Il “lettore competente”

Riflessioni a margine di un corso di formazione

Pietro Alotto
Argomentazione
20 min readNov 16, 2019

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[…] spesso gli uomini non pensano perché i nostri cervelli non sono progettati per pensare bensì per evitare di farlo. Pensare non è solo faticoso […] è anche lento e inaffidabile.

(Daniel T. Willingham, ‘Perchè agli studenti non piace la scuola’ )

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Gruppo di insegnanti ad un corso di formazione sull’Argomentazione

Scena I. Interno giorno.

Propongo la letura di un post di M. Lilli . Il testo è questo:

Manlio Lilli, I compiti a scuola

“Se si pensa che i compiti servano a insegnare l’ubbidienza, vuol dire che si tratta di una scelta ideologica raccapricciante […] Oggi i 500 docenti che aderiscono al gruppo Compiti zero dimostrano che anche senza sperimentazioni, con la scuola e l’orario di oggi, si ottengono ottimi risultati lavorando solo in classe”. Maurizio Parodi, autore del libro Basta compiti!, responsabile di una petizione che ha raccolto 30mila adesioni e amministratore di una pagina Facebook con più di 10 mila iscritti, non ha dubbi. […] “I compiti sono da bocciare senza riserve. Assolutamente […] i ragazzi, senza l’ossessione degli esercizi domestici, portano avanti idee e ricerche per conto proprio, e le restituiscono alla classe, condividendole con i compagni. Certo, parliamo di una didattica senza lezione frontale, più partecipativa. Ma i risultati sono evidenti”, ha aggiunto in un’intervista il sostenitore accanito dell’inutilità di quello che definisce un “accanimento morboso” e una “perversione didattica” di molti insegnanti.

Ascoltando Parodi e i suoi seguaci viene il dubbio di aver fatto perdere tanto tempo a intere generazioni di alunni. Di averli distolti da più proficue occupazioni a casa. […] . Poveri alunni e poveri genitori, impegnati a dare una mano ai figli in affanno. Eppure in una stagione di semplificazione, anche scolastica, che non di rado più che un aiuto costituisce uno svilimento[…]. Vale la pena provare a riflettere un po’ sul ruolo di quei compiti, senza farne a prescindere una battaglia ideologica. Già perché il rischio, neppure tanto nascosto sembra proprio questo. Che i compiti possano diventare l’ennesima battaglia combattuta dalle pseudo avanguardie costituite dai modernisti che rifuggono da ogni consuetudine del passato anche recente. Una battaglia che sembra far leva, appunto, su questioni ideologiche piuttosto che su un’osservazione oggettiva della realtà.

Sostenere che alle scuole elementari e medie gli insegnanti sovraccarichino di compiti a casa gli alunni vuol dire soffermarsi su casi episodici, tralasciando la tendenza generale. Insomma, trasformare le eccezioni in regola. Sostenere che ragazzi e adulti siano ossessionati dalle richieste degli insegnanti sembra una esagerazione. I compiti assegnati, spesso, non sono una priorità né per i ragazzi né per i loro genitori. Le esercitazioni a casa occupano uno spazio del pomeriggio, lasciando tempo e energie per le tante altre attività, non solo sportive. Ora, quanti sono quelli che hanno figli, nipoti e conoscenti che rinunciano a una di quelle attività extra scolastiche per fare (tutti) i compiti? Alzino la mano quelli che sono a conoscenza di sacrifici del genere. I ragazzi hanno tante risorse ed è giusto che coltivino le loro passioni. Sportive e non. E’ doveroso che allenino i loro interessi. Questo è incontrovertibile.

