Il design come atteggiamento (non come posa)

Nicola Bonora
Architecta
Published in
7 min readApr 7, 2022

“Non sono un designer, faccio design”.
Design come atteggiamento, come modo di prendere le cose: un insieme di visioni e strumenti per interpretare l’incertezza e il caos, non tanto per capirli e ricondurli a un ordine impossibile, ma per saper vedere e prendere le onde giuste.
Skillset e mindset, più che ruolo. Fieramente in nero, e a collo alto.

“La gente non mi capisce” — (foto credits: Nicoletta Crisponi)

Nel mondo del design digi/physi/phygital il dibattito interno intorno alla professione è vivissimo. Forse perché è un mondo più che giovane, la sua letteratura, i suoi confini, i punti di riferimento si fanno mentre si cerca di definirli, e quindi sono soggetti a cambiamenti repentini, a precoci dichiarazioni di morte, puntualizzazioni, puntigli, dibattiti, risse.

Se definire ruoli è rassicurante, aiuta a dare ordine alle cose, crea punti di riferimento, ontologie, relazioni, resta il dubbio di quanto questa, nella società liquida (Z. Bauman), sia una velleità; quanto il concetto stesso di ruolo non sia un retaggio novecentesco (A. Baricco), inadatto a racchiudere entità cangianti.

L’immancabile diagramma di Venn.

Un designer è uno che veste nero*,
chiede sempre perché,
risponde sempre dipende.

* a collo alto

Il ruolo definisce, chiude, delimita. Comunica agli altri “cosa facciamo”.
Dà certezze, traccia perimetri, orizzonti.
Cosa diciamo, quando diciamo “designer”?
Quali sono le caratteristiche per le quali ci si possa definire designer?
E inoltre: ha senso porsi la domanda in questi termini?
Provare a dare forma all’acqua potrebbe essere l’atteggiamento sbagliato?
O meglio predisporsi a galleggiare o — più appealing come figura — a surfare? (A. Baricco bis)

Virtù, principi, regole

E all’improvviso arriva l’immancabile citazione di Nicholas Taleb, per altro distorta, sotto forma di antifragilità for dummies: fragile è ciò che si rompe alle sollecitazioni, solido ciò che vi resiste, antifragile ciò che cresce grazie a esse.

In Antifragile (lo avete letto? quante volte? ah sì? e allora sentiamo, con quale parola comincia pagina 344? ) a un certo punto, in una tabella di esempi di “cose appartenenti alle tre categorie”, appaiono queste:

Regole → fragili

Principi → solidi

Virtù → antifragili

Tre è un numero perfetto per raccontare un sistema, ed ecco quindi una discutibilissima proposta di skill/mindset, basata sulla triade di cui sopra, per chi voglia affrontare le cose con un atteggiamento di design (nero e a collo alto mi raccomando).

In alto stat collo alto.

Le virtù

Antifragili per eccellenza, si fortificano alle sollecitazioni. La vita le percuote, quelle crescono, un po’ come i mostri alieni nei film sci-fi. Sono incastonate, nel senso comune prevalente, nella sfera genetica: “ci nasci”, oppure amen. Falso, almeno parzialmente; se ci nasci, tanto meglio, chiaro, ma altrimenti si possono allenare, sviluppare, anche fingendole fino a che non diventano vere.

Le virtù cardinali del bravo designer in un istogramma a caso.

Empatia

Se da un lato gli altri siamo noi (U. Tozzi), dall’altro l’inferno sono gli altri (J. P. Sartre). Ne consegue che a volte l’inferno siamo noi, ma non proseguirò su questa scivolosa china psicanalitica da bar.

La nostra vita è piena di altri, persone che ci chiedono di fare cose, persone a cui chiediamo di fare cose, persone che non conosciamo ma che determinano l’esistenza di organizzazioni, a loro volta piene di persone… Gente ovunque.

Se non ci connettiamo in qualche modo agli altri, oltre le facciate e gli stereotipi, rischiamo di non fare design.

Non siamo obbligati a empatizzare, ma è utile, se non fondamentale, capire cosa muove gli altri, i famosi perché. È forse la competenza morbida centrale, il baricentro sulla tavola da surf. Non che ci debbano per forza interessare gli altri dal punto di vista umano, sentimentale; non dobbiamo emozionarci soffrire gioire con loro, se non ci viene spontaneo, ma comprenderli sì, come si comprende un fenomeno fisico. Un’empatia cinica, funzionale, strumentale, pratica.

(Dico queste cose da brutta persona solo per tranquillizzare gli introversi. Sottotesto: ama il tuo prossimo, oggi come non mai ❤)

Curiosità

“Se non sei curioso, lascia perdere” (A. Castiglioni)

Difficile essere empatici senza essere curiosi e, difficile in generale aggiungere valore a un’attività puramente esecutiva, se non ci si impiccia di quello che sta prima, a fianco, dopo. Orecchie e occhi aperti, un perché? in più sempre pronto, per essere empatici non solo con le persone, ma anche con le cose, i sistemi.

