Arrivismo e (presunta) “tirannia del merito”

Il malcostume che affossa il Bel Paese

Alfonso Fuggetta
Commenti & Riflessioni
5 min readFeb 24, 2024

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Vorrei parlare di un tema che mi sta molto caro, partendo da un elemento di malcostume che forse può apparire poco rilevante o scollegato e che invece, a mio giudizio, è uno dei sintomi che rimanda all’argomento e alle considerazioni di carattere generale che vorrei con voi discutere.

Cambiare lavoro è fisiologico e fin benefico. Capita più o meno a tutti. Si fa un’esperienza, si cresce, si trovano migliori opportunità, si cambia.

Ci sta.

Ma come qualunque fatto della nostra esistenza, quando si esagera, un comportamento fisiologico e virtuoso diventa deleterio e dannoso. Anzi, a volte si stravolge e distorce una naturale dinamica professionale per metterla al servizio di un incontrollato e abnorme arrivismo. È un fatto che colpisce tutte le fasce professionali, ma, ovviamente, con diverse dinamiche e conseguenze.

Premessa: tutti abbiamo le nostre legittime ambizioni. Non è sbagliato o immorale ambire a posizioni lavorative di prestigio o che in ogni caso soddisfino al meglio le proprie attitudini, necessità, desideri. Ne ho scritto ne Il bel lavoro e, in parte, nel saggio che è stato pubblicato in questi giorni, Alla ricerca del buon management. È normale che una persona voglia crescere e anche “fare carriera”. Il punto è come si perseguono queste legittime ambizioni.

Ormai, avendo alle spalle un po’ di anni di professione e di lavoro, riconosco subito alcuni atteggiamenti scomposti e sbagliati.

  • Il segno più evidente di un atteggiamento arrivista è quando una persona passa la maggior parte del tempo a parlare del suo futuro, di quello che vorrebbe fare o essere, e non dei problemi e delle sfide della sua attuale posizione lavorativa. Come se il suo futuro non dipendesse dalla qualità del lavoro di oggi, ma da come si gioca le carte nelle future scelte delle aziende o della politica (parlando di manager pubblici).
  • Un altro segno è l’essere costantemente impegnato a gestire relazioni, ad essere presente nei “luoghi che contano”, ad avere buoni rapporti con “i leader, gli influencers”. Non posso dimenticare una persona “rampante” che in modo trasparente, dopo che mi aveva ripetutamente cercato, avendo detto quel che faccio, mi disse candidatamente “ah, pensavo conoscessi più persone a Roma”. Confesso che non ero per nulla dispiaciuto di averla delusa.
  • Un ulteriore segnale è vedere persone che hanno un numero elevato di cariche, spesso in conflitto di interesse tra loro. Il fatto che mi lascia strabiliato è che “colà dove si puote” questo non venga visto come un evidente segno di inaffidabilità, ma evidentemente come un plus, il segno che la persona in questione debba per forza essere di valore.

Vedendo quel che succede, a volte vengo preso da una sensazione di invidia, di gelosia e anche di rabbia. Anche questo credo sia naturale. Poi però, cercando di essere il più possibile razionale, mi rendo conto che nulla vale più dell’essere libero, del non dover dipendere dai favori o dalle amicizie di alcuno, dell’essere soddisfatto del proprio lavoro e di quello che ogni giorno si fa. Non voglio sembrare un’anima bella: non è per nulla facile vivere con questa attitudine e non passa giorno senza che invece non ricaschi nei sentimenti negativi di cui parlavo in precedenza. Un caro amico spesso mi ricorda e invita ad adottare un atteggiamento positivo quando, chiacchierando dei fatti del giorno, mi lamento o inveisco contro certe scelte e pratiche che reputo scellerate e totalmente dannose.

Il punto però che vorrei sviluppare non ha a che fare con le mie emozioni di fronte a questi comportamenti, che peraltro penso tanti altri si trovino a provare più o meno frequentemente. Il punto è il contesto all’interno del quale questo tipo di atteggiamenti si sviluppa e l’effetto che essi hanno sul nostro sistema economico e sociale, sulla sua competititività e capacità di crescere e svilupparsi in modo positivo e “giusto”.

Ecco, qui mi piace usare la parola “giusto”. È questa per me la giustizia sociale: tutti devono poter realmente avere le stesse opportunità, la possibilità di esprimere se stessi indipendentemente dalla propria condizione economica o dalle origini familiari o dalle opinioni politiche. Chi parte svantaggiato deve essere aiutato e questa scelta deve portare a definire una serie di interventi che lo Stato deve garantire. E deve esistere una vera cultura del merito, dell’assenza del conflitto di interessi, della trasparenza che deve garantire a tutti la possibilità di crescere e svilupparsi, senza doversi genuflettere o impegnare ad avere le giuste amicizie e connessioni. Ogni persona deve sapere che farà carriera per quel che vale e realizza, non per le strategie comunicative e di sviluppo delle relazioni che mette in campo.

(Quanti “deve” ho usato in questo paragrafo!)

Quando lessi La tirannia del merito di Sandel rimasi molto deluso perché dopo una analisi molto dettagliata (e largamente condivisibile) delle distorsioni prodotte da una visione e un’interpretazione sbagliata e distorta del concetto di merito, le proposte che alla fine vengono fatte o sono un rafforzamento di quanto già una vera cultura del merito dovrebbe prevedere, oppure sono posizioni di principio e provocazioni che tali restano. Da ingegnere mi viene sempre da chiedere “e quindi, concretamente che facciamo?”. Se la pars destruens era condivisibile, quella construens mi parve debole, se non sostanzialmente assente.

Se poi applico questi ragionamenti al nostro Paese, trovo insopportabile chi straparla della “tirannia della meritocrazia” che ci affliggerebbe. Un paese dove il familismo arrivista impera, dove comportamenti come quelli che citavo sono la norma, dire che siamo vittime della meritocrazia è quanto di più lontano dalla realtà si possa immaginare.

A volte ci si chiede perché il Paese faccia fatica, perché non decolli e, invece, se va bene, ristagni. Non è per l’Euro o perché “i poteri forti” ci controllano o qualunque altra stupidata leggiamo sui social network. Come diceva Shakespeare nel Giulio Cesare, “𝐿𝑎 𝑐𝑜𝑙𝑝𝑎, 𝑐𝑎𝑟𝑜 𝐵𝑟𝑢𝑡𝑜, 𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑚𝑎 𝑖𝑛 𝑛𝑜𝑖 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑖.” O come suole ripetere il grande Julio Velasco, è la cultura degli alibi che da sempre ci azzoppa (ne parlo ne Alla ricerca del buon management).

Certamente, si potrebbe dire che i meccanismi che la politica o le imprese di fatto impongono definiscono il campo di gioco, ciò che i singoli possono o non possono fare. Ma se più persone decidessero di non giocare quel tipo di partita, forse, e dico forse, una speranza di cambiamento potrebbe un po’ alla volta consolidarsi.

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Alfonso Fuggetta
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Insegno Informatica al Politecnico di Milano. Condivido su queste pagine idee e opinioni personali.