Ma il punto è un altro, forse. Ritenere che i compiti a casa siano una sorta di punizione. Un inutile dispendio di tempo. Una odiosa gabbia nella quale si è costretti a stare. In classe si lavora, ma non farlo per nulla a casa sarebbe sbagliato. Perché si eliminerebbe la fase della esercitazione e dell’elaborazione autonoma che in classe è possibile abbozzare, ma non espletare per intero. Questione di tempi. Promuovere l’abolizione di questo spazio equivale a depotenziare i programmi scolastici. Soprattutto a rendere i ragazzi più deboli. Insomma l’opposto di quel che Parodi sostiene. La scuola, anche alle elementari e ancor più alle medie, dovrebbe produrre una crescita. Che non può realizzarsi con la sola presenza in classe, la mattina. E non perché si voglia impedire ai ragazzi di “fare altro”, ma perché il tempo dei compiti al pomeriggio è prezioso. E’ formativo. Contribuisce alla maturazione dei ragazzi. Aiuta la loro trasformazione in Persone.

I compiti a casa sono senza dubbio un ostacolo nella vita degli alunni. Costituiscono una difficoltà. Ma, nella giusta misura, “fanno bene“. Servirebbe forse maggiore equilibrio. Anche nel proporre modifiche alla scuola. Continuare a semplificare oltre ogni logica, è un imperdonabile errore.

[Manlio Lilli, Scuola, perché i compiti a casa fanno bene agli studenti, in https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/02/05/scuola-perche-i-compiti-a-casa-fanno-bene-agli-studenti/4136583/

Inizio con una domanda volutamente ambigua: siete d’accordo con l’autore? Risposte: varie gradazioni di sì, in più aggiungerei ….

Seconda domanda: siete d’accordo sulle ragioni che l’autore ha portato a sostegno della sua presa di posizione? Momento di imbarazzo……

Io: ecco, vi mostro a cosa si riduce tutta la sua argomentazione:

  • Se si eliminano i compiti “si elimina la fase della esercitazione e dell’elaborazione autonoma che in classe è possibile abbozzare, ma non espletare per intero”;
  • “l’abolizione di questo spazio equivale a depotenziare i programmi scolastici”;
  • il de-potenziamento dei programmi scolastici renderebbe “ i ragazzi più deboli”
  • dunque, eliminare i compiti significa indebolire la formazione degli studenti;
  • Noi non vogliamo indebolire la formazione dei nostri studenti,
  • ergo, è necessario e utile mantenere i compiti.

Io: Siete ancora d’accordo?

Coro disarticolato e proteste: ma tu ci avevi solo chiesto se eravamo d’accordo?

Io: Ok. Ma voi allora eravate d’accordo con l’Autore in cosa? Non con la sua argomentazione a sostegno della sua presa di posizione,mi pare di avere capito, ma solo con la sua presa di posizione.

Ma se fosse così, insomma, non occorreva scrivere un post, argomentando una presa di posizione; sarebbe bastato che dicesse: “Io sono a favore dei compiti! Chi è d’accordo con me, alzi la mano?”

Ora chiedo: quando leggiamo un articolo, un editoriale, un saggio, cosa veramente ci interessa sapere? Vogliamo sapere cosa pensa quell’autore sull’argomento (la sua posizione), o ci interessa capire perché la pensa così e se le sue ragioni sono fondate?

Più in generale, quanto siamo interessati al cosa è veramente detto in un testo (argomentativo)? Quanto nella lettura, nell’interpretazione e nel nostro assenso/dissenso, ci mettiamo dei nostri “pre-giudizi”, delle nostre pre-convinzioni; e quanto pregiudizi e pre-convinzioni ci portano fuori strada nella valutazione della bontà argomentativa, della forza degli argomenti e della stessa efficacia persuasiva di un testo?

Non so a voi, ma a me capita qualche volta di essere completamente d’accordo con il contenuto di un articolo dopo la prima lettura e di essere deluso della sua pochezza, non appena lo sottopongo ad un’attenta analisi critica, chiedendomi cosa è stato esattamente sostenuto e provato nell’articolo.

Cosa, veramente, succede quando leggiamo un testo?

Scena II. Interno giorno.