Follow the why’s.

Umiltà

“Designer scansati e facci vedere il progetto” (parafrasando D. Risi)

Difficile essere realmente curiosi e realmente empatici senza umiltà, senza spostarci da noi stessi e dall’ingombro del nostro ego. Umiltà non in senso francescano ma, anche in questo caso, con quel certo cinismo nel considerare questa virtù uno strumento di lavoro.

Essere umili significa essere spugne, assorbire senza preconcetti, ascoltare per capire, non per rispondere appena possibile.

Ascoltare la loro, più che dire la nostra, con sincero interesse.

Bonus: gentilezza

“Sii gentile e abbi coraggio” (mamma di Cenerentola)

Difficile essere umili curiosi empatici senza essere gentili.

La gentilezza è una hype forse, come tutti i temi che prendono piede in rete e che a un certo punto, molto velocemente, si banalizzano a causa della loro ripetizione e sovraesposizione. Ma non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca, ché di gentilezza c’è sempre bisogno, anche se fosse una gentilezza ipocrita.

Fake it until you make it, vedi sopra.

I principi

“Ci vediamo all’incrocio tra ascisse e ordinate. Mi riconoscerai dal collo alto”.

I principi sono un po’ la nostra carta costituzionale, il riferimento a cui rifarci quando non ci sono regole che ci prescrivano un comportamento, o quando vogliamo o dobbiamo impostare, rivedere e discutere le regole.

Solitamente istintivi e interiorizzati in ciascuno a livello personale, quando si tratta di lavoro può valere la pena fermarsi, metterli a fuoco, dare loro un nome. Questo aiuta noi e chi ci sta intorno — colleghi, committenti, semplici conoscenti — a condividere il perché e il per come facciamo le cose, a orientare le nostre scelte, a giudicare ipotesi.

Personalmente trovo utile riferirmi a questo insieme di principi quando affronto un progetto. In english, perché la sintesi di questa lingua è priceless.

Sustainable

Ciò che pensiamo e progettiamo deve tenere conto delle risorse con le quali realizzarlo, mantenerlo e farlo crescere nel tempo.

Business driven

Ricordiamoci che lavoriamo sempre per gli obiettivi di un committente. Non progetteremo nulla senza avere formalizzato e condiviso obiettivi chiari e misurabili, anche se fossimo noi il committente.

User centred

Lavoriamo per fare incontrare gli obiettivi del committente con i bisogni delle persone. Non progetteremo nulla senza avere formalizzato e condiviso i bisogni che possiamo risolvere attraverso il progetto.

Data informed

I dati non sono risposte: sono mattoni costitutivi di informazioni, che elaboriamo insieme al nostro cliente per trasformarle in contenuti che funzionano.

Content first

Il contenuto è il frutto dello studio di obiettivi del committente, i bisogni delle persone e i dati a disposizione: facciamo in modo che i contenitori (flussi, architetture dell’informazione, interfacce) siano funzione del contenuto.

Designed for the worst case

Progettiamo contenuti ed esperienze pensandole per lo scenario più complesso e per l’utilizzatore più debole.

Le regole

Secondo una recente ricerca (inventata), il verbo più spesso associato al sostantivo “regola” è “trasgredire”.

Le regole sono noiose, complesse by design, si subiscono come un male necessario. Ma sono indispensabili, perché non c’è arte senza tecnica, e le regole sono la tecnica, gli strumenti, i nostri pennelli e colori e nozioni. Trasgrediamo alle regole che conosciamo e siamo artisti, trasgrediamo alle regole che non conosciamo e siamo cialtroni.

Un doppio diamante è per sempre.

In un ambito di design, definiamo regole i processi: sequenze ordinate e ripetibili di operazioni. Un processo valido porta efficienza nella gestione, efficacia nei risultati; è riproducibile, scalabile; sterilizza dinamiche soggettive; è un veicolo potentissimo di on-boarding. Ed è un asset per chi fa un mestiere intangibile come il nostro.

Come dice il mio amico Igor, in teoria non c’è differenza tra la teoria e la realtà, in realtà c’è. Per questo, qualsiasi applicazione rigida di un processo è velleitaria e rischia di fare più male che bene. E per questo i principi e le virtù sono importanti: guidano all’interpretazione delle regole, perché tutti i progetti sono ugualmente felici prima della firma del contratto, ma ciascuno è diversamente angosciante dopo (L. Tolstoj, kind of).

Sui processi esistono letteralmente libri (tipo questo — eheh furbetto lo scrivente). Per dire qualcosa di sensato in poche righe, e con le infinite variazioni sul tema, diciamo che ci possiamo trovare d’accordo sul principio non c’è design senza ricerca.

E ora, tutti ai nostri Post-it™.

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