Storica sentenza USA boccia la net neutrality

Carmen
Argomenti di diritto dei media digitali
8 min readDec 15, 2016

Nel 2014, la Corte d’Appello del District of Columbia Circuit scardina i principi dell’Open Internet. Al via a nuove regole in tema di net neutrality

La net neutrality o neutralità della rete è, negli ultimi anni, tema di numerosi dibattiti tra giuristi, istituzioni ed operatori del settore; rappresenta il principio che regola Internet e sancisce che tutti i contenuti trasmessi attraverso la Rete siano oggetto di condizioni equivalenti, ovvero possano circolare liberamente, indipendentemente dal loro autore/destinatario e possano essere raggiungibili in egual misura senza che i provider, ossia le società intermediarie che forniscono le connessioni, applichino alcun tipo di favoritismo. Un provider non può quindi bloccare l’accesso a determinati siti o servizi online tantomeno né creare corsie preferenziali limitando la quantità di banda larga destinata a raggiungere un certo sito, facendo sì che il suo contenuto sia caricato più lentamente rispetto ad un altro.

Il dibattito sulla net neutrality si è fortemente acceso negli Stati Uniti nei primi mesi del 2014, con una storica sentenza della Corte d’Appello di Washington, DC, in riferimento alla causa del colosso delle telecomunicazioni statunitensi, nonché uno dei maggiori fornitori di banda larga, la Verizon Communications Inc. (Verizon) vs Federal Communications Commission (FCC), l’agenzia governativa con carattere di autorità amministrativa indipendente, che si occupa di tutte le comunicazioni interstatali (via cavo, telefoniche e satellitari) ed internazionali, provenienti e destinate agli Stati Uniti. Una sentenza senza precedenti che ha coinvolto non solo il settore dell’industry ed il mondo politico, con un coinvolgimento in prima persona dell’ex presidente Obama, ma soprattutto dell’opinione pubblica, chiamata in causa dalla stessa FCC in una consultazione pubblica sulla riforma del regime di net neutrality, che ha ricevuto 3,9 milioni di risposte.

La Corte, infatti, ha accolto il ricorso della Verizon contro Netflix, giudicando illegittime le regole imposte sulla neutralità della Rete dalla direttiva Open Internet Order del 2010 della FCC. Quest’ultima forniva delle norme di prevenzione sui fornitori di banda larga al fine di tutelare e preservare la neutralità della rete, nonché di incorporarvi principi di apertura a lungo termine, che potessero incentivare l’innovazione e la crescita di Internet. Ai provider di banda larga si impediva di bloccare e fare discriminazioni “irragionevoli” online, offrendo qualche possibilità di manovra in più ai gestori mobili, dovute a motivi tecnici di banda, avendo questi una capacità inferiore rispetto a quelli fissi. Tre erano i punti cardine della direttiva Open Internet Order: informativa al pubblico e trasparenza dei mandati per entrambi i tipi di gestori, affinché gli utenti avessero accesso a tutte le informazioni relative alle pratiche di gestione della rete, prestazioni e condizioni commerciali degli Internet Service Provider; divieto di anti-bloccaggio per entrambi i gestori, al fine di impedire il blocco di applicazione lecite o contenuti in concorrenza con i servizi forniti da altri gestori di banda larga; divieto contro la discriminazione irragionevole nella lecita trasmissione di traffico, relativa solo ai fornitori fissi. In sintesi ai provider di banda larga era richiesto di trattare tutto il traffico allo stesso modo, impedendo il trattamento preferenziale di alcuni content provider.