Propongo la lettura di un un articolo di C. Magris comparso sul Corriere della Sera il 14 ottobre 1997 e pubblicato successivamente nel volume Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del moderno, Garzanti, 2001)L’articolo è questo:

Claudio Magris, Elogio del copiare

Una volta, al ginnasio, l’insegnante di tedesco aveva assegnato a me e a un mio amico una relazione sui canti popolari di Brentano e Arnim, cuore profondo della vecchia Germania e del Lied romantico. Procuratoci il libro, un’edizione in caratteri gotici con illustrazioni di viandanti nella selva e borghi medioevali dalle strette viuzze e dagli archi a sesto acuto, lo mostravamo ripetutamente in classe al professore, il quale, ogni volta, come se si fosse dimenticato di averne già parlato, prendeva lo spunto da quelle lettere spigolose e dai quei paesaggi assorti per tenere una bella lezione sulla Germania, i suoi sogni e i suoi grovigli, la sua cultura. Naturalmente noi eravamo contenti di far passare le ore senza interrogazioni e senza nuove cose da studiare per il giorno dopo. Ed eravamo convinti che l’insegnante, con tante classi e alunni da seguire, non se ne rendesse conto, finché, dopo una settimana di pacchia, quando alzai la mano per chiedere di uscire un momento, il professore balzò in piedi dicendo che, se gli avessimo fatto vedere ancora una volta quel maledetto libro, ci avrebbe preso a sberle. Questo minimo episodio è l’esempio di una scuola che funziona come si deve, impartendo, senza averne l’aria, molte lezioni di cultura e di vita. Ognuno fa la sua parte: gli scolari, come è giusto, cercano di schivare compiti e interrogazioni; e l’insegnante li lascia fare quel tanto che basta perché si credano astuti, finché vengono presi in castagna e, fra le altre cose, imparano precocemente a non fare i furbi, il che non è poco. Fra tutte queste manfrine, inoltre, finisce che, quasi senza accorgersene, si imparano pure Lieder, si scopre una poesia incantevole e appartata e si prende ad amarla, come e’ accaduto a noi quella volta anche grazie a quella messa in scena. È allora che ho conosciuto per la prima volta, insieme con i miei compagni, quel mondo poetico della vecchia Germania e forse, sostanzialmente, non ne so molto di più adesso, anche se insegno letteratura tedesca da tanti anni. Se fossimo stati animati da un sacro zelo o dalla presunzione di svolgere una cosiddetta “ricerca”, magari in polemica alternativa all’insegnamento ufficiale, probabilmente avremmo capito poco e amato meno quella poesia piena di nostalgia e d’ironia, di zingaresca libertà: è difficile che un ligio secchione o un supponente contestatore, viziati da ideologia timorata o aggressiva, si abbandonino alla musica vagabonda di quei canti. Così, cercando di approfittare di quelle poesie per studiare un po’ meno, abbiamo appreso ad amarle e dunque a conoscerle.

