Andrew Garfield sul set di ‘‘Silence.’’ CreditKerry Brown/Paramount Picture

Ciò che accadde dopo è ancora al centro di una guerra culturale. Dopo che Scorsese lavorò 24 ore su 24 per la realizzazione del suo film, la destra religiosa si scagliò contro di lui. Donald Wildmon, un istigatore di destra, a capo dall’American Family Association, organizzò un sit-in di protesta davanti la sede della Universal a Los Angeles. Il reverendo R.L. Hymers Jr. della Tabernacle Baptist Church di Los Angeles, fece lo stesso davanti all’abitazione di Lew Wasserman, presidente della MCA, proprietaria della Universal. Bill Bright, leader della Campus Crusade for Christ, si offrì di acquistare il film dalla Universal per distruggerlo. La Universal, allora, si occupò del film e lo promosse con annunci sui quotidiani nazionali. In un’intervista con i reporter a Roma, Franco Zeffirelli, che non aveva visto il film, lo definì “veramente orribile e totalmente folle.” I servizi giornalistici attribuirono a lui la considerazione che il film era stato prodotto dalla “feccia Giudea” di Hollywood.
Zeffirelli negò di aver mai affermato ciò, ma l’affermazione prese piede al punto che il film fu considerato un lavoro sinistro della cabala rabbinica messa in atto da produttori Giudei contro la fede Cristiana.

Il giorno della premiere del film al Teatro Ziegfeld — il 12 agosto 1988 — centinaia di oppositori protestavano lì. Per cui c’erano molte televisioni.

“Dopo la premiere”, Scorsese mi ricorda, “un gruppo di noi andò a cena presso il Regency hotel”. Il gruppo includeva i dirigenti della Universal; il celebre Michael Powell; l’editore storico di Scorsese nonché la sua collaboratrice di lunga data, Thelma Schoonmaker, e noti Cristiani che avevano supportato il film. Paul Moore, il vescovo della Chiesa Episcopale di New York, scrisse una lettera al New York Times dichiarando che il film rielaborava il cuore dell’insegnamento della chiesa sulla natura umana e divina di Cristo. Al Regency hotel, Moore parlò a Scorsese di un libro che avrebbe dovuto leggere. Il giorno seguente, glielo inviò: si trattava di Silence, libro di Shusaku Endo.

In Egitto, Siria, Pakistan e Cina e altrove, la persecuzione dei Cristiani — spesso nella forma del martirio — è reale e continua ancora oggi. Dopo gli attacchi dell’11 Settembre, la parola “martire” ha assunto una connotazione negativa. Silence, dunque, appare inavvertitamente attuale. Come accade nel libro, il film s’interroga sul reale concetto di martirio Cristiano, proponendo che ci sono casi in cui il martire — vale a dire il credente che si distingue per aver seguito Cristo con una morte amara — non è un santo né ha ragione. Questa visione compromette le tesi a sostegno de L’ultima tentazione di Cristo: un atto, allora, può essere compreso nella sua totalità solo se si considerano anche le intenzioni: un presunto atto di profanazione, allora, può essere visto come un atto di devozione se v’è una fede sottintesa.

A un punto drammatico del romanzo, Rodrigues sente il pianto dei Cristiani torturati fuori dalla cella in cui è relegato. Gli era stato detto che avrebbe salvato le vite se avesse calpestato lo yefumi. Si dispera. E prega. Avverte che l’offerta era una tentazione. Esausto, affamato, circondato dalla sofferenza e dalla morte, sente una voce che pensa venga da Cristo: “Schiacciami! E’ per essere schiacciato dagli uomini che venni a questo mondo.”

“Il libro pone una domanda profondamente teologica,” mi dice Peter C. Phan, un Gesuita teologo alla Georgetown University, nato in Vietnam. “La domanda è: ci è concesso di compiere un atto completamente malvagio per fare del bene? Se l’atto è compiuto per salvare se stessi, allora la risposta sarà negativa. Ma la vicenda del libro è complessa, perché l’atto compiuto da Rodrigues è fatto per salvare i suoi fedeli, per un lieto fine: la salvezza del suo gregge. Andrà all’inferno — ma ci andrà per la loro salvezza.”

