Puttane in lotta (prefazione)

aQara Pisa
aQara
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24 min readFeb 18, 2017

Di seguito la traduzione della prefazione di “Les luttes des putes”, da noi auto tradotta. Non è permesso usare quest’opera per fini commerciali.

Le prostitute sono sotto i riflettori mediatici a partire dal 2011. Nel dicembre di quell’anno, infatti, Danielle Bousquet e Guy Geoffroy\footnote{Deputati del PS e dell’UPM.} hanno depositato una proposta di legge per rafforzare la lotta contro la prostituzione. Come misura chiave, i parlamentari promotori della legge e i loro sostenitori al governo, Najat Vallaud-Belkacem All’epoca ministra dei Diritti delle Donne e Portavoce del Governo, successivamente ministra dell’Educazione nel governo Valls. prima di tutti, hanno messo al centro la « penalizzazione dei clienti » delle prostitute. Noi, puttane, da quel momento siamo al centro di un dibattito pubblico nel quale si confrontano posizioni contraddittorie. Ci sono innanzitutto coloro che vogliono veder sparire la nostra attività, penalizzando i nostri clienti, poi coloro che vogliono riaprire le case chiuse. Infine molti altri, membri di élites politiche o amministrative, cercano soprattutto di cacciarci dalle strade o dai luoghi in cui lavoriamo o di espellere dal paese quelli e quelle di noi che non hanno i documenti. A quest’atmosfera profondamente repressiva, noi, lavoratori e lavoratrici del sesso, opponiamo delle rivendicazioni che si concentrano attorno alla decriminalizzazione della nostra attività. Si tratta di una proposta spesso mal compresa, ma, bisogna dirlo chiaramente, è la sola proposta che possa migliorare la condizione delle prostitute — sempre che sia questa la reale vocazione delle politiche pubbliche sul tema.

Questo libro vuole difendere questa rivendicazione che risulta oggi essere l’orizzonte immediato delle lotte delle puttane : né caccia alle prostitute (attuata con il pretesto di lottare contro l’adescamento passivo o il prossenetismo), né penalizzazione dei clienti, poiché quest’ultima altro non è che una forma malcelata di esclusione e marginalizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso.
Questo libro, però, è più di questo.
È un tentativo di iscrivere le nostre lotte nel solco di due tradizioni politiche dell’emancipazione: il movimento femminista e il movimento operaio. Questo tentativo può sembrare paradossale, visto che in Francia vari attori, tra partiti politici e società civile in genere, conducono una lotta ideologica per espellerci dai luoghi e dalla riflessione femministe, e per proscrivere l’uso dell’espressione lavoratori e lavoratrici del sesso, che al contrario ci permette di identificarci al movimento operaio. Questo libro non ha dunque l’ambizione di riflettere il punto di vista delle prostitute. Ha piuttosto come obiettivo quello di proporre una prospettiva alle nostre lotte e alle nostre rivendicazioni che si iscriva in una visione globale di emancipazione, in un orizzonte egalitario, in una politica che abbia per scopo quello di estendere la sfera dei diritti sociali di tutti e tutte contro gli attacchi repressivi, razzisti e contro il rafforzamento della precarietà in seno al mondo del lavoro. La nostra riflessione si struttura in una pratica militante ben precisa : la costruzione attiva e l’animazione di un sindacato dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso (STRASS).
Quest’idea di una sindacalizzazione delle prostitute è una tappa decisiva all’interno di un itinerario politico e militante, una traiettoria al tempo stesso personale e collettiva. A 18 anni entravo in \textit{Act UP}\footnote{Associazione parigina di lotta all’AIDS.} e mi dedicavo alla militanza legata alla salute comunitaria e alle lotte contro l’AIDS. A 20 anni cominciavo il lavoro sessuale sul marciapiede dell’Avenue Bugeaud, non lontano dalla porta Dauphine; nel 2005 partecipavo alla conferenza internazionale dei/delle sex workers a Bruxelles. Questi anni furono il teatro di un rafforzamento della repressione — in particolare nel 2003 con la legge per la sicurezza interna che istituiva il reato di adescamento passivo — ma furono anche anni di lotte, di riappropriazione dello stigma di « puttane », attraverso l’idea di una sindacalizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso e, poi, la costruzione dello Strass nel 2009.
Questo lavoro si inserisce in una lotta di lunga durata, in una riflessione collettiva che è ancora ai suoi primi passi. Si tratta di un contributo a questo ragionamento e, spero, di uno strumento per le lotte a venire, tanto dal punto di vista dei temi che prova a sviluppare, quanto in virtù delle alleanze cui tende — attraverso la difesa di un’ambizione : che la sindacalizzazione delle puttane sia ormai sempre più un tema femminista e operaio. Questo libro è dunque anche scritto per allargare le strategie nelle quali la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso sta evolvendosi, poiché il modo migliore per vincere è poter scegliere i propri alleati e i propri nemici. Questo libro prova a diffondere dei saperi, ma anche, forse, a porre le basi per delle future coalizioni in lotta per l’emancipazione.
Una Lotta contro l’Oppressione

[95–113]
Una Lotta Femminista

Cancellati dalla Storia:immaginare e riscoprire le resistenze del passato

L’inno del Movimento di Liberazione Femminista (MLF) comincia con queste parole:
«Noi che siamo senza passato, le donne, Noi che non abbiamo storia…»

Per i lavoratori e le lavoratrici del sesso, il problema è il medesimo. Ufficialmente, le puttane non hanno una Storia. I discorsi dominanti presentano i lavoratori e le lavoratrici del sesso come «persone prostitute» che sarebbero sempre e comunque delle vittime. E allora si può difficilmente immaginare che queste persone possa avere una stria, un qualsiasi potere sul loro destino, e ancora meno la capacità politica di analizzare la loro condizione di oppressione, con le loro parole, e di organizzarsi collettivamente in movimento sociale e sindacale.