Quella storiella mi è venuta in mente leggendo, di recente, la notizia di un liceo scientifico milanese, l’”Allende”, i cui scolari, dopo aver proclamato solennemente l’importanza dell’apprendimento individuale e l’esigenza di lavorare in gruppo ma senza scaricare la fatica sugli altri, hanno giurato di non copiare. C’è indubbiamente nobiltà in questo atteggiamento, in questa volontà di studiare e di reagire (affermando valori quali l’impegno e la lealtà) a una diffusa superficialità, ignoranza, mancanza d’interessi e incapacità di sacrificio e disciplina. Non so tuttavia se le forme in cui questo lodevole spirito si è espresso siano proprio quelle giuste. Anzitutto copiare (in primo luogo far copiare) è un dovere, un’espressione di quella lealtà e di quella fraterna solidarietà con chi condivide il nostro destino (poco importa se per un’ora o per una vita) che costituiscono un fondamento dell’etica. Passare il bigliettino al compagno in difficoltà insegna a essere amici di chi ci sta a fianco e ad aiutarlo pure a costo di rischi, forse anche quando, più tardi, tali rischi, in situazioni pericolose o addirittura drammatiche, potranno essere più gravi di una nota sul registro. Chi, sapendo un po’ di più di informatica o di latino di quanto non ne sappia il suo compagno di banco, non cerca di passargli il tema resterà probabilmente per sempre una piccola carogna (il termine appropriato sarebbe veramente un altro, più colorito e disdicevole) e magari si convincerà che quel voto in più sulla sua pagella, casuale e precaria come ogni pagella, sia chissà che cosa: ossia diventerà un imbecille. Se agli scolari tocca copiare, agli insegnanti ovviamente tocca impedirlo, e il gioco va bene se ognuno fa ciò che gli spetta, senza bollare la copiatura come un crimine e senza rivendicarla come un diritto contro la repressione scolastica. Le cose si guastano invece quando tutti vogliono fare tutto e la scuola, o l’esistenza intera, diventa un Comitato universale permanente, in cui i docenti esortano gli alunni a manifestare la loro creatività rifiutandosi di studiare e gli alunni si mettono al posto dei docenti per rinnovare pedagogicamente la scuola, anziché marinarla ogni tanto[…]. In questo non ci si diverte più, come non ci si divertirebbe a scopone se ogni giocatore, anziché cercare di far scopa, primiera e settebello, cercasse di far vincere gli altri per evitar loro frustrazioni. E se non ci si diverte, si impara poco perché le cose da apprendere […] diventano pesanti doveri da assolvere o contestare, e comunque di cui sbarazzarsi appena possibile. Predicare è inutile, poco importa se pro o contro i valori: questi possono essere solo mostrati, senza l’aria e nemmeno l’intenzione esplicita di inculcarli. Forse solo in tal modo li si assorbe con tutta la propria persona, di cui diventano sostanza vissuta [….]. Forse succede così pure con la lealtà, la giustizia, la fraternità verso tutti gli uomini d’ogni stirpe e cultura, valori e sentimenti che facciamo nostri quasi senza accorgercene, perché qualcuno, in qualche modo, ci ha fatto capire e sentire che la vita, senza di essi, è un letamaio. A scuola si dovrebbe anche e soprattutto giocare e ridere […]; ridere insieme, ogni qualvolta se ne presenta l’occasione, è un patrimonio inestimabile, che aiuta a sopportare la vita così spesso invivibile e intollerabile, soffocata non solo dalla sofferenza e dall’ingiustizia, alla fine sempre vittoriose, ma pure dall’ottusa serietà, che contribuisce anch’essa al deficit del bilancio del Creato. Da bravi studenti pronti a copiare e a far copiare è lecito dunque attendersi brave persone disilluse e generosamente solidali. Certo, anche copiare ha i suoi rischi, come accadde quando tutta la nostra classe, dinanzi a un arduo brano di Tucidide che dovevamo tradurre e che era superiore alle nostre intelligenze, lo copiò da una versione italiana che circolava sottobanco, ma sbagliando coralmente brano e copiandone uno che non c’entrava affatto con quello che ci era stato assegnato. Non è il caso di scoraggiarsi per simili incidenti di percorso, inevitabili in una sana comunità scolastica.Dopo avere atteso, pazientemente, che tutti abbiano finito di leggere l’articolo chiedo a tutti i colleghi qual è, secondo loro, la tesi sostenuta da Magris nell’articolo.

Chiedo ai corsisti qual è la Tesi principale dell’articolo. Risultato: la tesi dell’articolo si era miracolosamente moltiplicata, fornendo una verifica sperimentale del proverbio latino ‘tot capita, tot sententiae!’

Non dico tutti, ma la maggioranza dei presenti ha dato risposte diverse, e non sempre compatibili, su ciò che veramente voleva dire Magris nel suo articolo; su quale fosse la tesi principale (fino all’apoteosi di un collega che chiedeva: ma, in fondo, è così importante capire qual è la tesi dell’autore?).

Alla fine ho sottoposto la mia ipotesi interpretativa e ne abbiamo discusso insieme:

Scena III. Interno giorno

Propongo l’analisi di un breve testo di T. Paine (tratto da Introduzione alla Logica di I. Copi e Cohen) e chiedo ai docenti di farmi l’analisi del ragionamento, individuando premesse, conclusioni intermedie, conclusione generale. Chiedo anche loro di esplicitare le premesse nascoste nei diversi passaggi argomentativi.