Verizon si è opposta a queste nuove regole, muovendo, in tribunale, diverse accuse alla FCC. Innanzitutto imputava alla Commissione di non avere l’autorità legale per regolamentare il mercato delle connessioni ad Internet, intervenendo così sulle politiche aziendali relative ai contenuti e al modo in cui questi possano essere forniti, oltrepassando, quindi, i limiti impostigli dal Congresso. In questo caso la Corte, riportando la Sezione 706 del Communications Act del 1996, dove veniva ribadito che compito della FCC era quello di incoraggiare lo sviluppo di capacità avanzate delle telecomunicazioni, ad esempio la banda larga, e di utilizzare metodi regolatori al fine di rimuovere le barriere agli investimenti in infrastrutture, ha respinto l’argomento della Verizon, sostenendone la corretta interpretazione da parte della Commissione. Inoltre, la Sezione 706, prevedeva che, nel momento in cui la Commissione avesse constatato che la banda larga non fosse stata distribuita a tutti gli americani in modo ragionevole e tempestivo, sarebbe potuta intervenire immediatamente, eliminando gli ostacoli agli investimenti in infrastrutture e promuovendo la concorrenza. Tuttavia, Verizon ha controbattuto asserendo che queste disposizioni di legge non erano altro che mere dichiarazioni congressuali di politica e che, se anche la Commissione avesse avuto l’autorità di regolamentare questo settore, le regole imposte erano arbitrarie, non supportate da prove sostanziali. Ma la Corte si è trovata in disaccordo anche su questo punto, sostenendo che la FCC avesse portato tutte le determinazioni necessarie a provare come, nel 2010, la banda larga non fosse stata distribuita in modo ragionevole e tempestivo a tutti gli americani, anche se ciò era imputabile ad una repentina decisione della stessa Commissione che aveva aumentato la soglia minima della banda larga (4Mbps).

Il principale terreno di gioco della sentenza Verizon vs FCC verte sulla definizione di provider di banda larga e di conseguenza sulla classificazione degli operatori comuni. Infatti, argomento principale della Verizon è la violazione da parte della Commissione di una sua precedente direttiva, il Communication Act del 1996, che gli attribuiva il potere di regolamentare solo provider classificati come operatori comuni, cioè persone o entità impegnate nell’erogazione del servizio di comunicazione per il noleggio al pubblico, al fine di fornire ogni servizio sotto ragionevole richiesta, oltre che rendere giuste e ragionevoli tutte le spese, le pratiche, le classificazioni e le regolamentazioni per e in relazione con ogni servizio di comunicazione. Il Communications Act, infatti, supera la distinzione tra servizi base e avanzati del regime Computer II, proponendo una nuova classificazione che vede da un lato le compagnie di telecomunicazioni, soggette a regolamentazione di operatore comune, e dall’altro i fornitori di servizi di informazione, non soggetti a suddetta regolamentazione e nei quali rientrano i provider di banda larga. La Commissione, secondo la Corte, sottoponendo i provider di banda larga a requisiti anti-bloccaggio e anti-discriminatori, ha trattato questi come operatori comuni; tuttavia la FCC si è giustificata a tal riguardo sostenendo di non aver limitato la capacità dei fornitori di banda larga a trattare a condizioni individuali con i propri abbonati. Ciò nonostante i giudici hanno annullato la parte della direttiva riguardante il divieto di bloccare determinati contenuti o di favorirne altri proprio sulla base del fatto che la FCC precedentemente aveva deciso di non classificare i provider di banda larga come operatori comuni.

Della sentenza se ne è occupato anche il giudice federale Silberman, il quale si trova in molti punti in disaccordo con la Corte, sostenendo che seppur la Commissione avesse l’autorità per emanare l’Order al fine di promuovere la concorrenza nel mercato delle telecomunicazioni e rimuovere le barriere agli investimenti in infrastrutture, le regole imposte sono al contempo arbitrarie, non basate su prove sostanziali. Silberman, infatti, ha messo in luce come l’Order trovi il suo fondamento in mere speculazioni, in quanto la Commissione non ha mai fatto alcun tipo di accertamento sull’effettivo potere di mercato dei provider di banda larga, sulla loro reale capacità economica e tecnologica che consente loro di discriminare le condizioni di accesso alle reti per i content provider. Inoltre, il giudice federale rimprovera alla FCC il non aver mai identificato una pratica specifica dei provider di banda larga che potesse essere considerata come ostacolo agli investimenti, ma essersi limitati alla sola proposta di preoccupazioni che, seppur valide, non possono essere in grado di reggere una tale regolamentazione. Di conseguenza, il trattamento di operatore comune imposto ai provider di banda larga risulta inammissibile per il giudice federale.

