Il partito tra populismo e disintermediazione

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“Nati per portare la democrazia e affermare il governo dei molti al posto del governo dei pochi — un cambiamento d’epoca che ancora stentiamo ad apprezzare — i partiti sono stati individuati come attori principali del cambiamento politico”, scrive Mauro Calise in Come cambiano i partiti.

Lo spazio della politica negli ultimi anni è mutato profondamente, diventando un campo dove si confrontano partiti senza società, leader senza partiti, in rapporto diretto con il pubblico attraverso la televisione e la rete, con la fiducia sempre più logorata dalla crisi economica.
Oggi siamo di fronte a un passaggio critico tra diversi modelli di democrazia rappresentativa e spesso ne risente anche il linguaggio, come dimostra la diffusione del prefisso “post”. “Post-democrazia” come il titolo di un celebre saggio di Colin Crouch, o si pensi al dibattito in voga sulla “post-verità” dopo il voto su Brexit e l’elezione di Trump negli Stati Uniti.

La discussione sulla democrazia rappresentativa trascina inevitabilmente con sé una riflessione tra diversi tipi e modelli di partito, perciò la metamorfosi e la crisi dell’attuale sistema avviene in parallelo alla metamorfosi e alla crisi dei partiti.
Come spiega Ilvo Diamanti, con il tramonto della democrazia dei partiti, negli ultimi trent’anni si afferma la “democrazia del pubblico”, i partiti si riducono a comitati di dirigenti che, per mantenere il consenso, attribuiscono spazio crescente alla personalizzazione e alla comunicazione, in uno scambio non mediato, disintermediato, con l’opinione pubblica.

Questi fenomeni globali si innestano in un paese, l’Italia, caratterizzato da alcune specificità che l’hanno differenziato dalle altre democrazie europee.
Il vincolo geopolitico internazionale, l’impossibilità dell’alternativa politica, la Seconda Repubblica e la sua crisi attuale, non hanno permesso una vera regolamentazione dei partiti politici e l’attuazione dell’art.49 della Costituzione.

La crisi dei partiti, che in Italia si sta dimostrando particolarmente profonda, è diffusa anche nel resto d’Europa. Si pensi al voto sulla Brexit, allo stallo politico recentemente risolto in Spagna, ai timori sul voto in Francia e in Olanda, alla crisi di Angela Merkel in Germania.
I problemi della democrazia rappresentativa si rovesciano così non solo sui partiti ma anche sulle istituzioni, generando così un diffuso senso di sfiducia nell’opinione pubblica, che erode ideologie, appartenenze, sicurezze.

Disintermediazione, populismo, la democrazia moderna è stata travolta dai cambiamenti che riguardano il sistema dei media e la formazione dell’opinione pubblica. Come sostiene Manuel Castells in Reti di Indignazione e speranza. Movimenti sociali nell’era di Internet, gli attuali sistemi politici non rappresentano più i valori e gli interessi dei cittadini, ma oggi non c’è nessun progetto chiaro di democrazia alternativa. La “democrazia della Rete” o l’“iperdemocrazia”, secondo la definizione di Stefano Rodotà, sta mostrando tutti i suoi limiti. Tuttavia, le reti di Internet e le reti sociali consentono alle persone di mobilitarsi senza leader e organizzazioni, permettono a esperienze sociali periferiche di connettersi liberamente senza il controllo dei soggetti politici e dei media tradizionali.
Del resto, spiegava Bauman in una sua recente intervista su Espresso, “se le democrazie non riescono a realizzare le aspettative, non è strano che si cerchi qualcuno a cui attribuire una funzione salvifica, l’uomo “di polso” che sembra in grado di realizzare ciò che le democrazie non sanno mantenere”.

In questo contesto emergono alcuni nodi irrisolti, alcune questioni non più rinviabili nel nostro sistema politico e partitico.
La Costituzione indica qual è la missione dei partiti nel paese e ancora oggi il panorama politico non interpreta fedelmente il dettato, come specificato da Clementi (Prime considerazioni intorno ad una legge di disciplina dei partiti politici, in Federalismi.it 6/2015).
Esistono un ddl e alcune proposte di iniziativa parlamentare che affrontano i temi portanti: garantire una maggiore trasparenza nella gestione, anche economica, dei partiti, dei movimenti e dei gruppi politici organizzati, e favorire la più ampia partecipazione democratica dei cittadini.

Alcuni punti sembrano prioritari: conoscibilità e trasparenza delle regole di adesione e partecipazione alle attività, tutela delle prerogative degli iscritti e delle aspettative di quanti ambiscono a iscriversi. In secondo luogo, occorrono regole chiare nella definizione e selezione dei candidati. Chi scrive vede nelle primarie la strada privilegiata ma, in ogni caso, pur lasciando libertà ad ogni forza politica, è necessario garantire la partecipazione degli iscritti nelle fasi di formazione della proposta e nella selezione dei candidati. Importante è anche la previsione di un diritto di accesso all’anagrafe degli iscritti (nel rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali), che potrebbe rivestire un ruolo cruciale nelle attività elettorali interne, perché consentirebbe di verificare aderenti e aventi diritto al voto.
Alcune di queste proposte sono contenute anche nel documento congressuale di Andrea Orlando.