Eppure, è il 1973 quando la prima organizzazione dei lavoratori e e delle lavoratrici del sesso, COYOTE, viene creata in California da Margo St. James. In Francia un movimento delle prostitute, e successivamente dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso, nasce al momento dell’occupazione della chiesta di Saint-Nizier da parte delle prostitute di Lione nel 1975. Questi due eventi sono considerati il punto di partenza del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso nel mondo.

Si potrebbe tuttavia guardare a questa emergenza attraverso una prospettiva di più lungo termine. Nel corso della Rivoluzione francese, le donne organizzano numerose azioni, nascono molte associazioni delle donne e queste ultime si fanno portatrici di rivendicazioni femministe. Quante, tra tutte le donne che si sono unite per andare a cercare il re a Versailles il 5 ottobre 1789, erano prostitute? Queste donne del popolo di Parigi erano solamente lavandaie, domestiche oppure sarte? Chi erano le donne che scatenavano delle rivolte per il pane, che occupavano lo spazio pubblico e notturno della città, e che erano pronte a confrontarsi con degli uomini? Chi erano queste donne, nelle strade di Parigi nel primo mattino del 18 marzo 1871, che avvertivano il popolo della Comune dei tentativi dei soldati di Versailles di impadronirsi dei cannoni di Montmartre? Chi erano queste donne che spiavano il nemico in tempo di guerra e che fornivano informazioni preziose a quella resistenza che solo loro riuscivano a mettere in atto? Non erano certamente tutte prostitute, ma si potrebbe dire che tra di loro non ce ne fossero proprio?

Mai o raramente le prostitute sono state menzionate come partecipanti delle lotte femministe e rivoluzionario. Può darsi che fosse così perché le altre femministe e gli altri lavoratori e e lavoratrici non le volessero nel loro movimento? Il movimento femminista era caratterizzato da pregiudizi di classe, e i movimenti sindacali e dei lavoratori hanno per molto tempo cercato di escludere le donne o di accantonarle a ruoli subalterni.

Secondo Judith Walkowitz, che ha studiato la prostituzione in Inghilterra, il lavoro sessuale era un’opzione per molte delle donne del popolo, e queste lo esercitavano frequentemente insieme ad altri lavori. È durante l’epoca vittoriana che la prostituzione è diventata un’occupazione specifica con uno status che attribuiva, a quelle donne che l’esercitavano, una precisa identità caratterizzata dalla depravazione. Sono molte quelle che hanno sin d’allora rifiutato questo status. La ricercatrice Laura Agustin ha scoperto la lettera di una di loro, apparsa sul giornale The Times e datata 1858, che rifiutava l’idea i essere una vittima o di causare un torto alla società.

Venivano messe in atto resistenze individuali e collettive contro i sistemi di regolamentazione. In Francia, la polizia cacciava le prostitute non registrate. Esse venivano chiamate per questo motivo le «disobbedienti». Nel Regno Unito, sin dall’entrata in vigore dei \textit{Contagious Diseases Acts} degli anni 1860, delle prostitute si sono alleate ad alcune femministe come Josephine Butler per tentare di farli abrogare. Sfortunatamente, i loro nomi non sono stati ricordati in queste lotte.

Di fronte alle resistenze delle prostitute nasce il movimento abolizioniste, che cresce molto velocemente dopo la partenza di Josephine Butler per le Indie, dove i Contagious Diseases Acts sono ancora in vigore. Sebbene Butler si fosse sempre opposta alle misure di criminalizzazione della prostituzione, i suoi successori non esitarono a portare avanti una campagna per la penalizzazione dell’adescamento passivo o la chiusura di case, saloni, teatri e degli stabilimenti dove lavoravano le prostitute. La National Vigilance Association è stata un a delle organizzazioni più attive in questa campagna. Ma nei resoconti delle loro riunioni, le militanti si lamentavano della resistenza delle prostitute che rifiutavano di essere salvate:

E una delle ragazze è stata messa nelle mani dei salvatori del suo stesso sesso per essere supplicata, fatta ragionare, cullata […] perché abbandonasse la strada che l’avrebbe portata alla rovina. Essa […] ripeteva ostinatamente il suo desiderio di vivere la vita che aveva lei stessa scelto «per il suo stesso volere»

Questo divieto ha tuttavia suscitato delle resistenze. Nel 1888, a Aldershot, a sud-ovest di Londra, delle prostitute hanno organizzato una manifestazione per opporsi alla chiusura delle case dove lavoravano. Novanta donne hanno marciato nelle strade, alcune di queste a seno nudo, cosa che ha scandalizzato il giornale locale, l\textit{Aldershot Gazette}. I movimenti per «riformare» le prostitute creavano stabilimenti specializzati, dei rifugi finalizzati ad «aiutarle» a cambiare vita. Paula Bartley ha dimostrato come questi movimenti hanno preso le mosse, nel corso della seconda metà del XIX secolo, dalle resistenze delle prostitute alla loro «riforma».