La sentenza della Corte d’Appello del District of Columbia Circuit ha quindi segnato la nascita di una nuova era nel mondo delle connessioni. A seguito di questa, infatti, è stata annullata la parte della direttiva Open Internet Order riguardante il divieto di bloccare o favorire determinati contenuti, sulla base del fatto che la Commissione aveva imposto regole che non poteva applicare ai provider in relazione alla sua precedente decisione di non classificare tali provider come operatori comuni. Restano validi, invece, gli obblighi di trasparenza dei contenuti che impongono ai provider il dovere di fornire spiegazioni ai loro clienti sulle modalità di gestione e organizzazione del traffico sulle proprie reti. Ciò significa che se un servizio di video in streaming sarà favorito o se altri siti saranno bloccati, i provider hanno l’obbligo di indicarlo in modo chiaro ed esplicito.

La sentenza, che è stata una chiara vittoria per i provider, porta in luce una questione fondamentale: la net neutrality è una buona politica pubblica?

Le compagnie che forniscono connessioni, ovviamente, sono contrarie a questa rigida regolamentazione, sostenendo che sia controproducente anche per gli utenti finali. Infatti, l’imposizione di limiti ai provider di banda larga danneggia l’innovazione da parte di quest’ultimi, impedendo di sviluppare nuove soluzioni commerciali, non necessariamente contrarie agli interessi dei loro clienti. Content provider come Youtube e Netflix consumano molta più banda rispetto ad altri, e per questo motivo le società che forniscono connessioni vorrebbero avere la facoltà di imporre il pagamento di un “pedaggio” in cambio di corsie preferenziali che consentano a determinati contenuti di viaggiare più velocemente. Dall’altro lato, i content provider sono preoccupati che, in assenza di un Internet aperto, il loro contenuto possa essere facilmente bloccato o degradato e che si venga a creare un sistema fondato sul principio della priorità del pagato che si trasforma inevitabilmente in una riduzione della libertà di espressione su Internet.

Dopo un lungo dibattito e ad un anno dalla sentenza, la FCC ha fornito delle nuove regole in tema di net neutrality. Innanzitutto ha stabilito che i provider di connessioni rientrano nella categoria di soggetti previsti dal Titolo II del Communications Act del 1934.

I provider, sia su rete fissa che mobile, quindi sono stati classificati come operatori comuni, ovvero come soggetti che svolgono un lavoro di pubblica utilità trasportando dati, equiparando Internet ad un servizio di pubblica utilità, come può essere la fornitura di corrente elettrica. In questo modo la Commissione fa confluire i provider nella categoria di sua responsabilità in modo tale da avere piena legittimità nell’imporre regole che impediscano che la trasmissione di dati sia discriminata e gli fornisce un maggior potere di controllo sulle loro attività, potendo così vigilare e risolvere contenziosi sul tema della net neutrality. Le nuove regole adottate dalla FCC consentono comunque un margine di azione ai provider, i quali possono differenziare il traffico in determinate circostanze, ma solo se giustificate da motivi tecnici e non a scopo di lucro o che possano penalizzare altri concorrenti. Compito della FCC sarà quello di intervenire sulle controversie e vigilare sul mantenimento di un’equa concorrenza.

Bibliografia:

Hurst A., Neutering Net Neutrality: What Verizon v. F.C.C. Means for the Future of the Internet, Hasting Science and Technology Law Journal, 2015

Mensi M. — Falletta P., Il diritto nel web. Casi e materiali, Trento, Cedam, 2015

Sitografia:

www.ilpost.it

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