Il testo è questo:

La rivelazione è la comunicazione di qualcosa fino a quel momento sconosciuta alla persona a cui viene rivelata. Infatti se ho fatto una cosa o l’ho vista fare non occorre nessuna rivelazione che mi dica che l’ho fatta o che l’ho vista fare per poterla raccontare o scrivere. La rivelazione, quindi, non può essere applicata a qualcosa che avvenga sulla terra di cui l’uomo stesso sia attore o testimone; di conseguenza, tutte le parti storiche o aneddotiche della Bibbia, il che vuol dire quasi tutta l’opera, non rientrano in nessun modo nel significato della parola rivelazione e perciò non sono parola di Dio!

(Thomas Paine, L’età della ragione)

Risultato, un’impasse generale di quasi tutti i docenti. In difficoltà con gli indicatori logici; in difficoltà con l’assegnazione del ruolo logico ai diversi enunciati del testo; in difficoltà enorme nell’esplicitare le premesse nascoste.

L’analisi proposta ai corsisti

Il lettore competente

Cosa lamentiamo quando continuiamo a dire che gli studenti non sanno comprendere un testo? Riformuliamo la questione in questo modo: cosa dovrebbe saper fare un lettore competente che legge un testo, perché si possa dire che ha compreso il testo?

Prendiamo come punto di riferimento i test OCSE/PISA.

Al termine di un processo di condivisione, che ha coinvolto un gruppo di esperti selezionati dai Paesi partecipanti e dai comitati consultivi del progetto OCSE/PISA, si è adottata per l’indagine la seguente definizione di competenza di lettura (reading literacy):

“La competenza di lettura consiste nella comprensione e nell’utilizzazione di testi scritti e nella riflessione sui loro contenuti al fine di raggiungere i propri obiettivi, di sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità e di svolgere un ruolo attivo nella società”.

Tale definizione supera la nozione di ‘reading literacy’ intesa come decodifica e comprensione letterale, a favore di un’interpretazione che unisce la comprensione all’uso dell’informazione scritta e alla riflessione su di essa. (*)

Per gli estensori dei test OCSE/PISA un lettore esperto dovrebbe essere capace di:

  1. individuare informazioni in un testo;
  2. comprendere il significato generale di un testo;
  3. sviluppare un’interpretazione del testo;
  4. riflettere sul contenuto del testo e valutarlo;
  5. riflettere sulla forma del testo e valutarla.

Mi soffermo sugli indicatori 2, 3 e 4.

Comprendere il significato generale del testo

Per comprendere il significato generale di un testo, il lettore deve considerare il testo nella sua interezza o in una prospettiva globale. Vi sono diversi compiti che richiedono una comprensione generale del testo da parte del lettore. Gli studenti possono dimostrare una prima comprensione del testo identificandone l’argomento o il messaggio principale, o indicandone lo scopo generale o l’utilità. Alcuni esempi di questo tipo di compiti sono quelli che chiedono al lettore di scegliere o di formulare un titolo o di esplicitare la tesi centrale di un testo […]

Interpretazione

Per sviluppare un’interpretazione il lettore deve andare al di là delle sue impressioni iniziali in modo da arrivare a una comprensione più dettagliata e completa di ciò che ha letto. I compiti di questo tipo richiedono una comprensione di tipo logico: il lettore deve esaminare l’organizzazione delle informazioni nel testo. Per fare questo, deve dimostrare di coglierne la coerenza interna […]

Riflettere sul contenuto e valutarlo

Per riflettere sul contenuto di un testo e valutarlo il lettore deve collegare le informazioni presenti nel testo con conoscenze che provengono da altre fonti. Deve anche valutare le affermazioni contenute nel testo sulla base delle proprie conoscenze enciclopediche.[…] Per fare questo, egli deve essere in grado di capire quello che un testo dice e quindi mettere alla prova questa rappresentazione mentale con quanto egli sa e crede, basandosi sulle proprie conoscenze pregresse o sulle informazioni fornite da altri testi. Il lettore deve partire dai dati forniti dal testo e confrontarli con quelli di altre fonti di informazione, ricorrendo a conoscenze sia generali che specialistiche e al ragionamento astratto.

