Nove consigli di lettura sul mondo del lavoro

Redazione Anticurriculum
Anticurriculum
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9 min readJul 10, 2020

Il panorama dei libri che parlano di lavoro è piuttosto variegato. Per lanciare Anticurriculum, abbiamo deciso di segnalarvi nove tra saggi, romanzi, memoir e manifesti che si occupano degli aspetti più disparati: dalle differenze di classe a quelle di genere, dal lavoro in grattacieli di Tokyo fino a quello nei campi del Sud Italia, dai call center in Sardegna alle pizzerie italiane in Inghilterra.

1. Alberto Prunetti, 108 metri (The new working class hero), Laterza

In questo breve libro autobiografico, Prunetti costruisce una narrazione allo stesso tempo epica, drammatica e umoristica. Figlio di una working class italiana vecchia scuola (suo padre era operaio alle acciaierie di Piombino), il protagonista si ritrova a far parte della nuova classe (sotto)proletaria degli emigranti italiani in Inghilterra. 108 metri è insieme una critica feroce alla narrazione trionfale dell’emigrazione dei giovani italiani all’estero (i cosiddetti cervelli in fuga, che non sono altro che vittime di uno sfruttamento capitalista che non conosce confini nazionali) e un canto d’amore per la classe lavoratrice internazionale che di generazione in generazione tramanda la sapienza della lotta.

«Dovevo scrivere la mia storia, la storia della working class da cui ero nato. Dovevo farla circolare, perché diventasse una minuta proteina di quel codice che avrebbe rotto la catena della sopraffazione. E sapevo anche un’altra cosa. Che se non fossi andato per il mondo, non avrei capito niente della mia storia, della storia della mia parte. E se non si capisce nulla, a cosa servono le mani fini dei privilegiati?»

2. Amélie Nothomb, Stupore e tremori, Voland

Amélie Nothomb, nota scrittrice belga, ha vissuto per un anno in Giappone, Paese in cui ha trascorso parte della sua infanzia. Nothomb viene assunta alla corporation Yumimoto, dove si scontra con un ambiente fortemente gerarchico e a tratti umiliante e violento. Non riuscendo pienamente a interpretare i codici culturali e a integrarsi, subisce una serie di declassamenti professionali (arriva a diventare “guardiana dei bagni”) fino al momento del suo ritorno in Europa. Il tono della prosa è ironico, riuscendo a tratteggiare situazioni e personaggi complessi in modo godibile e divertente.

«Non c’era molta differenza tra il mestiere di monaco copista nel Medioevo e il mio: passavo le giornate a ricopiare lettere e cifre. Il mio cervello non era mai stato così poco sollecitato in tutta la sua vita e aveva scoperto una tranquillità straordinaria. Era lo zen dei libri contabili. Mi sorpresi a pensare che se avessi dovuto consacrare quarant’anni della mia vita a questo abbrutimento voluttuoso, non ci avrei visto nulla di inconveniente.»

3. Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza

In questo testo di denuncia, edito da Laterza, Marta Fana indaga sulle condizioni lavorative in Italia, portando alla luce il dilagare del lavoro povero, spesso gratuito, e l’assenza di tutele e di stabilità. Analizzando le trasformazioni economiche e le scelte politiche che hanno precarizzato il lavoro e inasprito le disuguaglianze sociali, l’autrice ribalta la rappresentazione del lavoro dominante, dando un nome alle condizioni che oggi in troppi sono costretti a subire: sfruttamento. La solitudine e la frammentazione create dai processi di precarizzazione tendono a nascondere il conflitto insito in essi e a negare la matrice collettiva dei rapporti di lavoro. Recuperare quella coscienza di classe oggi negata è necessario per dare vita a una resistenza attiva che mostri le contraddizioni del modello di sfruttamento attuale, opponendosi all’impoverimento di fasce sempre più ampie della popolazione.

«Così, negli ultimi decenni, è andata diffondendosi sempre di più la figura del giovane con la partita Iva: libero di solcare i contratti a progetto, le prestazioni occasionali, di non arrivare a fine mese e di non avere diritto al reddito nei periodi di non lavoro. Non vincolato da un contratto, libero di essere pagato quanto e quando vuole l’azienda e di non avere alcun potere negoziale.»

