Il coraggio e il privilegio di fallire

Redazione Anticurriculum
Anticurriculum
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5 min readJul 27, 2020
Dal poster delle Fuck Up Nights — Jakarta Vol.3

Cresciamo bombardati da storie di successo: da Mark Zuckerberg che dalla sua stanza ad Harvard ha l’idea per Facebook e diventa uno degli uomini più ricchi al mondo, alla retorica degli emigrati italiani che, sfruttati nel loro Paese, scappano e si realizzano all’estero, al proliferare di libri di self help e coach motivazionali. Il mondo del lavoro è presentato come una spietata arena di competizione. In questa ottica, il fallimento professionale diventa un ostacolo da superare in vista della meta finale: realizzazione, soldi, notorietà.

Secondo un report di HireRight del 2017, l’85% dei candidati mente in fase di compilazione del CV. Specialmente per chi si trova in una situazione di precariato, l’ingresso nel mondo del lavoro appare una sfida all’ultimo sangue sul modello mors tua vita mea: fallire non è un’opzione e certamente presentare il proprio percorso in modo diverso da una lunga strada verso il successo non è una strategia vincente.

It’s ok to fuck up

Da qualche anno, soprattutto nel mondo del tech, la narrazione si è in parte invertita di segno. Nel 2012 è nato il movimento delle Fuck-up Nights: si tratta di una serie di eventi organizzati in più di 90 Paesi e 321 città, in cui professionisti di vari settori espongono alla platea quelli che considerano essere i peggiori momenti della loro carriera, esibendosi in presentazioni in stile Ted Talk, spesso con toni ironici e leggeri. L’ottica adottata ha sicuramente un che di liberatorio. Non è necessario essere dei mostri ultra-competitivi, si può essere umani nel proprio modo di affrontare la vita professionale. Il fallimento viene innalzato a elemento da celebrare, quasi un rito iniziatico di un percorso.

Chi può permettersi di fallire?

Il parlare dei propri fallimenti, dei propri fuck up, è particolarmente glamour nel mondo delle start-up, che per loro stessa natura sono organizzazioni fluide e flessibili, dove gli errori sono inevitabili e molte strategie si fondano sul trial and error. Le start-up hanno un tasso di fallimento molto alto, secondo alcuni studi intorno al 90%. Fallire è dunque messo in conto quando si parla di imprenditoria innovativa e potenzialmente disruptive. D’altronde, l’innovazione di per sé comporta un certo grado di rischio che non può non essere messo in conto.

Proprio i fattori di propensione al rischio sono fondamentali per comprendere un altro punto: non tutti possono permettersi una visione positiva del fallimento. In un articolo del 2017 pubblicato su Stanford Daily, l’autrice Fiona Kelliher prende a esempio alcuni studenti del college americano - un riferimento demografico già appartenente a uno strato sociale piuttosto privilegiato - mettendo a confronto le esperienze di coloro che possedevano una rete significativa di supporto, ad esempio grazie a una famiglia finanziariamente solida, con quelle di coloro che, non potendo contare su reti di protezione individuale o famigliare, avevano maggiore necessità di stabilità finanziaria. Questi ultimi erano ovviamente meno pronti ad avventurarsi nella fondazione di start-up tecnologiche con alta probabilità di fallimento.

Fonte immagine: https://www.stanforddaily.com/2017/04/07/the-privilege-to-fail/

Gli effetti della diseguaglianza di reddito sulla propensione al rischio sono stati analizzati da alcuni studi di economia comportamentale: si è osservato come la propensione al rischio cresca con il superamento della linea di povertà. Chi ha un reddito maggiore è più propenso a intraprendere attività maggiormente rischiose. Continua Kelliher:

Molti studenti a basso reddito o immigrati di prima generazione sono stati così concentrati sull’istruzione e sulla mobilità verso l’alto che non hanno avuto la possibilità di riflettere su chi sono, su cosa vogliono veramente e sul percorso per realizzare le loro ambizioni. Questo li distingue dai coetanei che hanno avuto tempo libero e un costante incoraggiamento a sviluppare questi aspetti di se stessi.”

Per chi proviene da situazioni di svantaggio è quindi più probabile che l’obiettivo sia trovare un lavoro stabile e ben pagato, piuttosto che coltivare ambizioni imprenditoriali ad alto rischio di fuck up, perché più interessati a perseguire un percorso di mobilità sociale verso l’alto o a raggiungere una certa sicurezza economica. Per chi non ha una rete di sostegno è difficile immaginare il fallimento della propria attività lavorativa come qualcosa da cui riprendersi e successivamente da celebrare. Hai davvero tempo o energie per scrivere un libro sui tuoi fallimenti e sui benefici che ne hai tratto quando rischi di non riuscire a pagare l’affitto o le bollette? In questo caso va considerata anche la dimensione di genere: in tutti i Paesi avanzati la propensione ad avviare nuove imprese è significativamente più alta tra gli uomini che tra le donne. Questo dato è legato non solo alla disponibilità di risorse (inferiore per le donne) e alla scelta dei percorsi di studio, ma anche al carico di lavoro domestico che ancora grava sulle spalle femminili, che lascia alle donne meno tempo per dedicarsi ai propri progetti imprenditoriali.

In conclusione, se un approccio più positivo ai fallimenti lavorativi è utile per scardinare la narrazione del successo a tutti i costi e la conseguente perenne ansia da prestazione, non bisogna dimenticare che la possibilità di continuare a fallire “per poi rialzarsi più forti di prima” è garantita solo a chi si trovi in una condizione privilegiata per risorse, reti di contatto, protezione sociale, genere ed etnia di provenienza.

Celebrare l’idea di fallimento in astratto, senza tenere in considerazione le diseguaglianze sistemiche esistenti, rischia solo di legittimare un sistema discriminatorio e ingiusto.

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