Partendo da questi indicatori, a che livello di expertise stavano i miei docenti in formazione? Ho condiviso con loro la tavola degli indicatori e assieme, dopo avere fatto un’attenta analisi logica dei testi che avevo sottoposto loro, abbiamo convenuto (in maniera scherzosa, ma non troppo!) che le loro performances non erano andate oltre il livello 2.

Ne abbiamo discusso, e abbiamo evidenziato come il principale ostacolo non fosse un deficit nella capacità di riflettere su, e valutare la forma e il contenuto di un testo, quanto il fatto che, spesso, la nostra lettura non supera lo scoglio (perché spesso non “ci si impegna” a superarlo!) del “cosa è ‘veramente’ detto in un testo”. Quella che negli indicatori OCSE/PISA è denominata come “Interpretazione”, e che in maniera più appropriata dovremmo distinguere in due abilità connesse e correlate: “Analisi” e “Interpretazione”.

Se, come spesso si dice, una delle difficoltà nella comprensione del testo è legata alla carenza di conoscenze specifiche (legate all’ambito di conoscenza a cui appartiene il testo)*, questo non è il caso, visto che non si può parlare in alcun modo di un deficit di conoscenze ( di enciclopedia) legate al tema trattato negli articoli. Perciò la risposta deve stare altrove: non c’è vera comprensione e, quindi, valutazione, se non c’è un’adeguata analisi del testo, dal punto di vista logico e dal punto di vista argomentativo.

E non è un problema di questi docenti (peraltro validi e stimati insegnanti nelle loro discipline), in quanto lo stesso risultato l’ho ottenuto in altro contesto geografico e con altri docenti.

Ora, mi chiedo: come possiamo pretendere da uno studente competenze e abilità che non possiede neanche un lettore esperto, quale dovrebbe essere un docente? E precisamente quando queste abilità dovrebbero essere state apprese dagli studenti? O anche, come dovrebbero essere state apprese dai nostri studenti e chi avrebbe dovuto insegnarle, se gli stessi docenti che dovrebbero insegnarle si trovano loro stessi in difficoltà? (Perché, in realtà, come faceva rilevare una collega, nessuno ce lo ha mai insegnato: “ a scuola mi hanno insegnato che dovevo scrivere i temi salvaguardando la ‘coerenza’, ma nessuno mi ha mai spiegato come la ottengo e in cosa consiste precisamente”.)

Una digressione per prendere fiato

Dopo avere scritto questo articolo mi è capito di leggere il bel libro di Fabio Paglieri dal titolo “La cura della ragione” (il Mulino, 2016). Nel libro Paglieri riporta alcuni dati tratti dalla sua esperienza didattica di insegnamento del ragionamento critico a vari gruppi di persone. Si tratta di dati interessanti perché attestano che non solo nella comprensione del testo, ma anche nel ragionamento critico le difficoltà dei nostri studenti non sono dissimili da quelle di adulti esperti.

Paglieri ha sottoposto a test diagnostici sul ragionamento critico, basati sul Thinking Skills Assessment (TSA), sviluppato dall’Università di Cambridge, quattro gruppi diversi: studenti di scuola primaria e secondaria, gli insegnanti degli stessi studenti, studenti universitari al primo anno, e i partecipanti ad un seminario di studi avanzati su argomentazione e retorica. I risultati sono sintetizzati in questa tabella:

Nessun gruppo ha avuto una prestazione media superiore al 50% di risposte corrette, neppure chi era esperto di analisi dell’argomentazione. Inoltre, Paglieri fa notare come “non si nota nessuna differenza significativa nella prestazione dei docenti (30,5%) e dei loro studenti (28,2%)” (p.69)

Paglieri commenta in modo significativo:

