(picture uncredited — anyone whose copyright has been inadvertently infringed is invited to contact the Editor)

Il Conte Max

Max Cavalera, ieri nei Sepultura e oggi nei Soulfly: un agitatore sociale con la Seleçao, il Palmeiras e l’Italia nel cuore.

Angelo Mora
Any Rubbish?
Published in
5 min readApr 16, 2015

--

Sei nato a Belo Horizonte, ma tifi da sempre il Palmeiras di San Paolo. Come mai?

Mio padre Graziano nacque a Fiume, che oggi fa parte della Croazia, e crebbe a Gaeta. Si trasferì poi in Brasile per lavorare al consolato italiano; io e mio fratello Igor (ex batterista storico dei Sepultura) siamo nati a Belo Horizonte e cresciuti a San Paolo. Il Palmeiras era la squadra degli italiani di Brasile e il babbo ci portò fin da piccoli all’Estádio Palestra Itália a vedere le partite (Palestra Itália era il nome originario del Palmeiras). Fu lì che Igor scoprì il talento per le percussioni: a sette anni suonava già i tamburi dei tifosi adulti e tutti quanti dicevano: “Questo bambino diventerà un gran musicista!”. La prima squadra del cuore di papà era la Juventus, però. Anch’io tifo per i bianconeri al di fuori del mio paese.

Foto di Paolo Bianco — scattata dal vivo a Rho (Milano) @ Gods Of Metal, giugno 2012

Qual è il derby più caldo di San Paolo?

Storicamente quello con il Corinthians, ma forse negli ultimi tempi è diventato più acceso quello col San Paolo. Il Palmeiras è la squadra della classe operaia, il Corinthians quella della gente del ghetto e il San Paolo quella della borghesia. I nostri tifosi sono molto vicini al concetto di hooligan inglese: dopo una sconfitta, dieci anni fa circa, i ragazzi della Mancha Alvi Verde invasero la sala dei trofei della sede societaria e appiccarono il fuoco per contestare il club!

La scoperta della musica rock in età adolescenziale ha intaccato la tua passione per il calcio?

Da piccolo volevo diventare un calciatore professionista. Io e Igor giocavamo tutto il tempo e ce la cavavamo bene. La mia vita cambiò a quattordici anni, vedendo i Queen dal vivo al Morumbì di San Paolo; era il tour di ‘The Game’, nel 1981… centoventimila persone allo stadio! Un concerto fantastico: roba da pelle d’oca, più che il calcio.

Buona parte dei campioni brasiliani era ed è di colore, ma la maggioranza dei dirigenti e degli allenatori aveva e ha la pelle bianca. C’è un calcio dei neri e uno dei bianchi nel tuo paese?

Sono cresciuto assieme a un sacco di ragazzi di colore e non ho mai avuto problemi con loro; negli anni ’90 mi sono trasferito in Usa, a Phoenix, e lì per la prima volta ho conosciuto il volto brutale del razzismo. Da noi la più grande divisione sociale è quella fra ricchi e poveri e il colore della pelle non è sempre determinante in questo senso. La passione per il calcio unisce la nazione, specie quando ci sono i mondiali, e la parabola del piccolo fenomeno della favela che diventa un atleta ricco e famoso non è un cliché. Pensa a Rivaldo che, da bambino, non aveva nemmeno i soldi per comprarsi le scarpe coi tacchetti… In Brasile il calcio professionistico è tuttora una via di fuga dalla povertà.

Mondiali in Usa, 1994: in quel periodo i Sepultura erano quasi all’apice della popolarità internazionale.

Eravamo in tournée proprio in America, di spalla ai Pantera. Ci procurammo i biglietti per la finale di Pasadena e andammo al Rose Bowl col tour-bus della band; quella stessa sera, poi, suonammo in un’arena in California. Dopo i primi tre pezzi i Pantera ci raggiunsero sul palco per una pazzesca jam-session in onore della vittoria del Brasile. Hai presente “il giorno perfetto” della tua vita? Magico.

Malgrado la ferocia (e le bestemmie in italiano che pronunci quasi sempre sul palco quando suoni da noi), la tua musica trasmette un messaggio spirituale e “Dio” è sempre il primo nome nella lista dei ringraziamenti dei tuoi dischi. È vero che, da bambini, tu e Igor siete stati battezzati in Vaticano?

Nostro padre aveva delle conoscenze politiche che ci permisero di ottenere quel privilegio. Volammo a Roma per essere battezzati in Vaticano con il rituale in latino. Io avevo nove anni e Igor otto: non che capissimo molto di ciò che stava succedendo, per noi due era solo una strana vacanza… Un mese dopo il babbo morì d’infarto e, così, ho un ricordo dolce di quel viaggio in Italia: uno degli ultimi momenti che trascorremmo tutti assieme.

Come la mettiamo con la “Mano di Dio” che, si sa, è argentina?

(ride) Bel bastardo, Diego! Bisogna dargli atto di essere stato il più grande della sua epoca. Certo, in Brasile non è in cima alla classifica della popolarità: mio fratello possiede una maglietta che ritrae un minuscolo Maradona inginocchiato di fronte a una gigantesca statua di Pelé, mentre implora il perdono… A proposito, ho appena finito di leggere una bella autobiografia di Pelé, molto dettagliata. Mi ha commosso il racconto della sua amicizia con Garrincha e del tentativo fallito di aiutarlo a disintossicarsi dall’alcol.

Chi possiede la miglior collezione di maglie ufficiali: tu o Igor?

Lui, perché le conserva meglio. Io a volte le regalo agli amici.

Come te le procuri?

Spesso grazie ai promoter dei concerti e dei festival che mi regalano quella della squadra locale.

Il pezzo più pregiato?

La maglia indossata dal portiere Marcos nella finale dei mondiali del 2002, ancora sporca e autografata. Me l’ha regalata proprio Igor: Marcos è la bandiera del Palmeiras e sono buoni amici.

E la maglia vintage di Altafini… ce l’hai?

Chi?

Josè “Mazzola” Altafini: prima di sbarcare da noi, giocò nel Palmeiras.

Forse so chi è, ma pensavo fosse italiano!

(picure uncredited — anyone whose copyright has been inadvertently infringed is invited to contact the Editor)

Feel free to find more Rubbish @ Facebook and Twitter.

L’intervista si è svolta a Torino @ Gods Of Metal, giugno 2010.

Pubblicata originariamente su Salad Days Magazine #13 (2012) e sul libro ‘Rock’n’Goal’ scritto da Tony Bacciocchi e Alberto Galletti (2013).

--

--

Angelo Mora
Any Rubbish?

Freelance journalist @SaladDays_it @MondoFutbolCom, A&R/promoter @ScarletRecords @BakerteamRec - rock and roll, football & life only, no know-it-all attitudes.