Diffamazione online: quando gli Internet Service Provider rispondono per i contenuti diffamatori pubblicati da terzi?

Ambivalenza e incertezza della giurisprudenza della CEDU: i casi Delfi AS v. Estonia (2015) e MTE and Index.hu Zrt v. Hungary (2016).

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La responsabilità dei portali Internet per la pubblicazione di messaggi offensivi da parte di terzi è un argomento da tempo dibattuto in ambito europeo. Quando gli Internet Service Provider rispondono per i contenuti diffamatori pubblicati dagli utenti? Difficile dare una risposta chiara ed universale.

Il caso Delfi AS. v. Estonia è il primo in cui la Corte di Strasburgo è stata chiamata ad affrontare la questione della responsabilità oggettiva dell’editore di un magazine online, derivante da commenti anonimi offensivi degli utenti del sito.

La Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sentenza n.64569/09 del 16.06.2015, ha stabilito che a certe condizioni, l’ISP può essere ritenuto responsabile per i commenti lasciati da terzi sul proprio portale web. Nel caso di specie la Corte ha stabilito che non costituisce una restrizione sproporzionata alla libertà di espressione (art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), la condanna inflitta al portale, dalla Suprema Corte estone, al modesto risarcimento dei danni derivanti dalla pubblicazione di commenti diffamatori pubblicati sul sito.

Per capire meglio l’importanza di questa sentenza e quali interrogativi abbia fatto sorgere in materia di responsabilità degli ISP, è indispensabile fare un passo indietro e ricordare che l’Unione Europea con la Direttiva 2000/31/CE, ha avuto come obiettivo proprio quello di fornire delle regole uniformi assicurando la libera prestazione dei servizi on line all’interno dell’UE.

Scopo della disciplina è stato quello di identificare gli Internet Service Provider (ISP), prestatori intermediari (soggetti che creano un collegamento tra chi intende comunicare un’informazione e i destinatari della stessa), in modo da distinguerli dagli Internet Content Provider (ICP), individuando i requisiti grazie ai quali gli ISP non possono essere ritenuti colpevoli nel caso in cui i loro utenti commettano illeciti sui loro portali.

Così come stabilito dall’art. 42 della Direttiva stessa, le attività degli ISP devono essere tassativamente di carattere tecnico, automatico e passivo, non devono quindi richiedere l’intervento di una persona.

A questo fine nella Direttiva vengono differenziate tre figure degli ISP e i casi in cui non sono responsabili per le informazioni trasmesse, ovvero nei casi in cui svolgono funzione di mere conduit, caching e hosting.

In particolare l’art. 12 dedicato al semplice trasporto (mere conduit) prevede che:

1. Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire un accesso alla rete di comunicazione, il prestatore non sia responsabile delle informazioni trasmesse a condizione che egli:

a) non dia origine alla trasmissione;

b) non selezioni il destinatario della trasmissione;

c) non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse.

2. Le attività di trasmissione e di fornitura di accesso di cui al paragrafo 1 includono la memorizzazione automatica, intermedia e transitoria delle informazioni trasmesse, a condizione che questa serva solo alla trasmissione sulla rete di comunicazione e che la sua durata non ecceda il tempo ragionevolmente necessario a tale scopo.

3. Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri, che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa esiga che il prestatore impedisca o ponga fine ad una violazione.

Per quanto riguarda la memorizzazione temporanea detta “caching” l’art.13 stabilisce che:

1. Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile della memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltre ad altri destinatari a loro richiesta, a condizione che egli:

a) non modifichi le informazioni;

b) si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni;

c) si conformi alle norme di aggiornamento delle informazioni, indicate in un modo ampiamente riconosciuto e utilizzato dalle imprese del settore;

d) non interferisca con l’uso lecito di tecnologia ampiamente riconosciuta e utilizzata nel settore per ottenere dati sull’impiego delle informazioni;

e) agisca prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato, o per disabilitare l’accesso, non appena venga effettivamente a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano inizialmente sulla rete o che l’accesso alle informazioni è stato disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione dell’accesso.

2. Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri, che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa esiga che il prestatore impedisca o ponga fine ad una violazione.

Infine per la memorizzazione dell’informazione “Hosting” l’art.14 prevede che:

1. Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:

a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione;

b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.

2. Il paragrafo 1 non si applica se il destinatario del servizio agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore.

3. Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, per un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa, in conformità agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, di esigere che il prestatore ponga fine ad una violazione o la impedisca nonché la possibilità, per gli Stati membri, di definire procedure per la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell’accesso alle medesime.

Con il successivo art.15 l’UE ha stabilito che per gli ISP vige un’assenza di obbligo generale di sorveglianza

Il pregio della Direttiva è stato sicuramente quello di aver “armonizzato” la disciplina a livello europeo, ma dobbiamo tener presente che la stessa risale al 2000, ad un epoca fa, considerando che Google esisteva da soli due anni.

Il web è in continua evoluzione, i contenuti sono oggi sempre più user generated, l’anonimato è garantito dalla rete: come è possibile stabilire di chi è la responsabilità di ciò che viene pubblicato?

Proprio con la sentenza del caso Delfi AS. v Estonia la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata per la prima volta sulla possibilità che uno Stato della Convenzione incorra nella violazione della libertà di espressione, e per la prima volta un ISP, nel caso specifico un portale di news online, è stato ritenuto responsabile per i commenti pubblicati dagli utenti del sito, commenti incitanti all’odio e alla violenza nei confronti di soggetti terzi, generando non poche incertezze e dubbi sulla questione della responsabilità online.

Per capire le ragioni della Corte dobbiamo riassumere brevemente i fatti:

la Delfi AS. è uno dei più importanti portali Internet di news in Estonia attraverso il quale i lettori hanno la possibilità di commentare le notizie pubblicando autonomamente post in calce alle stesse. Nel gennaio del 2006 la Delfi AS. ha pubblicato sulle proprie pagine web un articolo riguardante il piano industriale di una società di traghetti estoni, la SLK, nel quale veniva riportata la possibilità di un piano industriale che prevedeva la distruzione delle Ice Roads, strade pubbliche costruite sul mare ghiacciato che consentono il collegamento tra la terraferma e alcune isole del Mar Baltico. Nel giro di pochissimi giorni la notizia, suscitando le reazioni del pubblico, ha ricevuto più di 185 commenti 20 dei quali ritenuti offensivi e minacciosi nei confronti di un membro del consiglio di amministrazione della società in questione, nonché maggior azionista della società. Il 9 marzo 2006 l’avvocato dell’azionista richiese al portale Delfi AS. di rimuovere i commenti offensivi e di risarcire il suo assistito di euro 32.000 per i danni morali subiti. Lo stesso giorno i venti commenti ritenuti offensivi furono rimossi ma il portale di news si rifiutò di risarcire il danno, in quanto aveva tempestivamente provveduto alla rimozione dei commenti sulla base del sistema di notifica e rimozione (notice-and-take-down) previsto dal portale stesso.

Nel giugno del 2008 i Giudici del Tribunale estone dichiararono la Delfi AS. responsabile per i commenti pubblicati sul suo sito in quanto diffamatori, condannando la stessa ad un risarcimento danni ridotto a euro 320.

Nel giugno del 2009 la Suprema Corte estone respinse l’appello della Delfi: l’appellante richiamando l’art. 15 della Direttiva 2000/31/CE, rivendicava il suo ruolo neutrale di intermediario in capo la quale non esiste un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che gli stessi intermediari trasmettono o memorizzano.

La Delfi AS. decise così di portare la questione davanti alla Corte dei Diritti dell’Uomo, ritenendo che l’accertamento della sua responsabilità e la condanna al risarcimento danni, nel caso di specie, avessero comportato la violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 della Convenzione.

Sul ricorso si è pronunciata prima la Camera della CEDU, con sentenza emessa nel 2013 e poi la Grande Camera, con la sentenza del 2015.