Rodrigues calpesta lo yefumi. Poiché la sua era un’intenzione giusta — salvare la vita degli altri— l’atto appare giusto. E poiché esso implica il sacrificio del suo più alto senso della vita, sembra che compia un atto totalmente Cristiano, la perdita della sua vita per quella degli altri.

Il romanzo non analizza le implicazioni teologiche in maniera così scolastica. Piuttosto, le include dentro un’altra domanda: se l’attività dei missionari sia di per sé una forma di imperialismo e se il senso della fede religiosa si perda quando viene annunciata in una nuova lingua, in una terra nuova.

Un giovane Martin Scorsese (al centro) con suo fratello Frank (a destra) e suo cugino Michael Di Pietro. Credit Photograph from Martin Scorsese.

La Chiesa dovrebbe adattarsi alle culture specifiche, o dovrebbe mantenere un suo approccio peculiare? Nella teologia Cristana, questi aspetti fanno parte dalla “inculturazione”. Dal Concilio di Gerusalemme — dove gli Apostoli, Giudei di nascita, si chiedevano se sottoporre o meno i nuovi Cristiani alla legge giudaica — la storia della Cristianità verte sui punti dell’inculturazione. L’arguzia di Silence sta nel mostrare quanto le implicazioni siano diverse e molteplici. Sembra che i giovani Gesuiti favoriscano l’inculturazione, vestendo come i contadini, amministrando i sacramenti direttamente alla gente e chiamando “monastero” le loro capanne. Un giudice — una figura simile al Grande Inquisitore di Dostoyevsky — dice a Rodrigues che il Cristianesimo non può prendere radici nella “palude” del Giappone. Quando, alla fine, Rodrigues lo incontra, Ferreira concorda con lui. I convertiti? “Dei Buddisti scissionisti”, li definisce il sacerdote; essi adorano il “sole di Dio”, non il Figlio di Dio. E che ne è dei martiri, morti capovolti nella fossa? Non sono morti per Cristo, gli dice Rodrigues, ma per te.

Ciononostante, Silence stesso è un complesso atto di inculturazione — un romanzo con il punto di vista di un sacerdote Europeo, che nessuno avrebbe potuto scrivere se non un Giapponese. Lo stesso yefumi è espressione d’inculturazione, un punto, questo, recentemente sviluppato in un libro dell’artista Makoto Fujimura. E’ l’immagine di Dio concepita dagli ufficiali allo scopo di oltraggio, ma diventa l’immagine autentica di Cristo. Sotto le minacce, i credenti la calpestano. Rinunciano alla loro fede. Ma ciò non significa che smettano di credere. Mantengono una “fede nascosta” secondo modi misteriosi.

Lo stesso lavoro di Scorsese è un forte argomento d’inculturazione, perché egli, intuitivamente, trova piani e immagini religiose nella moderna, volgare e sconsolata società attuale. Il suo Silence è un atto di adattamento culturale (qualcuno l’avrebbe definita “appropriazione”) al terzo grado: si tratta pur sempre di un Cattolico italo-americano che adatta un romanzo Cattolico giapponese su un Cattolico portoghese per farne un film Hollywoodiano — probabilmente la più caratteristica forma d’arte culturale americana.

Silence di Scorsese, inoltre, suggerisce che un usuale processo di inculturazione è impossibile. Rende, al contrario, chiara l’idea che l’atto d’apostasia può diventare uno scaltro adattamento della fede religiosa a una cultura ostile, e che la fede di un credente rimane tale nonostante un apparente atto di apostasia.

Il libro si riassume nella domanda: “Sei Cristiano?” Questa domanda, posta da Garrpe al contadino Kichijiro, è la stessa che pone a se stesso Rodrigues prima di sottoporsi allo yefumi, e per molto tempo dopo il suo atto di abiura. Si tratta di una domanda a cui non si può rispondere con “sarebbe stato ritenuto credente dalla chiesa, oppure un esempio per la società”. Il romanzo non è sulla lotta tra un missionario e una cultura a lui ostile. Quando il giudice ammette questo, Rodrigues nega: “No, no …”. Il prete alza la voce inconsapevolmente quando specifica: “La mia vera lotta Cristiana è dentro di me”.

Prima della sua inaugurazione a New York e Los Angeles prevista per Dicembre, Silence verrà proiettato a Roma per centinaia di Gesuiti e per i cinefili in Vaticani. Non ci si meraviglierebbe supporre che Papa Francesco, anch’egli Gesuita, potrebbe parteciparvi.