I riformatori erano dispiaciuti del fatto che la maggior parte delle prostitute rifiutassero il lavoro che si proponeva loro. Questi continuarono a cambiare tattica, cominciando a puntare su quelle giovani ragazze che rischiavano di «cadere» e cercando di modificare le priorità concentrando i loro sforzi sulla prevenzione piuttosto che sulla riforma. Ma le giovani, spesso orfani e facenti parte delle classi più povere, non erano spesso meno recalcitranti alla loro autorità.

Il libro di Paula Barley fornisce numerosi esempi di lamentele riguardo alla carenza di giovani formate per lavorare come domestiche nelle colonie, com’è noto, per le famiglie borghesi dell’impero britannico. Non soltanto le giovani adolescenti potevano storcere il naso di fronte al lavoro, ma alcune arrivavano a sfuggirne. Queste giovani donne venivano in effetti separate dalla loro famiglia e dai loro affetti, considerati come nefasti, cattive influenze per loro.

Il lavoro domestico era migliore del lavoro sessuale per le donne? Questo era ciò che i riformatori pensavano; ma mai l’hanno pensato le prime interessate. A San Francisco, nel gennaio 1917, 300 prostitute marciarono verso la chiesa del reverendo Paul G. Smith che portava avanti una militanza contro il vizio e per la chiusura delle case di tolleranza. Esse spiegarono che il lavoro sessuale permetteva loro di scampare alla povertà. Smith propose loro alcuni lavori pagati 10 dollari alla settimana, il salario minimo. Egli suggerì il lavoro domestico come pretesto per tutti quegli uomini che gli avevano scritto di essere pronti a legarsi con una «giovane donna salvata». Sembra che le donne non abbiano apprezzato questa «generosità», preferendo il lavoro sessuale alla cucina di un uomo.

Certamente le resistenze del passato non sono state tutte documentate, in particolare nel mondo non occidentale, vale a dire quello non anglo-sassone.

Le lotte degli anni 1970

Nel 1975, le prostitute di Lione hanno assistito hanno subito un’ondata di omicidi in tutta la regione. Temendo per la loro vita, esse avrebbero voluto che fosse portata avanti un’inchiesta che arrivasse al colpevole, ma la polizia era in primo luogo occupata a reprimere il loro lavoro e a colpirle con delle multe. La repressione poliziesca si accentuò in seguito a nuovi provvedimenti che miravano a far chiudere le case chiuse. Una nuova legge che aumentava le sanzioni era in cantiere. Questa volta, rischiavano anche il carcere. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, spingendole a tentare il tutto per tutto. Il 2 giugno si sono decise a occupare la chiesa di Saint-Nizier e, contro ogni aspettativa, questa azione è diventata uno degli eventi mediatici più discussi dell’anno, dalle pagine delle notizie a quelle che trattavano le più importanti questioni sociali. Sulla chiesa era stato affisso uno striscione che recitava: «I nostri figli non vogliono la loro madre in prigione.» Si trattava di attirare la simpatia dell’opinione pubblica che, in effetti, sembrava favorevole al movimento e alle sue rivendicazioni. Per contrastare l’immagine della puttana bisognava riabilitarsi attraverso quella legittima e valorizzata di «mamma». Il movimento è divenuto velocemente nazionale, insieme ad altri collettivi di prostitute che si sono create nella maggior parte delle grandi città, e che occuparono a loro turno le chiese locali. Dopo essere state cacciate dalla chiese da parte della polizia nei giorni seguenti, hanno organizzato delle azioni simboliche. Ad esempio, un gruppo ha deciso di posizionarsi sui prati del castello del presidente Giscard d’Estaing a Chanonat. L’anno successivo, presso il centro congressi di Parigi, vengono organizzati dei tavoli di discussione sulla prostituzione.

Lo Stato non ha ceduto e, al contrario, si è deciso a gettare discredito sul movimento, accusandolo di essere manipolato dai prosseneti. Una presa di posizione che non mancava di una certa ironia, dal momento che veniva lui stesso accusato dalle prostitute di essere uno « Stato magnaccia ». Ebbene è lo Stato che, più di ogni altro, a causa delle sue forze dell’ordine e della Giustizia, commette la maggior parte delle violenze e delle sottrazioni dei redditi, che sia per mezzo del fisco oppure delle ammende di volta in volta inflitte. Molte prostitute lo accusano di corruzione: sovente i poliziotti giocano il ruolo di protettori o di gestori del racket. Alcune arrivavano ad affermare che il denaro derivato dalla prostituzione e accumulato per mezzo delle ammende e dei racket della polizia servisse a finanziare le elezioni e i fondi illeciti dei partiti politici locali.