4. David Graeber, Bullshit Jobs, Garzanti

Questo libro, opera dell’antropologo di scuola anarchica David Graeber, nasce come ampliamento di un’ipotesi espressa dallo stesso autore in un saggio del 2013 (che potete leggere qui): la nostra società si basa su una miriade di impieghi che non hanno nessuna ragione di esistere e che sono proliferati nonostante la crescente automazione delle mansioni nel settore produttivo industriale. Pensiamo a tutti i lavori del settore terziario: i consulenti di diritto societario, gli esperti di marketing, i lobbisti. Professioni che non solo non portano alcun giovamento alla comunità, ma che si fatica a comprendere come possano essere davvero remunerativi perfino per le stesse aziende.

Graeber compie una rigorosa analisi sociologica e antropologica del concetto di “lavoro del cavolo” (anche se la traduzione corretta sarebbe più lavoro di merda) nonché del capitalismo burocratizzato e manageriale del XXI secolo. Il pregio del libro, oltre alla sua lucidità di analisi, è quello di essere un testo accademico che si legge scorrevolmente; l’autore fa ampio uso di interviste a singoli lavoratori per validare la sua ipotesi.

«E’ come se qualcuno ci costringesse a svolgere compiti privi di scopo soltanto per tenerci tutti occupati […] Questo è appunto il tipo di problemi che la concorrenza di mercato dovrebbe risolvere. In base alla teoria economica, se non altro, l’ultima cosa che un’impresa a scopo di lucro farà sarà sborsare soldi a lavoratori di cui non ha affatto bisogno. Eppure, per qualche ragione, succede proprio questo.»

5. Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, minimum fax

Il saggio di Ventura, pubblicato da minimum fax, affronta in maniera provocatoria e dissacrante, ma estremamente lucida, il fenomeno della “disforia di classe” di cui soffre un’intera generazione nata borghese. Attraverso citazioni tratte da testi di economia e sociologia, ma anche di letteratura e teatro, l’autore delinea un’autocritica della classe media contemporanea. Pur sperimentando una mobilità discendente, i membri di questa “classe disagiata” si rifiutano di accettare lo sfasamento tra identità sociale percepita e risorse effettivamente disponibili, vivendo al di sopra dei propri mezzi, in attesa di realizzare il futuro che pensano di meritare. L’illusione, insita nella narrazione delle professioni del terziario avanzato e dell’industria culturale come occasioni di piena realizzazione identitaria ed economica, viene svelata in tutta la sua crudeltà.

«Dalla scuola al mondo del lavoro, dall’università ai social network, si spendono intere esistenze accumulando segni distintivi che dovrebbero consentire l’autorealizzazione. Ognuno vorrebbe diventare ciò che nel proprio cuore sa già di essere. Di fatto invece si scatena una competizione infinita tra pari, un’escalation di sacrifici che impoverisce tutti quanti. E trasforma una classe relativamente agiata, destinataria di una quota importante del plusvalore mondiale, in classe disagiata.»

6. Aboubakar Soumahoro, Umanità in rivolta. la nostra lotta per il lavoro e il diritto alla felicità, Feltrinelli

Aboubakar Soumahoro, oggi attivista sindacale, parte dalla sua esperienza personale come lavoratore migrante per raccontare le lotte per il lavoro nell’Italia contemporanea. Il libro, edito da Feltrinelli, mostra come siano peggiorate drammaticamente le condizioni materiali e immateriali di tutti i lavoratori, e analizza i processi che hanno portato alla diffusione del lavoro flessibile e alla riduzione delle tutele. In questo contesto i lavoratori migranti rappresentano una categoria particolarmente vulnerabile. Impiegati soprattutto nell’edilizia, nella logistica, nell’agricoltura e nel settore dei lavori di cura, data la loro situazione giuridica sono più esposti a disparità salariale, al licenziamento e a forme stratificate di ricattabilità. Soumahoro sottolinea con forza la necessità di affrontare questa situazione attraverso un’azione sindacale capace di unire tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro provenienza geografica, per lottare per la giustizia sociale e il diritto alla felicità di ogni essere umano.

«In quel momento, mi sentii davvero confinato all’angolo del ring. Un angolo nel quale ero solo, pur essendo nella medesima condizione di milioni di persone. Un angolo in cui non ci sono solo i lavoratori migranti, ma i braccianti, i rider, i facchini, i ricercatori, i giornalisti precari e tutti i lavoratori deboli. Quello stesso angolo rischia di diventare il buco nero in cui precipiteranno sempre più persone, perché la riduzione delle tutele a un segmento di lavoratori crea una insostenibile concorrenza al ribasso tra sfruttati. Questa situazione porterà a una regressione generalizzata, perché i diritti del lavoro, se non sono per tutti, non saranno poi per nessuno.»