Sicuramente Scorsese sarà lì, ed è straordinario immaginare che sarà seduto al buio insieme al Papa. La loro giovinezza ha molto in comune: di sei anni più grande di lui, Jorge Mario Bergoglio crebbe in una famiglia di immigrati Italiani che lo portavano spesso al cinema, ed egli passò la giovinezza amando il cinema Italiano, specialmente La strada di Fellini —“un film sulla possibilità di diventar santi”, dice Scorsese. Ho chiesto a Scorsese come descriverebbe il suo lavoro a Papa Francesco. Dopo un attimo di silenzio, mi ha risposto, “Gli direi che, nel mio lavoro, ho cercato di scoprire come vivere — cercato di comprendere cos’è realmente la nostra esistenza e il suo significato.”

Non molto tempo fa, Scorsese scese da una macchina nera davanti l’antica cattedrale. Indossava un cappotto, una sciarpa e un cappello marrone a falda larga. Si strinse la sciarpa, si calò il cappello e si mise nei pressi del cimitero adiacente la cattedrale.

“Proprio lì, noi giocavamo a nascondino,” racconta. “Potevi nasconderti dietro le lapidi. Sapevi qual era l’altezza giusta per nasconderti”.

Oggi Little Italy è un luogo ampiamente simbolico, come il Vaticano in Italia. Il veccio Ravenite Social Club — quartier generale della famiglia mafiosa Gambino — è ora un negozio di scarpe Cydwoq. Chinatown, un tempo a sud di Canal Street, si estende ora fino a Mott Street. Nelle chiese Cattoliche, la messa è ora celebrata in vietnamita e cantonese.

Scorsese guardava su Mott Street verso Houston Street. “Dove c’è il ristorante Coreano, che era usato come casa bi-familiare, un tempo c’era una pompa funebre. Il corteo funebre usciva di lì e portava il feretro lungo la strada qui fino in chiesa. Ricordo due bambini del vicinato, 16 o 17 anni — che morirono di cancro e le famiglie li portarono in chiesa partendo da casa. Erano così devastati. Fu terribile. Non lo dimenticherò mai.”

Dentro la vecchia cattedrale, divenne chiaro ciò che Scorsese letteralmente non dimenticherà mai — non lo splendore della chiesa, né la presenza di sofferenza e morte, insieme al peccato e la redenzione. Il pastore fece notare i segni di un restuaro: i santi avevano i loro colori ripristinati, gli ornamenti in ottone dell’altare marmoreo restituiti allo stile precedente il 1970, quando furono rimodernati. Scorsese, che lasciò quel quartiere nel 1965, non aveva bisogno di una guida. Conosceva ogni angolo di quel posto. “L’immagine di un bambino di 8 anni con un abito bianco che pregava in latino”, ricorda ad alta voce. “Ero io.”

Le scene finali di Silence seguono Rodrigues decenni dopo l’atto di apostasia. Non più sacerdote, Rodrigues rappresenta l’ufficiale nei rapporti con i mercanti Europei. Che cosa ne è della sua vita interiore? In cosa crede? Lavorando con l’immaginazione piuttosto che seguendo il romanzo, Scorsese ricostruisce un’immagine finale, sottile ma non criptica, in cui collocare il suo personaggio — ed è un’immagine che suggerisce il coinvolgimento di Scorsese nelle profonde questioni di fede.

Gli ho chiesto di tracciare un legame tra Silence e quello che stava ricordando a proposito della vecchia cattedrale. Si cinge la fronte con due dita. “Il legame è che tutto questo non è mai stato interrotto. Continua. E io non l’ho mai lasciato. Nella mia mente, mi ritrovo qui ogni giorno.”

Paul Elie, autore di quest’intervista, è lo scrittore di The Life You Save May Be Your Own, sugli scrittori Flannery O’Connor, Thomas Merton, Walker Percy e Dorothy Day, così come di Reinventing Bach. Entrami i libri sono stati finalisti nel National Book Critics Circle Award.
Potete leggere l’articolo originale al seguente link:
http://www.nytimes.com/2016/11/27/magazine/the-passion-of-martin-scorsese.html?_r=2

--

--

Zibaldone post-punk

Organized notes about a messy life | Homo sum, humani nihil a me alienum |