In entrambe le sentenze i giudici di Strasburgo hanno stabilito che la sentenza dei giudici nazionali non aveva costituito una violazione dell’art. 10 della Convenzione: in questi casi, precisa la Corte, occorre realizzare un bilanciamento tra i valori in conflitto (libertà di espressione e tutela della reputazione), applicando il test delle tre fasi, e nel caso di specie il test era positivo:

· se la restrizione alla libertà di espressione è legittima: in questo caso la Corte ha stabilito che la restrizione fosse prevista da una norma di legge nazionale di cui la Delfi AS. doveva essere a conoscenza. La Grande Camera ha stabilito che la società ricorrente, in quanto editore, avrebbe dovuto essere a conoscenza della legislazione e della giurisprudenza e prevedere i rischi connessi alle sue attività.

· se serve ad uno scopo legittimo: nel caso di specie a bilanciare due diversi diritti;

· se è necessaria in una società democratica, ovvero se corrisponde a un bisogno sociale imperativo: nel caso in questione alla tutela della reputazione di un individuo, garantita dall’art.8 della Convenzione.

La Grande Camera nel motivare la sentenza si è concentrata su alcune questioni fondanti la legittimità dell’imputazione di responsabilità civile in capo all’editore:

·la natura commerciale e professionale dell’editore Delfi AS: la Corte ha sottolineato come la Delfi AS fosse tra le principali e più redditizie società editrici estoni, operando nel settore con finalità commerciali e gestendo le pubblicazioni in maniera assolutamente professionale, per questo a determinare la responsabilità dell’editore,· non sarebbe la natura del mezzo impiegato, bensì il tipo di organizzazione e le finalità da questa perseguite.

·La Corte ha poi evidenziato come la Delfi AS. avesse incoraggiato i propri lettori a lasciare commenti alle loro notizie, in quanto il guadagno proveniente dalle intersezioni pubblicitarie cresce all’aumentare dei commenti postati dagli utenti.

· Il chiaro contenuto violento e minaccioso per l’integrità fisica delle persone dei commenti rilasciati dai lettori sul quotidiano online: la Corte ha più volte evidenziato la natura esplicitamente diffamatoria e minacciosa dei commenti pubblicati

1. Furthermore, the Court notes that the applicant company’s news portal was one of the biggest Internet media publications in the country; it had a wide readership and there was a known public concern about the controversial nature of the comments it attracted (see paragraph 15 above). Moreover, as outlined above, the impugned comments in the present case, as assessed by the Supreme Court, mainly constituted hate speech and speech that directly advocated acts of violence. Thus, the establishment of their unlawful nature did not require any linguistic or legal analysis since the remarks were on their face manifestly unlawful. It is against this background that the Court will proceed to examine the applicant company’s complaint. (fonte)

· L’insufficienza delle contromisure adottate dall’editore per rimuovere tempestivamente e senza preavviso i commenti chiaramente illegali: secondo la Corte le soluzioni tecniche automatiche adottate dalla Delfi AS. per rimuovere i contenuti diffamatori non erano state in grado di bloccare le più comuni ed esplicite parole volgari.

La Corte ha infatti affermato che in ogni caso Delfi AS. avrebbe potuto provvedere autonomamente alla rimozione dei commenti offensivi come risultava avere fatto in altre occasioni, inoltre secondo la Corte la capacità di monitorare il web, per una potenziale vittima, è limitata rispetto alla capacità di un grande portale commerciale come la Delfi AS.

2. Moreover, depending on the circumstances, there may be no identifiable individual victim, for example in some cases of hate speech directed against a group of persons or speech directly inciting violence of the type manifested in several of the comments in the present case. In cases where an individual victim exists, he or she may be prevented from notifying an Internet service provider of the alleged violation of his or her rights. The Court attaches weight to the consideration that the ability of a potential victim of hate speech to continuously monitor the Internet is more limited than the ability of a large commercial Internet news portal to prevent or rapidly remove such comments.(fonte)

· La modesta sanzione pecuniaria inflitta alla società ricorrente (320 euro);

La Corte ha così stabilito che non c’è stata nessuna violazione dell’art. 10 della Convenzione.

