Storyteller: Simone Ciaruffoli

The Character Issue — pt. I

Scomunicare la comunicazione, secondo Simone Ciaruffoli di Burgez

Mattia Rapparini
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Storyteller: The Character Issue

Simone Ciaruffoli è il fondatore di Burgez e di Upper Beast Side, ma anche e soprattutto un uomo contemporaneo, capace di comprendere “gli interstizi della comunicazione sociale, della vita di tutti i giorni” e di ribaltare la concezione di brand. O forse solo di capirla per davvero, a differenza di molti altri. Gli abbiamo chiesto un parere sullo stato attuale della comunicazione italiana: ne ha dette talmente tante che abbiamo dovuto dividere l’articolo in tre parti. Buona lettura!

Quando pensiamo a una grande opera possiamo sempre collegarla a un grande committente: dalla Cappella Sistina di Michelangelo alla Venere di Botticelli, il merito di queste opere è da spartirsi tra l’artista e il suo committente. Che fossero motivi politici, estetici o un vanto personale era il “datore di lavoro” a spingere, a innovare.

Oggi, soprattutto tra le aziende, le priorità sono altre e purtroppo questa figura del committente illuminato che osa e chiede al creativo di osare è venuta a mancare. Ci sono le responsabilità, c’è il fatturato da garantire. C’è paura, e la paura porta all’immobilismo. L’immobilismo a sua volta porta a parlare esclusivamente di quello che conosco: il prodotto. Il pensiero si è impoverito al punto di credere che parlare del prodotto sia l’unico modo per garantire il fatturato a fine anno.

I creativi italiani sono incastrati in questo cul-de-sac, infelici delle condizioni ma incapaci di ribellarsi.

Il Tone Of Voice di Burgez nasce esattamente da qui: non avevo un euro e dovevo far conoscere il Brand il prima possibile. Mi sono ribellato e ho osato, come ho provato a fare in passato con altri, senza mai però ricevere il via libera della committenza. Tutta la comunicazione italiana si basa sul comunicare l’ovvio, sul rappresentare l’ovvio.

Il nostro problema è che siamo figli degeneri e viziati: abbiamo tutto, ma un paese che ha tutto perché dovrebbe impegnarsi nel fare marketing? L’Italia è un lovemark incredibile da sempre, eppure non siamo capaci di sfruttare questo status. Ci pieghiamo di continuo davanti alla globalizzazione, alla standardizzazione, e gradualmente stiamo perdendo quell’aura magica.

Pensiamo ai francesi, invidiosi fradici di noi, che hanno inventato interi sistemi di marketing per portare la gente a mangiare i loro formaggi e bere i loro vini. Avete presente le Stelle Michelin e l’Unesco? Sono vere e proprie associazioni che si arrogano il diritto di decidere se oggetti incredibili come i portici di Bologna sono “patrimonio dell’Unesco” o meno. In che senso? No, sono patrimonio dell’Italia: io sono un Brand figo, se vuoi mettere il tuo logo sulla mia maglietta sei tu che paghi e mi implori per farlo, e non viceversa. E invece noi italiani ci facciamo fregare, e viva le stelle Michelin, viva l’Unesco.

Michelin - Nunc est bibendum, 1905,
Marius Rossillon O’Gallop

I francesi sono furbi e sanno vendersi, mentre noi forse siamo il paese peggiore del mondo per quanto riguarda il marketing. Siamo viziati e non ne abbiamo mai avuto bisogno. Però ormai dei fasti dei Romani e del Rinascimento abbiamo solo i fasti, perché non siamo più riusciti a costruire niente. E infatti rimaniamo indietro, ancorati a una teoria che è superata ancor prima di essere pubblicata.

Nello specifico, la teoria di marketing è rimasta indietro di almeno 20 anni, e non abbiamo ancora toccato il fondo. La teoria è una soluzione di comodo che ci permette di mascherare la realtà con supposizioni strampalate e arbitrarie. Lo so, sono abbastanza drastico, ma quando sento parlare di queste cose sto male, perché la teoria al 99% è fatta da teorici che non si scontrano mai con le problematiche vere, con la pratica.

Il meccanismo è tanto semplice quanto deleterio, e non fa altro che allontanarci sempre più dalla realtà: qualcuno fa qualcosa, funziona, poi arriva il teorico che la teorizza, vende libri e diventa un guru, i libri diventano accademici, su questi libri che non toccano terra ci si accultura una o più generazioni, e queste generazioni vengono formate su scenari inesatti e inattuali, utili solo a prendere un pezzo di carta.

