Regno Unito: quando social network e motori di ricerca diventano pericolosi per il pluralismo

Caterina Panfili
Argomenti di diritto dei media digitali
16 min readDec 28, 2017

Internet favorisce davvero il pluralismo informativo o è la sua più grande minaccia? Chi decide cosa vogliamo vedere? Un’analisi empirica per capire il ruolo degli intermediari digitali

Nell’epoca web 2.0 quasi tutti gli abitanti dei Paesi sviluppati vivono eternamente connessi. Ad ottobre 2017 la popolazione mondiale ammontava a 7,5 miliardi di persone, con 3.773.000.000 utenti collegati ad Internet. Il 40% degli abitanti della Terra, quindi, è in rete: numeri grandi, se si pensa che vent’anni fa gli utenti di Internet erano meno dell’1%. Attualmente, 6 miliardi di persone hanno un telefonino, 2.549.000.000 di queste utilizzano Internet dal cellulare e 2.789.000.000 sono attivi nei social. Se vi va, collegatevi al sito http://www.internetlivestats.com/ , che aggiorna tutte le statistiche della rete in tempo reale: potrete vedere quanti sono gli utenti online attualmente connessi e cosa stanno facendo. [1]
Siamo eternamente controllati? Forse. Un altro aspetto di straordinario interesse è confrontare i mezzi tradizionali con le nuove tecnologie, analizzare questi universi diversi e capire come è cambiato, nel tempo, il pluralismo. Rispetto agli spazi limitati della carta stampata, alle frequenze radio e agli 11 canali della tv analogica, resta facile per ognuno di noi capire quanto lo sviluppo dell’Ethernet abbia facilitato ad aumentato la disponibilità delle notizie, nonché la velocità in termini di diffusione e reperibilità. In questo senso la rete sembra essere un’importante soluzione di sistema per favorire il pluralismo dell’informazione.
Che cos’è il pluralismo? Una caratteristica tipica delle società moderne in cui la realtà è formata da idee e principi ugualmente importanti da essere conosciuti e condivisi e le decisioni sono prese da una pluralità di individui che partecipano all’attività pubblica senza che nessun individuo o gruppo prevalga sull’altro. Esso serve, appunto, a proteggere le democrazie dai totalitarismi e dalle concentrazioni di potere e si sviluppa con i vecchi mezzi di comunicazione in cui le risorse e gli spazi a disposizione erano scarsi. Per questo era necessario garantire che la proprietà degli strumenti volti ad assicurare il diritto d’informazione, venisse frammentata tra i vari attori, per evitare che questi si concentrassero nelle mani di un unico proprietario. A questo fine nacquero norme anticoncentrazione come la par condicio, espressione del pluralismo interno, volta a tutelare la parità di trattamento: a tutti i partiti e/o movimenti politici si garantivano tempi di gestione del mezzo televisivo proporzionati per garantire a tutti la stessa visibilità.

Cosa cambia con la rete? Il pluralismo ai tempi di Internet

Ciò che differenzia la rete da tutti gli altri mezzi di comunicazione è che, al suo interno, tutti possono inserire informazioni. Ovviamente non tutti sono giornalisti ma la cosa davvero importante è che le fonti di informazione, oggi, non sono più scarse come un tempo. Non solo, le informazioni sono anche distribuite, tramite un sistema decentrato, in un raggio non comparabile con nessun altro mezzo di comunicazione. Ciascun punto della rete, infatti, può, indipendentemente dalle distanze geografiche, ricevere e diffondere informazioni. Internet, quindi, sembrerebbe essere la soluzione migliore per garantire la pluralità delle notizie. Ma vedremo come il pluralismo numerico non basta di per sé a garantire questo risultato.
I motori di ricerca, i social network, le piattaforme online e i negozi di app stanno sempre più diventando i NEW POWER BROKERS, ovvero gli intermediari digitali: mediatori di potere che, dominando più mercati dei media, controllano la pubblicità e le informazioni personali minacciando, così, la democrazia .
Un esempio pratico? La home Facebook di ognuno di voi. Confrontandole con quelle dei vostri amici potrete facilmente vedere come, se aperte nelle stesso momento, nessuna di esse mostra gli stessi contenuti. Ognuno, infatti, ha la propria cerchia di amici e i propri interessi; grazie alle pagine che contengono il nostro ‘like’, i social network sanno che cosa ci piace nella vita reale.

Ma non solo: sembrano anche essere a conoscenza di chi sono i nostri amici più stretti e di quali luoghi frequentiamo di più. Ebbene si, a differenza della tv, dei giornali e dalla radio, Internet ci conosce: attraverso le nostre ricerche più frequenti, le parole più utilizzate e i siti da noi più cliccati, ha raccolto dati e informazioni su di noi. Questo perché sia i social network che Google, senza dimenticare Amazon, Netflix, Yahoo e molti altri, sono regolati e filtrati da un meccanismo chiamato algoritmo e, poiché gli algoritmi sono impostati sulla logica del guadagno, fanno di tutto per farci navigare più tempo possibile, mostrandoci i contenuti che sanno interessarci.

