Voglio fare un gioco con te

La gamification aziendale e il consenso

Redazione Anticurriculum
Anticurriculum
6 min readAug 4, 2020

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Anche Saw - L’Enigmista, a suo modo, è una gamification

Non solo nelle barre che indicano l’avanzamento di un video, o nei “badge” che molte app assegnano man mano che le si usa. La gamification è applicata a ogni ambito, e con i metodi più diversi.

La gamification consiste nell’applicare processi tipici del gioco per coinvolgere le persone in un’attività o un prodotto. Come nel gioco, il suo obiettivo finale non è la ricompensa, ma il coinvolgimento genuino del partecipante e la generazione di sensazioni positive (come la famosa “dopamina da social”), che portano al raggiungimento di un obiettivo in maniera più efficiente e con maggior benessere.

Un esempio efficace è quello dell’apprendimento: certi bambini che, a scuola, muoiono di noia a imparare a memoria le capitali europee, fuori da scuola in pochi giorni imparano migliaia di dati relativi alle carte Yu-Gi-Oh!. Stesso obiettivo (l’apprendimento mnemonico), ma miglior risultato e nessuna sofferenza nel processo.

Le grandi aziende hanno presto compreso il potenziale di questo metodo. Da un lato, serve per motivare gli utenti a consumare di più. Sono note le strategie di gratificazione dei social per tenere gli utenti connessi più a lungo, ma simili strumenti sono usati in ogni ambito. Kevin Werbach, co-autore del saggio divulgativo For the Win, in un corso online gratuito fa questo esempio. Affinché i suoi clienti usino di più le sue scarpe (consumandole più in fretta), Nike vi ha inserito un contapassi che, collegato a un’app, sprona l’utente a migliorare i propri risultati atletici.

Oltre che verso i clienti, le aziende usano strategie di gamificazione con i dipendenti. In questo ambito, la gamification può assumere contorni più sinistri. Alcuni articoli (come quello di Fast Company o del Tascabile) fanno degli esempi distopici.

Amazon, Target, il Disneyland Resort Hotel in California. Tutti casi molto simili e altrettanto grotteschi. In quest’ultimo, un tabellone mostra in diretta il tempo impiegato dai dipendenti della lavanderia per svolgere ogni mansione. Qualunque rallentamento o — non sia mai — pausa risulta in un declino verticale nella produttività. I dipendenti hanno ribattezzato il tabellone “la frusta”. L’articolo del Tascabile — pur critico — per spiegare questi esempi tira in ballo la dopamina e l’“hackeraggio della psicologia umana”: ogni volta che il tabellone mostra il tuo nome associato a una performance buona, riceverai una sensazione di gratificazione. L’accostamento di immagini da “taylorismo sotto steroidi” con spiegazioni sulla gratificazione ormonale, però, lascia intravedere una semplificazione evidente. Non saranno forse la pressione aziendale, e la paura di ripercussioni, a spingere gli impiegati a perdere la propria salute pur di non abbassare le proprie performance?

Quello che gli articoli catastrofisti non dicono è che la letteratura scientifica si è espressa da parecchi anni su questo tipo di gamification, bocciandolo anche dal punto di vista della produttività. Innanzitutto, uno strumento di gamification che abbia più stimoli negativi che positivi porta in breve tempo — come è ovvio — a una perdita di efficienza e motivazione dei dipendenti. Inoltre, una gamification che premi la velocità a discapito dell’accuratezza porterà a peggiori prestazioni. L’intuizione dietro questi metodi è, semmai, che — come in un allevamento intensivo — i soggetti possono essere spremuti e buttati quando subentra l’inevitabile e precoce declino. Ma questo è un altro argomento. Tali comportamenti non sono giustificabili ma non sono né lo scopo né una buona applicazione della gamification.

Ma se i casi visti finora sono criticati dalla ricerca accademica, dove dobbiamo cercare esempi positivi? Gli entusiasti della gamification cosa portano a esempio del funzionamento della disciplina?