Ignazi ha coniato l’espressione “partiti Stato-centrici” per le organizzazioni che anziché trarre legittimazione e risorse finanziarie dai propri iscritti le traggono dal rapporto con lo Stato, dove gruppi parlamentari e dirigenza centrale sono largamente coincidenti. Partiti che, “preso atto che il loro ruolo storico di rappresentanza sociale si era visibilmente ridotto, si sono incuneati nello stato diventando vere e proprie agenzie per la gestione di risorse pubbliche, a vantaggio degli eletti più che degli elettori” (Sergio Fabbrini, Addomesticare il principe. Perché i leader contano e come controllarli).
Questo spostamento di asse verso gli eletti e le istituzioni fa il paio con i nuovi modi di contribuire alla vita di partito che convivono con quelli precedenti: c’è chi è sempre presente e organizza quella quotidianità indispensabile per un’unità di base; c’è chi è uno sporadico militante che però contribuisce al dibattito culturale interno; e ora c’è anche chi non può garantire una militanza “fisica” ma che contribuisce alla vita del partito grazie al suo networking. In buona sostanza, con il mutare delle condizioni sociali, economiche e tecnologiche sembra essere emersa una distinzione tra una militanza “quantitativa” e una “qualitativa” (cfr. Fabrizio Barca e altri).

Oggi “l’asse della mobilitazione si è spostato entro settori sociali molto più frammentati, molto più acculturati e gelosi della propria indipendenza, più insofferenti ai rapporti comando-obbedienza, complessi e per tutti questi motivi meno stoccabili nei contenitori di una volta”, così Marco Revelli in Finale di partito.
È quel che Ingelhart chiama “mobilitazione cognitiva”, in opposizione alla “mobilitazione sociale” precedente, che oggi potremmo anche chiamare “creatività sociale. Come il vecchio partito di massa organizzava la democrazia aprendo le porte dello Stato ai ceti popolari, così oggi un partito che voglia chiamarsi democratico non a parole deve organizzare la creatività sociale” (Walter Tocci, Dalla formazione all’informazione. Formazione e professione politica ieri e oggi).

Le primarie per selezionare leader e candidati, da occasione di partecipazione civica e mobilitazione politica, si sono rivelate nel tempo uno strumento che necessita di alcuni accorgimenti quali, ad esempio un registro di elettori e simpatizzanti a cui iscriversi entro un dato tempo. Fabbrini mette in guardia da alcuni rischi legati all’adesione acritica al modello americano: “I nostri sistemi istituzionali non possono funzionare con i partiti dei candidati, pena rischio di ritornare alla politica trasformistica dei notabili del passato. […] Un buon progetto di primarie di coalizione deve anticipatamente regolare l’insieme degli attori e della relazioni che viene attivato dal processo di selezione. […] L’apertura dei partiti alla società non costituisce un avanzamento del processo democratico se tale apertura finisce per favorire i candidati ricchi, o con gli amici influenti o con gli accessi privilegiati al sistema informativo”.

Sul fronte delle risorse, e in relazione all’art.49, come illustrato da Amato e Clementi in un saggio comune, il finanziamento “è uno degli strumenti principali che le democrazie moderne si sono date per allargare e dispiegare tutte le potenzialità e le tecnicalità per favorire la partecipazione e il concorso di tutti i cittadini […]”.
Con il 2017 il finanziamento pubblico dei partiti in Italia cambierà per sempre, una rivoluzione che sta mettendo a dura prova la sopravvivenza delle strutture e delle articolazioni territoriali dei partiti e che obbliga il nostro ordinamento a compiere una scelta tra la tensione verso un modello di stampo americano o il ritorno verso la scelta di alcune democrazie europee, in testa Germania e Spagna.
Un punto di equilibrio potrebbe essere trovato nelle considerazioni di Amato e Clementi sui matching funds: “un finanziamento pubblico di tipo diretto, inteso come contributo per l’attività politica, è ammissibile solo in ragione percentuale a quanto ottenuto dai partiti con erogazioni liberali, anche allo scopo di evitare la formazione di piccoli gruppi politici, che nascono e restano in vita solo perché possono avvalersi di contributi pubblici e di agevolazioni”.

In conclusione, un tema appena accennato che sarà un’ulteriore frontiera di riflessione per i partiti che verranno. Mattia Diletti, nel suo volume “I think tank”, sostiene che siamo di fronte — come già illustrato in precedenza — all’emergere di un arcipelago, a una rete di militanze, a multiformi modi che la contemporaneità ci mette a disposizione. Iscritti, elettori, volontari, ma anche chi milita in organizzazioni di cittadinanza attiva o chi mette a disposizione il proprio sapere attraverso centri studi, riviste o think-tank. Alla gerarchia subentrano network o reti organizzative, i confini con l’ambiente esterno sfumano e al loro posto subentrano complessi sistemi di scambio, dove i gruppi più o meno organizzati tendono a sviluppare delle relazioni più aperte e opportunistiche rispetto ai partiti politici. Le trasformazioni che sono sotto i nostri occhi obbligano i partiti a tenerne conto, a operare uno sforzo di apertura verso le nuove forme espressive con le quali le persone si rapportano alla politica.

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Fabio Malagnino
Affinità e divergenze tra i compagni e noi

Giornalista del Consiglio regionale del Piemonte, social, egov/wegov, open knowledge, Torino Digitale. #sansalvario con il cuore alla Puglia. RT is not endorse