È contro i crimini impuniti, la repressione della polizia, le ammende e il rischio di essere incarcerate, la corruzione e il prossenetismo di Stato, che la mobilitazione si è costruita, eppure riemergeva l’eterno dibattito sulla riapertura delle case chiuse. Questa proposta serve spesso a distogliere l’attenzione dal problema e dalle rivendicazioni iniziali. Essa gioca sulla nostalgia del pubblico che ama l’immaginario di questi luoghi di piacere che permetterebbero allo Stato di mantenere il controllo sulle prostitute. Il movimento ha allora portato il suo rifiuto alla riapertura delle case chiuse. Né proibizionismo, né regolamentazione: è dunque agli abolizionisti che le prostitute potevano rivolgersi, almeno in un primo momento. Nel 1975, un’alleanza con gli abolizionisti era prevedibile per diverse ragioni. Ancora non esistevano i maggiori temi di disaccorso. Tutto il mondo parlava di prostituzione, il termine «lavoro sessuale» non era ancora stato inventato, e ancora nessuno tra gli abolizionisti rivendicava la penalizzazione dei clienti. L’abolizionismo non era repressivo e anzi, si opponeva alla repressione delle prostitute. Molte prostitute erano ancora credenti, vicine alla Chiesa e, di conseguenza, ad alcune sue associazioni satellite come il Movimento del Nido. Alla fine, esse avevano semplicemente bisogno di aiuto. Dal momento che non c’era ancora abitudine all’impegno politico, queste si dirigevano verso coloro che tentavano di sostenerle. Dal canto loro, gli abolizionisti credevano che la mobilitazione delle prostitute avrebbe permesso lo sviluppo di una presa di coscienza per tappe, e che esse stesse avrebbero infine operato per fermare la prostituzione.

Nel Regno Unito il Collettivo inglese delle Prostitute, che aveva preso il calco dal movimento francese, rivendicava il fatto di essere «contro la prostituzione e per le prostitute». Per lui, tutte le donne erano in un modo o nell’altro sfruttate dal lavoro, e le prostitute non facevano che esigere un compenso economico per dei servizi sessuali che molte donne dovevano fornire gratuitamente nel quadro familiare. Esse chiedevano un reddito per le madri perché non fossero più costrette a prostituirsi, e affermavano che nel frattempo esse erano chiaramente obbligate a farlo per nutrire i loro bambini. Così, esse accusavano lo Stato di condurre le donne verso la prostituzione per mezzo della povertà, pur punendole, perché osavano andare a cercare risorse economiche fuori dalla famiglia, e dunque in maniera indipendente rispetto al sostegno finanziario di un uomo.

Da allora, si può dire che in un primo tempo il movimento delle prostitute era piuttosto abolizionista e, almeno in Francia, pronto ad allearsi con gli abolizionisti. Ma, molto velocemente, delle crepe hanno fatto la loro comparsa. Sebbene le prostitute non parlassero ancora di «lavoro sessuale», molte tra loro consideravano la loro attività come un lavoro. Nel Regno Unito, lo scontro si apri prevalentemente con certe femministe dette radicali che cominciarono a ordinare loro di smettere di prostituirsi per cominciare a fare un lavoro decente, e che le accusarono di normalizzare gli stupri. Alla fine degli anni 1970 e all’inizio degli anni 1980, la frattura è ben visibile. In Francia, questa frattura è meno marcata, dato che il movimento non riesce ancora a strutturarsi attorno a un’organizzazione.

Quando, nel 1975, debutta in Francia il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso, si iscrive nel contesto del \textit{Mouvement de libération des femmes}. Le MLF, cosi come era chiamato dai giornalisti dell’epoca, voleva aprirsi a tutte le donne, comprese le prostitute. Leggendo le prime pagine del libro di Françoise Picq, \emph{Liberazione delle donne, gli anni-Movimento}, si percepisce che nei tratti primitivi del MLF, le prostitute fanno parte della «classe delle donne». Esse sono schierate accanto ad altra categorie di donne, chiamate a unirsi al movimento e a liberarsi dalla dominazione degli uomini. Nel 1970, esse sono dunque teoricamente le benvenute in questo movimento, benché siano ancora concretamente invisibili come gruppo. Tutto si muove il 2 giugno 1975 con l’occupazione della chiesa Saint-Nizier. Secondo le testimonianze delle prostitute dell’epoca, il loro movimento si situava nel contesto logico del movimento delle donne. Nel suo libro sulla mobilitazione delle prostitute, Lilian Mathieu mostra che esse avevano coscienza dell’esistenza di altri movimenti prima di loro, femministi o omosessuali. E se un gruppo, così stigmatizzato come quello degli omosessuali, poteva mobilitarsi, allora perché non avrebbero potuto le prostitute? Dopo tutto, esse non erano così diverse dalle altre donne. Con l’aiuto delle femministe, esse avrebbero potuto far valere la propria causa più facilmente, sembra, rispetto ad altre minoranze sessuali che erano ancora lontane dall’attirare la simpatia dei Francesi. L’occupazione delle chiese proseguiva in tutta la Francia, e in effetti, delle persone venivano spontaneamente a portare coperte, cibo e altre forme di sostegno.

