Il Fondo Formazione Casalinghe non aiuta davvero chi svolge un lavoro di cura

L’iniziativa promossa dalla ministra Bonetti non mira né a una valorizzazione delle mansioni domestiche e riproduttive né al contrasto alle discriminazioni sessiste sul mercato del lavoro.

Redazione Anticurriculum
Anticurriculum
4 min readAug 17, 2020

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Nel cosiddetto Decreto Agosto,è stato previsto lo stanziamento di 3 milioni di euro annui per un provvedimento noto come “Fondo Formazione Casalinghe”, le cui modalità di attuazione e fruizione dovranno essere specificate in un decreto del Ministero delle Pari Opportunità e della Famiglia entro il 31 dicembre 2020. Il provvedimento, voluto dalla ministra Elena Bonetti, mira a “favorire l’acquisizione di nuove competenze e l’accesso a opportunità culturali e lavorative” per le donne che lavorano a casa.* L’obiettivo di più ampio raggio, sempre secondo la ministra, è quello di offrire alle casalinghe opportunità di “empowerment”: acquisire competenze digitali e finanziarie in modo da essere spendibili sul mercato del lavoro. Tuttavia, il provvedimento non sembra né sostenere in maniera significativa coloro che svolgono attività di cura non retribuite né contribuire a rimuovere gli ostacoli per una maggiore inclusione femminile nel mercato del lavoro produttivo.

L’intento è quello di offrire opportunità lavorative alle casalinghe senza però riconoscere il lavoro che già svolgono. Il lavoro di cura e riproduttivo comprende infatti una varietà di mansioni: non solo la riproduzione della specie umana, ma anche le attività necessarie al suo benessere (educazione, salute, relazioni, pulizia degli spazi). Svolto per la stragrande maggioranza da donne, il lavoro riproduttivo è spesso invisibile e svalutato sia sul piano sociale che economico. La situazione peggiora al crescere di povertà, marginalizzazione e razzializzazione.

La rete Global Women Strike e la piattaforma Green New Deal for Europe hanno lanciato a fine marzo una petizione chiamata Care Income Now!, una lettera aperta ai governi globali per il riconoscimento economico dei lavori di cura. La campagna per il reddito di cura non è nuova nel panorama delle lotte femministe: la campagna Wages for Housework nacque infatti in Inghilterra nel 1972, su iniziativa dell’attivista e scrittrice femminista Selma James. L’obiettivo di combattere le diseguaglianze di genere, razza e classe intrinseche nel lavoro domestico ha portato a individuare la centralità di un reddito di cura sia come strumento di autodeterminazione femminile sia come riconoscimento sociale di un’attività invisibile e invariabilmente sotto-retribuita o non retribuita. Il lavoro di cura ha una funzione riproduttiva non solo a livello domestico, ma anche di legami comunitari, sostenibilità ambientale e mantenimento del benessere collettivo, ed è per questo fondamentale durante i periodi di crisi globale come quello che stiamo vivendo (come ha scritto Laurie Penny in questo articolo).

Il discorso sul reddito di cura nasce e si articola svincolato da una logica di mercato. Le attività riproduttive sono essenziali per la sopravvivenza umana e il loro riconoscimento pubblico può passare anche attraverso un sostegno economico. La versione italiana del Fondo Casalinghe, però, presenta diversi problemi in ottica di politiche di genere: a parte la modestissima entità dello stanziamento, la misura non rende meno invisibile o meno gravoso il lavoro domestico, anzi rischia di spostarlo sulle spalle di donne più povere o marginalizzate. Mentre alcune donne (probabilmente italiane e probabilmente di classe media) potranno avvalersi dei corsi di formazione e di avviamento al lavoro, saranno migranti o persone appartenenti a minoranze a farsi carico delle mansioni domestiche al posto loro. Nel frattempo tutte coloro che non hanno la possibilità di appaltare il lavoro di cura, semplicemente non usufruiranno della formazione. Il lavoro invisibile non verrebbe riconosciuto o valorizzato, ma spinto ai margini ed escluso dal dibattito. Inoltre, in assenza di investimenti pubblici in servizi di qualità (educativi, sanitari, sociali), il lavoro di cura rappresenterà sempre un’attività gravosa per chiunque la svolga — che sia una casalinga con ambizioni imprenditoriali o una lavoratrice immigrata senza contratto.

Credits: Anne Taintor

Dall’altro lato, la “formazione” per le casalinghe creerebbe un gruppo di persone mediamente competenti che avrebbero la possibilità di chiedere accesso al mercato produttivo. Il sessismo nel mondo del lavoro però non riguarda solo la formazione; anzi è ben noto che anche donne molto competenti e formate nel loro ambito si scontrano con barriere all’entrata, pregiudizi, disparità salariali, molestie. Le casalinghe formate tramite il fondo del Ministero avrebbero davvero possibilità di accesso a un lavoro giustamente retribuito oppure sarebbero trattate alla stregua di un “esercito occupazionale di riserva”, a cui offrire poche garanzie e salari da fame? Se si ha politicamente a cuore la parità tra i generi non ci si può limitare all’offerta formativa: servono inevitabilmente politiche più incisive e radicali anche all’interno del mercato produttivo.

Insomma, sembra che il dibattito globale sul riconoscimento del valore sociale della cura in Italia non sia decollato. Ci si focalizza ancora sulle competenze individuali e sul concetto di “empowerment” caro al pensiero femminista liberale (cioè incentrato sull’emancipazione individuale all’interno del sistema capitalista invece che sulla liberazione collettiva), piuttosto che su un autentico svincolamento dalle logiche sessiste, sia nella sfera domestica che in quella produttiva.

*Non viene fatto riferimento agli uomini che svolgono attività di cura. Si tratta di una minoranza in Italia (circa centomila). Nel testo del decreto si parla esplicitamente di “donne” come beneficiarie della misura, tuttavia un decreto del Ministero delle Pari Opportunità dovrà stabilire i criteri di attuazione entro il 31 dicembre 2020.

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