Di nuovo Werbach, nel corso online, cita un famoso episodio avvenuto a Microsoft. Windows 7 andava tradotto in innumerevoli lingue nel mondo e, a detta di Werbach, anche volendo Windows non avrebbe potuto appaltare la localizzazione ad aziende esterne per ciascuna di esse. Premessa non verificabile, ma procediamo. Come ha risolto Microsoft? “Gamificando” il problema. Ha sviluppato un giochino, un’app, che si chiama “il gioco della qualità della lingua”, e lo ha diffuso fra tutti i dipendenti. In questo gioco, una frase in inglese è confrontata con altre frasi, che spesso hanno errori grossolani, e che i dipendenti devono correggere. A pagamento? No, su base volontaria. Nelle parole di Werbach “hanno detto: “Guarda, questa è un’occasione per fare la tua parte per la tua azienda e — sai che? — è anche un’occasione per competere con altri uffici Microsoft, perché come vedi c’è una classifica su quanti bug la gente ha trovato.”

Com’è andata? “Si è scoperto che oltre 4000 dipendenti Microsoft erano disposti a sedersi gratuitamente a controllare queste finestre di dialogo. […] non era per soldi, non era necessariamente per il riconoscimento individuale. […] Ma ancora una volta, la struttura del gioco lo rendeva divertente, lo rendeva piacevole”. Si potrebbe discutere se il lavoro non pagato possa essere divertente e se “fare la propria parte per l’azienda” significhi lavorare al di fuori della retribuzione, e per quale motivo. Potremmo anche chiederci quanto la scelta di partecipare fosse libera, e non invece dettata dalla pressione sociale gerarchica e fra pari.

Il problema della libertà di adesione, caratteristica fondamentale del gioco, emerge anche da un altro esempio portato in palmo di mano. Projecfun.com cita il caso di Zappos, un’azienda di e-commerce. Zappos prevede delle donazioni che i dipendenti possono fare ad altri dipendenti come segno di riconoscimento, in una valuta interna utile per comprare premi o oggetti o nella forma di 50 dollari mensili. Una volta al mese, i dipendenti eleggono un eroe del mese che — per mostrare di non prendersi troppo sul serio — deve indossare un mantello per un giorno intero. I dipendenti votano anche per chi fra loro potrà usare il parcheggio dei dirigenti, vicino all’ingresso, per una settimana al mese.

Cosa accade se non vogliono indossare il mantello? O se non vogliono fare, per devozione all’azienda, quello che altri dovrebbero fare a pagamento? Per quanto ‘buona’, qualsiasi gamification per funzionare deve prevedere un’adesione volontaria, e si può discutere su come questo possa essere compatibile con un’organizzazione aziendale. Se il gioco è imposto, la gamification aziendale è davvero diversa da una strategia di controllo dei lavoratori volta a renderli più docili? Gli scenari in cui i giochi sono imposti dall’alto senza il consenso o peggio con un riluttante adattamento da parte dei giocatori, sono per forza distopici e inquietanti. Lo stesso accade in alcune esperienze di team building aziendale (che, anche se non fanno parte della gamification, condividono con essa alcuni aspetti), che possono trasformarsi in giochi di potere alla “se ti dico di ballare, tu balli” (ricordate i video di Banca Intesa diffusi per errore?)

Anche Ramsay era un fan della gamification

Una domanda da porsi è: che cosa si sta gamificando? O meglio, quali svantaggi porta ciascuna gamificazione ai suoi utenti? Nel caso di Microsoft è ovvio: uno sforzo immenso è condiviso fra i dipendenti senza che l’azienda sborsi un dollaro extra. Nell’esempio del parcheggio aziendale, invece, è la competitività fra pari, utile sia a frazionare un corpo di dipendenti (“Rivendicazioni sindacali? No, questa settimana parcheggio vicino ai dirigenti”) che ad aumentare le ore di lavoro non retribuite.

Intendiamoci, la gamification è uno strumento, e come — quasi — tutti gli strumenti, è l’uso che se ne fa a fare la differenza. Se può migliorare la vita del lavoratore che svolge mansioni ripetitive e alienanti, o può aiutare a educare su vari temi (come i diritti LGBTQ+), può anche funzionare come un cavallo di Troia che — sotto un’apparenza invitante — introduce nella vita aziendale ancora più lavoro non retribuito e individualismo. E, come si è visto, spesso le fonti al riguardo praticano un aziendalismo militante che non tiene conto delle ripercussioni sociali e politiche della gamification.

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