Prima che il lettore scuota la testa e lamenti il degrado della classe docente italiana, Mi preme chiarire che questi erano, al contrario, insegnanti di comprovata eccellenza, apprezzati tanto dalle loro scuole quanto dalle famiglie dei loro studenti: dunque il risultato non va imputato a loro limiti personali, bensì alle modalità di formazione dei docenti italiani perlomeno in materia di ragionamento critico. […] Ma se d’altra parte si considera la missione di insegnamento del ragionamento critico che i documenti ufficiali vorrebbero attribuire a questi stessi docenti, non mancano le ragioni di preoccupazione: per quanto non sia certo colpa loro, è abbastanza chiaro che questi insegnanti non sono preparati a coltivare il ragionamento critico nei loro studenti — per lo meno non nelle aree di competenza indagate dal TSA. (ibidem, p.70)

Viene prima l’uovo o la gallina?

E veniamo alla seconda parte di questo articolo. Perché persone, pur qualificate ed esperte, fanno fatica ad analizzare e comprendere fino in fondo un testo in tutte le sue sfumature: linguistiche, logiche, epistemiche, retoriche? Come è possibile che di fronte agli stessi testi o alle stesse argomentazioni, le persone diano valutazioni divergenti se non opposte della validità, della forza e dell’efficacia persuasiva degli stessi testi e delle stesse argomentazioni?

Al di là delle pur possibili difficoltà intra-testuali (di testi difficili, complessi, ostici alla lettura, sono piene le biblioteche), deve esserci qualcos’altro.

Ipotesi 1. Una prima difficoltà potrebbe venire dall’abitudine alla lettura sequenziale del testo (così come l’ascolto, altrettanto, sequenziale dei discorsi orali, per esempio, in un debate) che ha un effetto ostativo nei confronti della comprensione.

Spesso isoliamo nella nostra mente le singole asserzioni prima e i singoli argomenti poi (causa memoria di lavoro?) gli uni dagli altri e li valutiamo isolatamente in quanto presenti immediatamente alla nostra attenzione. Quanto più ci allontaniamo dalla tesi iniziale, tanto più è difficile per la nostra mente vedere i collegamenti e le relazioni strutturali interne fra le asserzioni e “vederne” la “pertinenza e la rilevanza” in rapporto alla tesi da sostenere. Così, anche le lunghe catene di ragionamenti sono difficili da seguire e da tenere a mente.

Ipotesi 2. Proviamo a chiederci quali skills stiamo sollecitando e chiedendo di attivare ai lettori esperti? Ebbene, forse non ci stupirà il fatto che le abilità del ‘pensatore critico’ e del ‘lettore esperto’ si sovrappongono. Se prendiamo le abilità indicate dal PISA e la tavola delle abilità coinvolte nel Critical Thinking, vediamo come queste siano in gran parte le stesse: analisi, interpretazione, valutazione, etc.

Immagine tratta da “Critical Thinking: What It Is and Why It Counts” di P. Facione

Ne prendiamo in considerazione solo tre:

Interpretazione

Quoting from the consensus statement of the national panel of experts:interpretation is “to comprehend andexpress the meaning or significance of a wide variety of experiences, situations, data, events, judgments, conventions, beliefs,rules, procedures, or criteria.”3 Interpretation includes the sub-skills of categorization, decoding significance, and clarifying meaning. Can you think of examples of interpretation? How about recognizing a problem and describing it without bias? How about reading a person’s intentions in the expression on her face; distinguishing a main idea from subordinate ideas in a text; constructing a tentative categorization or way of organizing something you are studying; paraphrasing someone’s ideas in your own words; or, clarifying what a sign, chart or graph means? What about identifying an author’s purpose, theme, or point of view? How about what you did abovewhen you clarified what “offensive violence”meant?

Analisi

Again from the experts: analysis is“to identify the intended and actual inferential relationships among statements, questions, concepts, descriptions, or other forms of representation intended to express belief, judgment, experiences, reasons, information, or opinions.” The experts include examining ideas, detecting arguments, and analyzing arguments as sub-skills of analysis. Again, can you come up with some examples of analysis? What about identifying the similarities and differences between two approaches to the solution of a given problem? What about picking out the main claim made in a newspaper editorial and tracing back the various reasons the editor offers in support of that claim? Or, what about identifying unstated assumptions; constructing a way to represent a main conclusion and the various reasons given to support or criticize it; sketching the relationship of sentences or paragraphs to each other and to the main purpose of the passage? What about graphically organizing this essay, in your own way, knowing that its purpose is to give a preliminary idea about what critical thinking means?

