Facile da nominare, difficile da definire: Hate Speech

L’analisi fatta da Andrew F Sellars, tradotta e sintetizzata per chi si vuole approcciare a questi studi.

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L’articolo preso in esame è quello di Andrew F. Sellars, “Defining Hate Speech” (2016), nel quale si cerca di dare una definizione dell’Hate Speech, tradotto raramente come “incitamento all’odio”.

L’opera di Sellars ha lo scopo di definire cos’è l’ Hate Speech, riprendendo l’introduzione, l’autore spiega che il suo intento non è quello di fare un riassunto letterario del concetto e tantomeno cerca di sviluppare una teoria, il fine ultimo è quello di chiarire che cosa gli studiosi cerchino di studiare e spiegare perché nella definizione devono essere intese molte sfumature.

L’autore prende in analisi il contesto statunitense, dove si devono tenere in considerazioni molti aspetti, primo tra tutti il Primo Emendamento. La libertà d’espressione blocca il Congresso nella creazione di una legislazione ad hoc per arginare il problema dell’ Hate Speech. Molti altri paesi pendono in esame a livello giurisprudenziale l’ Hate Speech, punendolo.

Tuttavia, come ricorda Sellars, c’è un breve periodo nel quale la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha attaccato il tema colpendo a sua volta il Primo Emendamento.

Gli Stati Uniti hanno però, nel tempo sopperito a questa mancanza, proteggendo i cittadini con una legge sulla diffamazione. Dunque in America non è difendibile l’onore, e dunque non attaccabile il soggetto che incita all’odio, ma se il discorso fatto è diffamatorio allora si può instaurare una causa.

Celebre è il caso Beauharnais v. Illinois, che andò alla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1952. Il risultato fu che, una legge dell’Illinois che rendeva illegale pubblicare o esibire qualsiasi scritto o immagine che descrivesse la “depravazione, criminalità” “impudicizia o mancanza di virtù di una classe di cittadini di ogni razza, colore, credo o religione” fu confermata. Il caso è noto poiché da una base legale ed un certo grado di protezione da forme di Hate Speech, e che, grazie alla sentenza, possono essere considerati come una violazione della legge sulla diffamazione negli Stati Uniti. L’imputato di Beauharnais ha distribuito un volantino “con una petizione che chiede al sindaco e al consiglio comunale di Chicago” di fermare l’ulteriore invasione, molestia e invasione dei bianchi, delle loro proprietà, dei quartieri e delle persone, da parte dei negri. “ la condanna del tribunale è stata confermata dalla Corte Suprema dell’Illinois che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato dopo aver respinto la sfida del Quattordicesimo Emendamento. A suo parere, il giudice Frankfurter ha sostenuto che il discorso condotto dall’imputato ha violato la diffamazione, che è ragionata per essere al di fuori della protezione del primo e del quattordicesimo emendamento.

Altro caso riportato da Sellars è quello del 1977 di Sokokie, altra espressione pubblica d’odio e che ha distanza di 20 anni ha riaperto il dibattito.

È fatto certo che non si può avere una definizione chiara di hate speech partendo dalle formulazioni fatte negli Stati Uniti, dato l’alto livello si soggettività, soprattutto perché c’è questo fattore anche nei rari casi in cui la legge americana consente la sua punizione. Dunque gran parte del dibattito americano inerente all’hate speech è incrinato da questo alto tasso di soggettività.

Passando oltre nell’articolo di Sellars, si fa una breve analisi sulle teorie del discorso di Kent Greenawalt le quali forniscono spunto per le varie teorie della libertà di espressione. Greenawalt disegna un principio di libertà di espressione che identifica come distinto da un “principio minimo di libertà”, cioè la premessa fondamentale in una democrazia liberale secondo cui i cittadini dovrebbero essere liberi di fare ciò che desiderano e che il governo dovrebbe solo essere autorizzato ad agire quando le azioni di una persona danneggiano i diritti di un’altra persona. Se ciò da solo fornisse la base per l’azione, i governi avrebbero tutto il motivo di regolare l’incitamento all’odio. Una teoria della libertà di espressione aiuta a spiegare perché molti governi, piattaforme online e studiosi sono riluttanti a fare quel passo, nonostante i danni provocati.

Sempre Greenawalt nota l’esistenza di diverse teorie proposte per spiegare l’interesse per la libertà di espressione, ci sono stati, infatti, tentativi di unificare le teorie in un unico insieme. Greenawalt invece divide il campo in due metà generali, i principi “consequenzialisti”, che difendono il discorso a causa dei risultati produttivi di tale protezione, e dei principi “non consequenziali”, che difendono la parola per il suo valore intrinseco.

Procedendo la lettura Sellers passa in esamine una serie di concetti quali: il mercato delle idee, l’autogoverno democratico e la società tollerante; tutte teorie interessanti che aiutano a capire il concetto di Hate speech e quali siano i modi migliori per arginarlo e combatterlo.

Nella seconda sezione del suo articolo Sellers tenta di definire l’Hate speech, subito però sottolinea la difficoltà di dare una definizione oggettiva; questo è dovuto al fatto che non si può elaborare un riassunto degli approcci avuti dai vari studiosi, vista la complessità dell’argomento.

Prima però l’autore, giustamente, ci pone una domanda; siamo in grado di riconoscere l’hate speech quando lo vediamo?

Nel suo elaborato fa l’esempio di un caso nel quale non è stato facile accorgersi del “misfatto” e il conseguente protrarsi della situazione ha portato ad un’escalation di spiacevoli situazioni.