Di fronte a questo movimento, certe femministe andavano immediatamente a portare il loro sostegno alle prostitute e a incontrarle nelle chiese occupate. Tra loro, le più attive erano le militanti del Planning familiare. Per altre organizzazioni e collettivi, un tale sostegno non era un fatto immediato. All’inizio, tutte le donne erano posizionate sulla stessa linea di uguaglianza, dal momento che nell’anno 0 della liberazione delle donne, ancora tutte dovevano liberarsi. Tuttavia, man mano che gli anni passavano, una divisione cominciava a definirsi tra quelle che si liberavano, che si sarebbero liberate, e quelle che dovevano ancora essere liberate.

Une discussion et ses limites
Le prostitute hanno fatto la comparsa sulla scena politica. Questa nuova situazione interroga le femminista. Fino ad allora, le prostitute non erano considerate un problema sociale e la loro parola era raccolta per mezzo delle testimonianze trascritte da esperti. Questi esperti erano spesso uomini provenienti dagli ambienti della medicina o della polizia. Ma certe femministe cominciano sempre di più a rimpiazzare questi esperti e a permettere che le prostitute non siano più analizzate come un problema. Tuttavia, lo status di vittima che viene ora loro attribuito, non è necessariamente più invidiabile dello status precedente.

Nel giugno del 1975, mentre le prostitute occupavano le chiese, tre figure femministe si riunivano e discutevano di questo movimento e delle eventuali azioni che avrebbero dovuto portare avanti. Kate Millet, Christine Delphy e Monique Wtting sono state filmate nel corso di una riunione pubblica.

Nel corso di questa conversazione, Kate Millet affermava che «la situazione della prostituta rappresenta la forma estrema della situazione di dutte le donne. Esse vivono la loro funzione sessuale così come è definita dagli uomini. Noi le subiamo tutte, ma sono loro che le vivono di più e che sono le più oppresse. » Queste femministe operavano dunque una differenza tra loro e le prostitute. Sebbene tutte le donne siano percepite come una sola e unica « classe » di sfruttati, le prostitute ne erano nondimeno la parte più oppressa.

Queste femminista pensavano di conoscere bene il soggetto dal momento che riflettevano, leggevano e scrivevano sulla questione, ma esse condividevano ancora certi pregiudizi con il resto della popolazione. L’uso dell’espressione « la prostituta » al singolare tradisce in effetto un’analisi distorta biaisée. Esse si chiedevano, per esempio, perché così tanto prostitute mettessero in atto pratiche lesbiche. Esse avrebbero potuto domandarsi, al contrario, perché così tante lesbiche lavorassero nell’industria del sesso.

L’incomprensione era così grande che la giovane Christine Delphy si chiedeva: « Noi chiediamo la libera disposizione del nostro corpo per i nostri desideri, per il nostro piacere, esse chiedono la libera disposizione del loro corpo per venderlo. » Monque Wittig andava ancora più lontano affermando: « Non ho voglia di andare sul marciapiede tutti i giorni per vendere il mio corpo. Trovo che non sia la stessa cosa che vendere i propri libri. E mi sento più libera di vendere dei libri, e allo stesso tempo posso provare un piacere a scrivere dei libri, mentre non posso provare alcun piacere a fare l’amore come prostitute. Non so come posso esprimerla, questa cosa. »

Questa incomprensione era dovuta a una differenza di classe sociale e a dei pregiudizi riguardo alla prostitute. Mettendo in contrapposizione il concetto di « vendere il proprio corpo » a quello di « vendere i propri libri », Wittig schivava la realtà della maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici, che di fatto utilizzano il loro corpo per lavorare, e non solamente per tenere una penna, e che non provano, senza dubbio, alcun piacere nel lavoro che fanno. Dall’alto della loro posizione sociale, era difficile, per queste femministe, immaginare di poter esercitare un simile lavoro sessuale, di collocarsi tra le migliaia di donne che fanno questo lavoro. Kate Millet lo ammette dicendo che poteva conservare al caldo proprio questo pensiero « dietro la testa », sino al momento in cui non ha incontrato delle prostitute per intervistarle.

Kate Millet descriveva molto bene l’impatto che lo stigma di puttana poteva avere sull’insieme delle donne: « La prostituzione è una sorta di mostro di Lock Ness per tutte le donne. Noi siamo tutte coinvolte nel momento in cui ci diciamo, se non ho fortuna mi ritroverò in strada a vendermi, sono protetta, sono salva, questo non mi succederà, posso trovare un altro mezzo per mangiare, ho un fidanzato o un marito, un lavoro rispettabile, una buona famiglia, qualche cosa che mi protegge. Evito questo desti ma queste destino si mostra a tutte le donne ed è forse psicologicamente una della principali ragioni della nostra oppressione. E tutta la società schiaccia le donne che sono cadute ed è la per terrorizzarci tutte, renderci timide, calme e timorose. »

Lo stigma di puttana è di fatto un mezzo di controllo del patriarcato sulle donne. Millet comprendeva che questo stigma di puttana serviva a dividere le donne: « Se si condanna la prostituzione si rischia di condannare le prostitute, o almeno è questa la percezione che esse hanno. Il nostro obiettivo è di realizzare una solidarietà, una comprensione con le prostitute. Noi siamo tutte delle donne. Noi siamo sorelle. » Ma nessuna di loro sembrava sapere come mettere in atto questo desiderio di solidarietà, né sembrava pronta a rimettere in questione i propri pregiudizi riguardo alle prostitute.

