Che cos’è un autore?

Sulla vicenda di “Più libri più liberi”

eFFe
deep: approfondimenti

--

La vicenda è nota già da qualche giorno: a differenza delle scorse edizioni, gli organizzatori dell’importante fiera romana “Più libri più liberi” hanno escluso autori e traduttori dalle categorie di visitatori professionali che hanno diritto — tramite un’apposita procedura di accredito — all’ingresso gratuito. Apriti cielo!

Lo racconta bene Roberto Ciccarelli sul Manifesto: le reazioni non si sono fatte attendere e i primi a scendere sulle barricate sono stati i traduttori, in particolare quelli del network Biblit, i quali hanno lanciato una petizione on-line. E piano piano la marea della protesta sta montando, soprattutto sui social network.

Eppure quella che lo stesso Ciccarelli identifica come una questione centrale — il riconoscimento di una dignità professionale — potrebbe rivelarsi un grimaldello dalle impreviste conseguenze. Se è sacrosanto che a traduttori e redattori (insieme a tutte le figure professionali che lavorano in e per una casa editrice) venga riconosciuto il loro status di operatori del settore, la questione si fa più ambigua per quanto riguarda gli autori.

Mi metto nei panni di quel o quella povera stagista che riceve via mail le richieste di accredito — molto probabilmente precario o precaria, proprio come il redattore che invia la mail — o dell’hostess che riceve le richieste di persona al botteghino nei giorni della fiera, e chi si trova suo malgrado a doversi porre la domanda: che cos’è un autore?

Se è tacito che un traduttore o un redattore svolgano un lavoro per il quale hanno studiato e che richiede competenze specifiche, non si può dire lo stesso per un autore.

O forse sì, ma allora bisognerebbe distinguere caso per caso, o per lo meno costruire tipologie: un poeta che pubblica una silloge ogni dieci anni e che nel frattempo vive insegnando al liceo o gestendo una salumeria è un autore così come quello che tira fuori due libri all’anno e può vivere (almeno parzialmente) delle royalties che riceve? Un ricercatore universitario con decine di pubblicazioni sulla fisica quantistica è assimilabile allo scrittore che si è rivolto in più occasioni a un editore a pagamento e può vantare tre copertine con il suo nome in Comic Sans?

Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, ma il senso è chiaro: alla bibliodiversità corrisponde una enorme varietà di definizioni di autore. Anzi, mi spingerei, per il gusto della provocazione, a dire che esiste almeno un autore per ogni libro, anche quando la firma è la stessa. Non è un caso allora, che la protesta sia partita non dagli scrittori, ma dai traduttori, che a differenza dei primi sono molto più addentro ai meccanismi e alle procedure del lavoro editoriale.

Ma se gli scrittori — la stragrande maggioranza dei quali, è cosa nota, non campa certo delle royalties dei propri libri — cavalcano l’onda della protesta, finiscono per assecondare una domanda di riconoscimento del loro lavoro che li equipara a qualsiasi altra categoria professionale. Saremmo di fronte, cioè, a un mutamento paradigmatico: il mestiere di scrittore diventerebbe un mestiere come un altro, privo di quell’aura di prestigio e di esclusività che fino a qualche tempo fa sembrava circondarlo.

Uno scrittore che protesta per un mancato riconoscimento professionale, cioè, sta di conseguenza affermando che il suo è un mestiere. Come il fabbro o il calzolaio o l’operaio tornitore.

Se così fosse; se di fronte a una crisi economica che toglie anche quei piccoli privilegi come gli ingressi gratuiti ci fosse un ripensamento della propria identità sociale e del proprio ruolo pubblico; se davvero gli scrittori cominciassero a pensarsi come a dei professionisti della scrittura (e so che molti, anche famosi e bravi, lo fanno già, mettendo a disposizione le loro capacità per una moltitudine di committenti e di contesti, al di là dei libri che scrivono per il gusto — o la necessità personale — di farlo); se questa nuova consapevolezza di sé li avvicinasse ancor di più ai lettori, li facesse prendere coscienza dei meccanismi di funzionamento dell’industria editoriale, li unisse ad altri professionisti per combattere congiuntamente contro alcune storture di questa stessa industria; se tutto ciò accedesse con piena consapevolezza, si tratterebbe di un mutamento da accogliere con grande favore.

Un mutamento che in verità è già in corso da tempo e che questa piccola vicenda romana rende ancora una volta più esplicito. Ha allora ragione Ciccarelli quando afferma che

il pro­blema non è tanto pagare l’ingresso. Ma è il rico­no­sci­mento di una pro­fes­sione, di un lavoro, di una vita pas­sata a pen­sare e fare libri.

Una professione. Un lavoro. Non una missione per conto di Dio.

--

--

eFFe
deep: approfondimenti

Docente di Politica e nuovi media | Editoria | Self-publishing