Accordingly, there has been no violation of Article 10 of the Convention.(fonte)

È da sottolineare che la Corte europea agisce come giudice del caso concreto: non fissa regole generali, ma procede all’analisi dei fattori caratteristici della vicenda. Per questo la Grande Camera ha cercato di limitare l’impatto della sua sentenza chiarendo che il caso non riguardava “altri fori in Internet” dove i commenti possono essere diffusi. Di conseguenza il giudizio non è applicabile né su una piattaforma di social media in cui il fornitore non offre alcun contenuto, né nei casi in cui il fornitore di contenuti è una persona privata che gestisce il sito web o il blog “come un hobby”

Anche se la sentenza è da leggere con riferimento allo specifico caso e al contesto nazionale, è inevitabile che abbia avuto conseguenze sulla giurisprudenza europea e che abbia aperto alla possibilità di una flessibile interpretazione della Direttiva 2000/31/CE. Dal caso appena esaminato emerge che lo scopo lucrativo della Delfi AS sia stato fondante nella determinazione della sua responsabilità, così come il contenuto dei commenti, chiaramente illegali e minatori per l’integrità fisica di terzi.

La successiva sentenza della CEDU “MTE and Index.hu Zrt v. Hungary” dimostra come il dibattito sulla responsabilità delle ISP per contenuti pubblicati da terzi sia ancora aperto e di difficile definizione e sempre più lontano un univoco orientamento comunitario.

Il 2 febbraio del 2016 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza n.22947/13 ha stabilito che la Magyar Tartalomszolgáltatók Egyesülete (MTE), organo di autoregolamentazione dei fornitori di contenuti internet ungherese, e la Index.hu Zrt, portale di notizie Internet, non sono responsabili per i commenti offensivi pubblicati dai loro lettori sui rispettivi siti web, rovesciando la decisione della Corte ungherese.

Nel gennaio del 2010 la MTE e la Index pubblicarono pareri critici rispetto a pratiche commerciali ingannevoli di due siti immobiliari, a seguito dei quali molti utenti anonimi avevano postato commenti volgari rivolti proprio alle due agenzie. La società che gestisce le due agenzie decise allora di promuovere un’azione civile contro la MTE e la Index perché ritenuti responsabili di aver danneggiato la loro reputazione. I giudici del Kuria (il più alto organo giudiziario ungherese) accolsero i motivi del ricorso condannando i ricorrenti al pagamento di 250 euro obbligandoli alla rimozione immediata dei commenti, che furono subito cancellati.

La MTE e la Index hanno deciso allora di presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, invocando la libertà di espressione garantita dall’art.10 della Convenzione Europea; la Quarta Sezione della Corte è giunta ad una decisione opposta rispetto a quella del caso Delfi AS. v Estonia, e tra le motivazioni ha messo in luce le differenze dei due casi.

·La sentenza ha evidenziato che nel caso MTE e Index, a differenza del caso Delfi AS., i commenti incriminati anche se offensivi e volgari, non costituivano incitamento all’odio e minacce per l’integrità fisica di terzi. Le espressioni utilizzate dai lettori, seppur volgari, erano di uso comune su molti siti web, e i ricorrenti avevano preso alcune misure per evitare commenti diffamatori sui loro portali o per rimuoverli: entrambi avevano un disclaimer nelle loro condizioni generali e un sistema di rimozione di commenti offensivi basato sul sistema del notice-and-take-down, con il quale chiunque avrebbe potuto segnalare commenti illegali al fine di essere rimossi.

·La Corte ha inoltre ritenuto che i giudici ungheresi nel determinare la responsabilità dei ricorrenti non ha effettuato un corretto bilanciamento tra il diritto alla libertà di espressione (art. 10 della Convenzione) invocato da quest’ultimi, e il diritto al rispetto della propria reputazione (art.8 della Convenzione) rivendicato dal sito web delle immobiliari.