Le prostitute non sembravano volere il loro aiuto. In ogni caso, non quelle che Millet ha incontrato negli Stati Uniti. Tentava di spiegare: « Condannando la prostituzione non si dovrebbe scivolare verso ciò che le prostitute sentono come una condanna delle prostitute stesse. Quando, negli Stati Uniti, hanno avuto luogo degli incontri tra prostitute e donne di movimento, questi si sono trasformati in scontri, le prostitute si sentivano condannate e disprezzate dalle donne del movimento allo stesso modo di come lo sono da tutto il mondo. […] Poiché il movimento pensa che nella prostituzione ci sia una forma di schiavitù. […] Ma la maniera con cui gli uomini ci controllano consiste proprio nel separarci e nel dividerci. »

L’alleanza tra prostitute e femministe sembrava piuttosto difficile rispetto a questa discussione. Piene di buone intenzioni, queste militanti pensavano nondimeno di poter sostenere le prostitute. Christine Delphy giustifica il suo ragionamento: « Dato che siamo contro la prostituzione, allora perché sostenere la lotta delle prostitute che chiedono finalmente che siano riconosciute e legali? Allora voglio abbattere questo sofisma. È come se dicessimo che siccome siamo contro il cancro, allora dobbiamo uccidere quelli che ce l’hanno. Mi dispiace, i malati di cancro sono vittime del cancro, e non sono loro che dobbiamo condannare. Dobbiamo sostenerli contro il cancro esattamente come dobbiamo sostenere le prostitute rispetto alla prostituzione. Diciamolo, quello che chiedono le prostitute è che la prostituzione sia un mestiere rispettabile, di non essere punite, di non essere multate per il fatto di prostituirsi. Se ci diciamo: non vogliamo portare il nostro sostegno, perché questo significa sostenere la prostituzione, il fatto che vengano multate certo non impedisce loro di prostituirsi. Esse si prostituiscono in ogni caso. Così facendo non impediamo la prostituzione, ma al contrario aiutiamo negativamente, attraverso il nostro accordo, la società a punirle. Dunque, dire che siccome siamo contro la prostituzione, allora dobbiamo essere contro le loro rivendicazioni, è un’affermazione senza senso. Poiché il fatto che subiscano delle sanzioni, che è ciò che non vogliono, non è qualcosa che sia in grado di sopprimere le prostituzione. »

Delphy tende qui a sostenere le rivendicazioni delle prostitute dell’epoca contro la criminalizzazione del loro lavoro ma non affrontò mai la creazione di un dialogo con le prostitute, essa cercava di convincere le altre femministe a non optare per una soluzione proibizionista e pro-criminalizzazione nell’ambito della loro opposizione comune alla prostituzione. Paragonare le prostitute a dei malati di cancro e delle vittime certo non permette di abbattere il muro di sfiducia. Veniamo sempre collocate in una gerarchia che va dalle povere vittime alle buone femministe che le aiutano a uscire. Questa analisi non offre un rapporto di uguaglianza con le prostitute e, di conseguenza, le condizioni per l’alleanza ne escono compromesse.

Ma andava ancora oltre nella sua idea che le prostitute si trovano in una condizione di inferiorità: « Parliamo da una condizione privilegiata poiché, che sia riguardo alla prostituzione o ai fini molto borghesi che perseguono le prostitute: queste ultime rivendicano una vita molto borghese, un legame con una persona, o la maternità, e spesso sono proprio le ragazze del movimento a dirci che non possiamo proprio sostenere queste rivendicazioni. Ora, penso che si tratti di una posizione di privilegio perché noi possiamo avere tutte queste cose e possiamo rimetterle in discussione, mentre loro no, non possono nemmeno averle. E penso che ciò costituisca una regola generale: non si può andare oltre qualcosa che ancora non si ha. È lo stesso sofisma che si applica nel momento in cui diciamo, perché le donne dovrebbero voler lavorare come gli uomini? È necessaria la libertà di avere la schiavitù del lavoro salariato, prima di poterlo denunciare. Ora le donne non sono nemmeno arrivate a questo punto dello sfruttamento, che è infatti un punto di sfruttamento successivo. »

Kate Millet esprimeva la stessa impotenza nelle difficoltà che viveva nel volere aiutare le prostitute: « A volte è estremamente complicato, a volte si tratta di fare due passi in avanti e tre indietro, a volte potrebbe sembrare uno sofisma o un errore di pensiero, è un labirinto, è una cosa che ha il peso di migliaia di anni. » Ciò la rende ancora più triste per il fatto che le prostitute continuano a subire violenze: « Non avrei mai il coraggio di fare tutto ciò se non fosse che loro lo vivono tutti i giorni, vivono in questo pericolo costantemente. »