Valutazione

The experts define evaluation as meaning “to assess the credibility of statements or other representations which are accounts or descriptions of a person’s perception, experience, situation, judgment, belief, or opinion; and to assess the logical strength of the actual or intended inferential relationships among statements, descriptions, questions or other forms of representation.” Your examples? How about judging an author’s or speaker’s credibility, comparing the strengths and weaknesses of alternative interpretations, determining the credibility of a source of information, judging if two statements contradict each other, or judging if the evidence at hand supports the conclusion being drawn? Among the examples the experts propose are these: “recognizing the factors which make a person a credible witness regarding a given event or a credible authority with regard to a given topic,” “judging if an argument’s conclusion follows either with certainty or with a high level of confidence from its premises,” “judging thelogical strength of arguments based on hypothetical situations,” “judging if a given argument is relevant or applicable or has implications for the situation at hand.”

(da “Critical Thinking: What It Is and Why It Counts”, di P. Facione****)

Si tratta di skills fondamentali non solo per comprendere , ma, soprattutto, per usare in modo appropriato le idee, le interpretazioni, le valutazioni e le decisioni proposte in un testo:

Tale definizione supera la nozione di reading literacy intesa come decodifica e comprensione letterale, a favore di un’interpretazione che unisce la com- prensione all’uso dell’informazione scritta e alla riflessione su di essa. La de- finizione, inoltre, fa riferimento all’insieme delle situazioni che chiamano in causa la competenza di lettura: dalla sfera privata a quella pubblica, dalla scuola al lavoro, dall’esercizio di una cittadinanza attiva all’apprendimento nel corso di tutta la vita. Essa indica che la literacy permette di realizzare le proprie aspirazioni individuali, da quelle ben definite, quali il conseguire un diploma o l’ottenere un posto di lavoro, fino a obiettivi più a lungo termine, come arricchire e sviluppare la vita personale. Possedere una competenza di lettura, inoltre, significa avere a disposizione gli strumenti linguistici che la società moderna — con le sue istituzioni, la sua pervasiva organizzazione burocratica e il suo complesso sistema legale — richiede. (ibidem)

Un insieme di situazioni, aggiungiamo noi, che richiedono un uso critico, nel senso di cognitivamente avvertito, del pensiero.

Conclusione

Quanto detto sembrerebbe confermare il fatto che “sapere l’Italiano è ragionare”, anche se non nel senso che “se sai ‘l’italiano’ ragioni meglio”, quanto, piuttosto, invertendo la causa con l’effetto, che “se sai ragionare, allora leggi e scrivi meglio” (anche in italiano).

Se questo fosse vero, i problemi e le difficoltà nella lettura e comprensione del testo non riguardano solo l’ambito delle competenze linguistiche (e delle enciclopedie disponibili a chi legge), ma anche quello del “pensiero critico” (e che, genericamente, possiamo chiamare “competenze logico-argomentative”). Insomma, per avere ‘buoni’ lettori, dobbiamo prima, o contestualmente, formare buoni pensatori critici ed educare al ragionamento e al pensiero.

Ma chi deve farlo? A chi spetta il compito di formare il pensiero critico degli studenti? Perchè il pensiero critico va formato, educato e praticato consapevolmente.

*Daniel T. Willingham, Perché agli studenti non piace la scuola, Utet università, 2018, pp. 36–37

**Marilena Beltramini, Le competenze di Lettura

***https://www.researchgate.net/publication/251303244_Critical_Thinking_What_It_Is_and_Why_It_Counts

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Pietro Alotto
Argomentazione

Scrivo di scuola, di filosofia, argomentazione, critical thinking e argument mapping (su cui ho scritto l'unico libro pubblicato in Italia).