7. Michela Murgia, Il mondo deve sapere, Einaudi

Era il 2006 quando Michela Murgia iniziò a raccontare sul suo blog della vita da telefonista part-time precaria per un’azienda di aspirapolvere. Camilla, alter ego dell’autrice nel romanzo, si ritrova a vendere per telefono il famigerato Kirby, un elettrodomestico multifunzione impreziosito da un fantomatico “brevetto NASA” a ignare casalinghe. La condizione descritta è familiare a molti “lavoratori a progetto”, rimasti impigliati nelle maglie di un sistema imperniato sulla famigerata flessibilità. La cosa peggiore, però, di questa moderna versione dello schiavismo sono le narrazioni che ruotano attorno a essa: la competizione, la divisione della forza lavoro tra vincenti e perdenti, le umiliazioni, l’epica inquietante delle riunioni motivazionali e delle punizioni esemplari.

«C’è qualcosa di imprevedibilmente divertente nel fatto che qualcuno veda in me la Giovanna d’Arco dei precari, la pasionaria delle vittime della flessibilità biagiana, la vendicatrice degli schiavi del Co.Co.Pro. Ho sempre saputo che qui in Kirby Co.Co.Pro. vuole dire Collaboro consapevolmente prono e la flessibilità indica solo la diversa inclinazione del pronarsi. Ho firmato io quel contratto e sapevo esattamente dove mi stavo andando a ficcare. Però mi resta la speranza che qualcuno che potrebbe farlo inconsapevolmente possa passare prima da qui. E’ una strana forma di riscatto a ben vedere. Ma io sono sempre stata una romanticona.»

8. Richard Sennet, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli

Pubblicato in Italia nel 1999 da Feltrinelli, il saggio di Sennett illustra come l’avvento del capitalismo flessibile abbia annullato le certezze del lavoratore, a cui si chiede di essere versatile, sempre pronto a cambiamenti improvvisi e disposto a correre rischi. In un mondo in cui si predica che ogni cambiamento sia di per sé preferibile alla continuità (o immobilità), la libertà data dalla flessibilità è solo apparente. Crescono il disordine e la pressione sul lavoratore, che non ha indicazioni chiare rispetto alle mansioni e agli obiettivi da raggiungere, ai criteri su cui si basano promozioni e licenziamenti. Non ci sono indicatori per capire se si stia facendo bene. L’incertezza costante porta a uno stato di logoramento e vulnerabilità che ha gravi conseguenze sulla vita emotiva. Attraverso varie testimonianze, Sennett racconta come l’identità non sia più definita in base all’impiego: il tempo flessibile rende impossibile la continuità narrativa della propria carriera come sviluppo interiore.

«Una visione ironica di se stessi è la logica conseguenza della vita nel tempo della flessibilità, senza standard di autorità e responsabilità. […] Nel mondo moderno questo tipo di personalità ironica diventa autodistruttiva; dal credere che non esista niente di stabile si passa a “io non sono del tutto reale, e i miei bisogni non hanno consistenza”. Non c’è nessuno, nessuna autorità, che possa riconoscere il valore di questi individui.»

9. Caroline Criado Perez, Invisibili, Einaudi Stile Libero

Invisibili non è un testo dedicato esclusivamente al lavoro, ma una disamina a trecentosessanta gradi di come il mondo sia sistematicamente costruito “a misura di maschio”. Al lavoro (produttivo e di cura) è dedicata un’intera sezione dell’opera. Criado Perez illustra come, dalla temperatura media degli uffici alla misura dei guanti protettivi fino al fenomeno degli abusi sessuali nei luoghi di lavoro, gli standard di comfort e di sicurezza siano tarati sull’essere umano “di default”: un maschio, possibilmente bianco, abile e normopeso.

«Le donne hanno sempre lavorato. Senza stipendio, sottopagate, disprezzate e invisibili, eppure hanno sempre lavorato. Il problema è che oggi i luoghi di lavoro non lavorano per le donne. Sedi, orari, standard normativi sono progettati intorno alla vita degli uomini e non corrispondono alle esigenze attuali. Il mondo del lavoro, le sue regole e i suoi strumenti, la sua cultura, vanno completamente ripensati, e il motore di questo cambiamento devono essere i corpi e le vite delle donne.»

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