Questa volta si tratta ancora di un discorso caritatevole che ignora completamente ciò che le prostitute vogliono, dato che non porta alla fine della loro criminalizzazione. La contraddizione tra questi bei discorsi e la realtà delle prostitute in rivolta è lacerante. Paradossalmente, le femministe parlano di prostitute senza di loro, dicendo di volerle sostenere. La giovane Delphy aveva il merito di paragonare il movimento delle prostitute a quello femminista, nella considerazione che le militanti femministe dovevano sostenere le rivendicazioni delle prostitute senza voler dirigere il loro movimento, esattamente come a loro volta queste richiederebbero la stessa cosa a degli uomini pro-femministi. Millet la pensava allo stesso modo ed era piena di ammirazione verso l’esistenza di un movimento di prostitute in Francia contrariamente agli Stati Uniti, e pensava dunque che le femministe francesi potevano semplicemente sostenere le prostitute e conoscere le loro rivendicazioni incontrandole e ascoltandole. Sfortunatamente, l’incontro tra queste figure è stato inesistente o quasi, e ciascuna ha continuato a parlare senza mai relazionarsi con l’altra.

[134–163]

Opporre una prospettiva femminista sul lavoro sessuale
Si è soliti pensare che la prostituzione consista nel mettere a disposizione degli uomini dei corpi femminili da consumare. È una visione riduttiva che si appoggia su dei pregiudizi sessisti secondo i quali una donna sarebbe ridotta al proprio corpo, il corpo di una donna sarebbe ridotto al proprio sesso, e il sesso di una donna costituirebbe un elemento sacro di tutta la sua identità. Le teorie dell’ « oggettivazione del corpo delle donne » portate avanti dalle abolizioniste tendono a riprodurre proprio ciò che esse stesse denunciano. Le donne che espongono la loro nudità o la loro sessualità diventano « oggetti » dei loro discorsi, e sono giudicate per rendersi complici dell’ « oggettivazione » generale delle donne. È ciò che gli Anglo-Sassoni hanno chiamato slut-shaming, vale a dire il fatto di instillare in loro la vergogna di essere delle « troie » o nel caso specifico delle « puttane ».

D’altronde, la prostituzione non è separata dal resto delle transazioni economiche. Anche dentro le situazioni economiche sfavorite, esattamente come gli altri lavoratori e lavoratrici, i lavoratori e le lavoratrici del sesso sono capaci di negoziare affinché il carico di lavoro sia il più basso possibile, e il reddito estratto da tale lavoro massimizzato. Il rapporto di potere è evidentemente più o meno elevato dipendentemente dal fatto che il mercato sessuale sia a nostro favore o meno, con particolare riferimento alla penalizzazione come fattore decisivo di influenza sulle nostre condizioni di lavoro e dunque sul nostro potere di decisione. Possiamo dire « no » ai nostri clienti e, in questo senso, non siamo a loro disposizione. Questi devono osservare delle regole e sono probabilmente più rispettosi con noi di quanto non lo siano con il loro partner legittimo. Nel quadro dei rapporti cosiddetti gratuiti, non c’è alcuna negoziazione o discussione precedente finalizzata a sapere se c’è accordo sulla durata, le pratiche, la prevenzione, etc. Può essere molto più difficile dire di no a un uomo nel quadro di coppia, della famiglia, e dell’amore, che nel caso del lavoro sessuale dove la carte in gioco sono parecchio diverse.

Sin dalla fine del XVIII secolo, delle femministe hanno paragonato il matrimonio alla prostituzione nell’intento di denunciare lo status di donna sposata. Nel corso dei secoli, la strategia delle femministe è tuttavia evoluta nella direzione di un’estensione dei diritti delle spose, piuttosto che verso l’abolizione del matrimonio come istituzione patriarcale. Il matrimonio è rimasto un’istituzione legittima, anche tra molte femministe, al punto che queste si sono mobilitate a favore del matrimonio per tutti. Dall’altra parte, quelle che difendono dei diritti per le lavoratrici del sesso sono accusate di sostenere il sistema patriarcale. Al posto di questo paradossale impiego di due pesi e due misure, si potrebbe prendere in considerazione l’idea che dare più potere a una categoria di donne che ne sono attualmente provviste permetterebbe di dare un contributo alla lotta contro il patriarcato. È come se dicessimo che dare dei diritti alle spose e alle madri all’interno del quadro del matrimonio e della famiglia fosse una maniera per sostenere il sistema patriarcale. Se solo le madri e le spose avessero dei diritti, capiremmo bene che ciò significherebbe rinforzare un ruolo particolare che ci si aspetterebbe le donne ricoprissero. Ma dare dei diritti a tutte le donne, ivi comprese le lavoratrici del sesso, significa lasciare in primo luogo la scelta, di rifiutare qualsiasi relazione con gli uomini, di stringerla con uno solo, con più d’uno, di richiedere un compenso economico per il lavoro fornito dentro questo quadro, oppure no.