Mi capita spesso di sentire i fantomatici guru dire che Burgez avrebbe successo a prescindere dalla sua comunicazione. Capiamoci: innanzitutto questa frase non vuol dire un cazzo; in secondo luogo questa frase viene detta proprio perché ha funzionato il marketing (terzo punto bonus: i guru manco sanno cosa sia il marketing). In Italia ci sono decine di posti che stanno copiando da Burgez senza successo, alcuni addirittura mi chiedono di comprarli. Ricevo proposte di franchising da persone che non hanno mai assaggiato un nostro hamburger. Che ne dite, signori guru, ha funzionato il marketing di Burgez? Magari invitatemi alle prossime conferenze che farete sul mio Brand, magari vi aiuto a dire cose più sensate. Come dicono i The Jackal? “E allora fattelo tu!”.

Quando facevo il critico cinematografico scrivevo cosa fosse un film, senza nemmeno chiederlo al regista. Non dovrebbe funzionare così, ma cosa facciamo, buttiamo tutti a casa (vi dirò…)? Sgarbi è un fenomeno a raccontare una storia, ma non c’entra un cazzo con il significato di un quadro. Non ne saprà mai più o quanto ne sapeva l’artista. Sgarbi eventualmente può contestualizzare un’opera in un momento storico che l’artista per forza di cose si è perso, perché nel frattempo è morto. Ma poi cosa ne può sapere Sgarbi di quella pennellata che l’artista ha dato mentre l’amante entrava in stanza mezza nuda? Oggi siamo dei maestri nel creare professioni staccate dalla realtà -se ci entri e ci credi buon per te, ma la realtà è un’altra cosa.

Rimaniamo in tema: l’arte contemporanea ci piace perché ci piace fare parte di quel consesso, crederci intellettuali, intelligenti e acculturati, ma senza un mercato che se la racconta l’arte contemporanea non potrebbe esistere. Tutta la teoria è così, non tocca terra, e se toccasse terra non sarebbe teoria.

C’è ancora tanto da lavorare: tutti sanno che la Terra gira intorno al Sole, ma se è più comodo sostenere il contrario, tutti lo faranno.

Cosa siamo disposti ad accettare? Sospendiamo il giudizio, come Husserl: facciamo Epochè. Io ho fatto così, ho ricominciato da zero, ho provato, ho capito cosa funzionava e ho scritto i miei libri. Se chi fa si mettesse a scrivere il suo pensiero, tutti ne trarrebbero beneficio. Il libro deve essere scritto dall’imprenditore illuminato, non dal direttore marketing di un’azienda che non è sua. Immaginate se Steve Jobs avesse scritto un libro, se Ferrero o Barilla l’avessero fatto. La teoria serve ai posteri, ma deve basarsi sulla verità pratica. Come è possibile che tutta la teoria che abbiamo studiato ci abbia portato a due guerre mondiali? Forse non l’abbiamo capita, da qualche parte dobbiamo pure aver sbagliato… Ricominciare da zero con i propri strumenti, scomunicare la comunicazione.

Ultimamente si parla tanto di Insight Culturale, ma la parola stessa è un paradosso: insight deriva da intus actionem, intuito. Essere dentro l’attimo, nel vivo della cosa che accade. Culturale significa sovrastruttura, artificio, l’esatto opposto dell’istinto. Ripartire da zero vuol dire andare a ricercare il significato originale delle parole che è stato modificato e stravolto nel tempo.

La scissione tra aletheia e doxa nasce con la Patristica e la Scolastica, due scuole di pensiero che hanno creato un filtro tra noi e il mondo antico dal quale prendiamo la maggior parte dei nostri riferimenti. È colpa loro se leggiamo Socrate e pensiamo che fosse un modesto perché “sapeva di non sapere”. Piccolo spoiler: stava parlando dell’inconscio, lui sa di non sapere perché sa che esiste una parte inconsapevole di lui che predetermina il suo pensiero. Avremmo davvero bisogno di fare Epochè, di studiare tutto da capo, persino le parole che usiamo.

Questo è l’unico insight che ci serve oggi: scomunichiamo la comunicazione, viviamo il presente e costruiamo nuove regole.

Continua con la parte II il 09/06/2021.

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