·Infine la Corte ha rilevato che la società offesa non ha mai chiesto ai ricorrenti di rimuovere i commenti, scegliendo di chiedere giustizia direttamente al tribunale (contrariamente di quanto successo nella causa Delfi AS. v. Estonia), sottolineando altresì che c’è differenza tra la reputazione di una società e la reputazione di un individuo. La diffamazione di un individuo si riflette sul suo status social (come nel caso Delfi AS.); tale interesse va tutelato in quanto ha ripercussioni sulla dignità dell’uomo.

Secondo i giudici europei ritenere i ricorrenti responsabili per commenti pubblicati da terzi potrebbe generare ripercussioni negative, spingendo i fornitori di servizi in Internet ad eliminare gli spazi per i commenti di terzi, arrecando conseguenze alla libertà di espressione online in particolare per quanto riguarda i siti non commerciali.

86. In any event, the Court is of the view that the decisive question when assessing the consequence for the applicants is not the absence of damages payable, but the manner in which Internet portals such as theirs can be held liable for third-party comments. Such liability may have foreseeable negative consequences on the comment environment of an Internet portal, for example by impelling it to close the commenting space altogether. For the Court, these consequences may have, directly or indirectly, a chilling effect on the freedom of expression on the Internet. This effect could be particularly detrimental for a non-commercial website such as the first applicant (compare and contrast Delfi AS, cited above, § 161).(fonte)

Tutte le considerazioni di cui sopra hanno consentito ai giudici di emettere una sentenza all’unanimità stabilendo che nella decisione della Corte nazionale ungherese vi era stata una violazione dell’art. 10 della Convenzione.

Nonostante i giudici della Quarta Sezione della Corte Europea abbiano giudicato in modo molto diverso il caso di specie rispetto al caso della Delfi AS., nella sentenza troviamo la conferma di una delle considerazioni più importanti della sentenza della Grande Camera: in caso di discorsi di odio e di incitamento diretto alla violenza contro le singole persone, i portali di notizie possono essere ritenuti responsabili se non riescono a muovere tali commenti chiaramente illegali e minatori senza ritardi.

Il problema rimane quello dell’impossibilità per i portali di rilevare tempestivamente le espressioni violente. Si dovrebbe mettere in atto un sistema di pre-monitoraggio di tutti i commenti user generated, in modo da essere in grado di rimuovere senza indugio e senza l’indicazione di altri utenti tutti i commenti ritenuti minacciosi per l’integrità fisica delle persone. Tale strumento finirebbe però con il limitare la libertà di espressione di ciascun individuo, senza considerare che la maggior parte dei portali non sarebbe in grado di adottare tali provvedimenti e finirebbe con il chiudere gli spazi di dibattito online.

L’Unione Europea ha ancora molto da lavorare sul tema in questione, in particolar modo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dovrà di volta in volta esaminare e prendere decisioni sui casi specifici.

Il Giudice Kuris (il cui parere è allegato alla sentenza MTE e Index) in calce alla sentenza dichiara “…se questo è il primo giudizio post-Delfi, ovviamente non sarà l’ultimo. La Corte si è limitata a sentenziare sulle singole circostanze di questo caso particolare. Ci saranno inevitabilmente altri giudici che si occuperanno di responsabilità per il contenuto dei messaggi in Internet, ma oggi è troppo presto per trarre conclusioni generali. Si dovrebbe guardare avanti con la speranza che la presente sentenza, anche se ora può apparire ad alcuni come un passo indietro rispetto alla sentenza da Delfi AS., si rivelerà essere solo un’ulteriore prova che l’equilibrio da raggiungere in casi di questo tipo è molto sottile”.

Bibliografia

M. Mensi — P. Falletta (2015) “Il diritto del web. Casi e materiali”, Trento: CEDAM

Sitografia

http://www.altalex.com/documents/news/2016/03/10/pubblicazione-messaggi-offensivi-portali-internet-quando-rispondono-gestori

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Carlotta Maccioni
Argomenti di diritto dei media digitali

Laureata in Scienze della Comunicazione, iscritta al corso magistrale in Comunicazione Pubblica, Digitale e d’Impresa presso l’Università degli Studi di Perugia