Lottando contro la prostituzione, vogliamo conservare il mito della gratuità nell’economia sessuale del patriarcato. Si può desiderare un rapporto sessuale per accedere a della tenerezza, a dell’affetto, per mettere fine a una disputa, per esprimere della gratitudine, per calmare l’altro, per una sicurezza materiale o emozionale, perché si teme la solitudine, per farsi una migliore reputazione, per beneficiare delle reti culturali e politiche del proprio partner, per avere accesso alla sua cultura e alla sua intelligenza, per tutta una serie di ragioni coscienti o no, senza che ciò comporti un particolare piacere sessuale, o al contrario, perché il piacere consiste proprio negli altri vantaggi che sgorgano dalla relazione. Non si tratta di giudicare, di dire se questo è bene o se è male, ma di constatare che quelle stesse cose che recriminiamo alle puttane e ai cliente di fare apertamente, molte altre persone, in effetti probabilmente tutto il mondo, le fanno in maniera ipocrita secondo degli altri codici sociali. È ciò che Paola Tabet ha chiamato continuum degli scambi economico-sessuali e, in quanto femministe, cerchiamo certamente di puntare all’obiettivo di rendere questa economia sessuale il più egualitaria possibile tra gli uomini e le donne, e gli altri esseri umani in generale.

Alcuni pensano che la prostituzione sia nella sua essenza non egualitaria e che sia il solo scambio economico-sessuale esistente. Basterebbe sopprimerla perché tutti i rapporti sessuali tra gli esseri umani siano gratuiti e dunque egualitari. Salvo il fatto che l’economia sessuale del patriarcato, anche quando non è monetizzata, e dunque in apparenza al di fuori del campo capitalista, non è di certo più egualitaria. Non si dovrebbe depenalizzare e de-stigmatizzare la prostituzione, dato che ciò significherebbe attribuirle uno status legittimo che metterebbe in pericolo le donne « maggioritarie ». Queste ultime subirebbero delle pressioni sessuali principalmente a causa dell’esistenza delle lavoratrici del sesso. Ora, questo significa credere che queste donne avrebbero necessariamente una posizione preferibile a quella di lavoratrici del sesso all’interno del sistema patriarcale, e omettere di analizzare i rapporti di dominazione che esistono anche tra le loro relazioni. È troppo semplicistico credere che ci siano da una parte le prostitute, le quali sarebbero l’esempio paradigmatico delle donne vittime, e dall’altra le donne che riuscirebbero a scappare al patriarcato.

Nel momento in cui due esseri umani si incontrano, si articolano degli scambi per mezzo dei quali si esercitano dei rapporti di potere. Di fatto mettiamo, senza spesso rendercene conto, sul piatto della bilancia ciò che per noi è accettabile e ciò con cui ci stiamo rapportando e, a seconda dell’equilibrio ottenuto o meno, proseguiamo come possiamo, oppure decidiamo di mettere fine alla relazione. Nel migliore dei casi, la relazione produce sufficiente piacere e interesse condiviso perché questa non sia percepita come un lavoro. Come le altre donne (e le altre lavoratrici), la lavoratrici del sesso operano dei compromessi e prendono delle decisioni in funzione delle diverse opzioni possibili. Siamo tutti partecipi di un sistema e tentiamo di negoziare permanentemente e in ogni istante le migliori strategie possibili, persone nelle nostre relazioni più « intime ». Le sfere private dell’intimità sono anche degli spazi di dominazione, e anche le nostre emozioni apportano il loro contributo come risorse utilizzate in tutta una serie di compiti attribuiti alle donne. È ciò che certe femministe hanno chiamato il lavoro del \textit{care}.

Lavoro del care
Negli ultimi anni, sentiamo parlare di un nuovo campo di analisi femminista uscito dal mondo universitario. Il femminismo cosiddetto del \textit{care} si interessa al lavoro delle donne, alla sua evoluzione nel neoliberalismo e alla globalizzazione. Delle femministe del \textit{care} considerano ad esempio il lavoro sessuale come una delle forme di lavoro invisibile e giudicato improduttivo, richiesto da parte delle donne al fine di contribuire alla riproduzione sociale del (vero) lavoro, considerato produttivo poiché esercitato soprattutto da uomini.

I progressi delle femministe, pur non essendo riusciti a rimettere in causa la struttura capitalista e l’estorsione del lavoro delle donne, avrebbero almeno permesso di rendere questo fenomeno maggiormente visibile. Le rivendicazioni per il riconoscimento del lavoro sessuale come lavoro hanno, secondo le femministe del \textit{care}, contribuito a svelare nello stesso tempo la dipendenza degli uomini al lavoro di sostentamento affettivo, emotivo, sessuale e dei bisogno delle donne. Si spiegano meglio: la prostituzione svela una sfaccettatura della dominazione maschile e anche un tabù: la vulnerabilità maschile o la difficoltà degli uomini a sostenere una mascolinità diventata fragile, (erettile al letto, competitivo nell’ambito professionale, incarnando l’autorità paterna all’interno della famiglia). Egli ha bisogno di sostegni. In un contesto patriarcale, i sostegni sono segreti e discreti. ma in contesto di capitalismo emozionale, effetto ambiguo del femminismo in regime neoliberalista, essi sono oggetto di una rivendicazione in termini di competenza, di salario, di riconoscimento sociale e sono resi visibili. In questo senso, il lavoro del sesso, come componente essenziale del capitalismo emotivo, rilevando le sue competenze del \textit{care} partecipa alla decostruzione del mito della virilità.

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