La parte conclusiva dell’esempio portato dall’autore, sottolinea come la maggior parte degli studi sull’incitamento all’odio inizi non con una definizione ma con esempi, dunque la mancanza di una definizione precisa si traduce in definizioni incerte sia a livello giurisprudenziale che nelle scienze sociali. In ultima analisi è ancora più difficile ed incerto dare una definizione di “hate speech” negli spazi online.

Di seguito a queste considerazioni Sellers ci delinea i tentativi accademici e legali per dare una definizione all’hate speech. In ordine ne hanno parlato Richard Delgado, Mari J. Matsuda, Calvin Massey, Mayo Moran, Kenneth Ward, Susan Benesch, Bhikhu Parekh, Alice Marwick and Ross Miller. Invece, per quanto riguarda i tentativi legali se ne è discusso nelle legislazioni del Canada, del Regno Unito, dell’Australia e dell’Unione Europea.

Nell’analisi Sellers procede studiando come le piattaforme online abbiano cercato di definire ed arginare la questione.

I governi hanno si un ruolo importante nel dare una definizione ma le piattaforme online private, come Facebook, Twitter, YouTube e altri, redigono regolarmente delle definizioni di incitamento all’odio per facilitare la moderazione all’interno delle stesse. Queste anche fornire informazioni importanti per gli studiosi.

Dunque come sottolinea Sellers e come mi preme sottolineare, va esplorato questo mondo. È ovvio e irrilevante osservare le differenze tra le regolamentazioni che gestiscono le piattaforme online i governi, va però sottolineano come negli Stati Uniti, le piattaforme hanno una profonda libertà.

Il motivo cardine della regolamentazione delle piattaforme sembra essere il desiderio di non generare polemiche al loro interno, sia per motivi di responsabilità sia per eventuali costi da affrontare in ipotetiche sedi legali.

Inoltre queste hanno dalla loro la tecnologia che offre molte risposte possibili al blocco dell’Hate Speech. SI può infatti eliminare e/o modificare un contenuto, bloccare un utente, rendere il contenuto invisibile ad alcuni ma non a tutti gli utenti e molte altre sono le possibili armi nelle mani delle piattaforme. La maggior parte, se non tutte, si riservano sempre il diritto di eliminare o modificare il contenuto o rimuovere gli utenti a sola discrezione della piattaforma. Pertanto, non è necessario che una piattaforma delinei chiaramente la portata precisa di comportamenti inaccettabili su di se.

Le piattaforme sono anche soggette a pressioni informali da parte dei governi. Negli Stati Uniti, le pressioni esercitate in nome del Primo Emendamento. In Europa, la coercizione si manifesta nel “codice di condotta” europeo che obbliga le aziende a vietare l’incitamento all’odio sulla loro piattaforma, a rispondere rapidamente alle segnalazioni di incitamento all’odio, a fornire aggiornamenti regolari ai paesi membri sulle statistiche.

Vi è ovviamente un diverso peso tra quello esercitato dall’Unione Europea e quello dagli Stati Uniti.

Prese in analisi le tre diverse piattaforme social on line maggiori: You Tube, Twitter e Facebook, Sellers nota come sia nei “termini di servizio”, nelle “linee guida” e in tutti gli altri documenti che gli utenti accettano senza leggere, che viene definito il concetto di hate speech.

Per arrivare alle conclusioni l’autore rivede tutti i concetti sopracitati. Tenta di unire tutti i tratti caratteristici che però non restituiscono una definizione completa, Sellers suggerisce di utilizzare i singoli tratti per creare un elenco a punti ed attribuire un punteggio alle singole caratteristiche.

Questa è una tecnica usata anche in altre aree dello studio del linguaggio, ed è un utile strumento analitico, in quanto abbraccia il fatto che la parola è intrinsecamente un comportamento umano complicato, altamente contestuale, e che tutte le categorizzazioni del discorso possono essere fatte solo da questioni di gradi.

Inoltre parlano a livello qualitativo, se si analizza un possibile hate speech guardandolo sotto più fattori si capirà meglio se è giusto classificarlo in quel modo. Inoltre è plausibile che questa tecnica sia attuabile anche negli Stati Uniti.

Infine, Sellers ci fornisce una lista dettagliata di criteri per attuare un approccio metodologico che pretenda di catturare e analizzare tutti i discorsi. Questi tratti possono aiutare ad approfondire casi specifici.

Di seguito gli 8 criteri di analisi, che non sono stati tradotti poiché ritengo non espirmano il giusto concetto se scritti in Italiano:

1 — Targeting of a Group, or Individual as a Member of a Group

2 — Content in the Message that Expresses Hatred

3 — The Speech Causes a Harm

4 — The Speaker Intends Harm or Bad Activity

5 — The Speech Incites Bad Actions Beyond the Speech Itself

6 — The Speech is Either Public or Directed at a Member of the Group

7 — The Context Makes Violent Response Possible

8 — The Speech Has No Redeeming Purpose

In conclusione Sellers spiega come tutto il suo lavoro sia statao fatto per cercare di illustrare che è difficile, per buone ragioni e alla luce degli interessi in gioco, dare una definizione giusta, completa ed esaustiva. Dare una risposta a questa domanda deve essere fatto in modo intelligente. Concludo con le sue parole: “Una persona che dice di avere una soluzione facile al problema dell’odio, o persino di osservare e documentare l’incitamento all’odio, non pensa semplicemente abbastanza. Questo problema è fondamentale e dobbiamo affrontarlo in modo critico. La definizione dell’hate speech in uno studio o in un ambiente normativo può essere la parte più importante del progetto. Guardando attraverso gli otto tratti sopra identificati, e usando molti di loro nella progettazione di un sistema di identificazione, contribuiremo a garantire che la ricerca sia mirata.”

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