Ma quali effetti hanno i social sulle persone? Lo studioso Damian Tambini, utilizzando un campione di 10 milioni di utenti Facebook, ha svolto un’ indagine per cercare di dimostrarlo. Da essa è emerso che il 99% degli utenti ha un’ideologia coerente a quella degli amici di cui condivide contenuti che rischiano, tra le altre cose, di diventare sempre più omogenei. Risultati simili li ha trovati anche su Twitter: dai dati di 3,6 milioni di utenti è emerso che gli individui scelgono di leggere o condividere, per la maggior parte, i contenuti allineati con le loro ideologie e preferenze personali.
E chi sceglie i contenuti che vediamo nei social? Sempre gli algoritmi. Quest’ultimi dettano una sorta di gerarchia tra i post che non è ordinata solo in modo cronologico. Esiste infatti un criterio ben preciso secondo cui alcuni contenuti, di solito postati dai nostri amici più stretti o dalle pagine che più seguiamo, vengono anticipati, altri posticipati, altri addirittura non compaiono. Lo stesso criterio, per cui, molto spesso, Facebook sceglie di fare degli esperimenti su di noi, come quello con cui i responsabili degli algoritmi avevano modificato il loro funzionamento mostrando ad alcuni utenti solo post tristi e ad altri soltanto post felici per analizzare come la natura dei contenuti postati da ognuno dipendesse da ciò che leggevano.
Se non sono i consumatori stessi, quindi, ad imporsi di accedere ad informazioni o fonti diverse da quelle che trovano facilmente tra i primi risultati online, i mezzi di comunicazione moderni così strutturati, rischiano di diventare la principale negazione del pluralismo sostanziale: polarizzando le posizioni degli utenti e fornendogli un’informazione parziale, riferita soltanto alle notizie di interesse dell’utente. Percorrendo questa strada la rete potrebbe acuire il rischio di far perdere alle persone un possibile terreno di confronto comune; in questo modo, infatti, le idee diverse dalle proprie diventano estranee e sconosciute.

Eli Pariser parla non a caso della formazione di una FILTER BUBBLE, ovvero di una bolla che, in base ai gusti dei soggetti, filtra il numero infinito di informazioni che circolano in rete. Nella propria bolla l’utente online sta comodo e, nel tempo libero che dedicano ad Internet, le persone non vogliono stare scomode. Poiché anche molti media tradizionali come Huffington Post e Washington Post si sono adattate a questo, il fruitore online rischia di costruirsi, spesso inconsapevolmente, un mondo digitale fatto a propria immagine e somiglianza e come tale, quindi, inidoneo a fornire una rappresentazione pluralistica del mondo reale. Non vi è mai capitato di restare stupiti di fronte al risultato di un elezione o di un referendum? Se, in molti casi, avevate previsto un esito del tutto diverso da quello che poi avete visto accadere è il caso di chiedervi con quali canali vi siete informati o avete più assiduamente seguito la campagna elettorale. Se la risposta è la home del vostro canale Facebook, riflettete. Probabilmente vi siete isolati nella vostra bolla insieme a tutti quelli che la pensavano come voi, escludendo da essa tutti coloro con un punto di vista opposto. Due bolle parallele portano a vivere in un mondo meno plurale.
Sondaggi Ofcom (Office of Communications) del 2014, l’autorità regolatrice indipendente per le società di comunicazioni nel Regno Unito, mostravano che, secondo solo alla tv, già 3 anni fa Internet era la piattaforma più utilizzata per accedere ogni giorno alle notizie. Inoltre mentre dal 2013 al 2014 era cresciuto con un aumento del 9%, la tv, nello stesso periodo di tempo, aveva visto un calo del 3% su base annua. Per i giovani, di età compresa tra i 16 e i 34 anni, Internet era già diventata la piattaforma di notizie più utilizzata: il 60% di loro pretendeva di accedere alle notizie da qualsiasi dispositivo connesso ad Internet, contro un 56% che prediligeva la tv.

Si può quindi affermare che Internet svolge un ruolo importante nella visibilità di un consumatore medio paragonabile ai giornali.
Ciò suggerirebbe che è necessario studiare e comprendere meglio il ruolo degli intermediari digitali nel Regno Unito, incolpati di influenzare sia l’agenda setting che il flusso informativo, stabilendo i ‘trending topics’ della comunicazione, ovvero gli argomenti più popolari e ricercati. È quindi arrivato il momento di capire quante notizie online scorrono attraverso di loro e quale grado di controllo editoriale essi esercitano.

Il ruolo degli intermediari nella distribuzione delle notizie: l’attuale politica e il dibattito accademico. Serve più regolamentazione?

Innanzitutto occorre chiarire meglio chi sono gli intermediari digitali con un pubblico ampio e un funzionamento segreto degli algoritmi. Damian Tambini, autore del saggio ‘Digital intermediaries in the Uk: implications for news plurality’, nel 2016 include in questa categoria i motori di ricerca come Google e Bing, i social network come Facebook e Twitter, i siti web che aggregano notizie prese da altre fonti compresi Flipboard e Google News, le app store mobili come Apple store e GooglePlay, definendole “istituzioni basate sul software che hanno il potenziale per influenzare il flusso di notizie online, e la loro visibilità, tra fornitori di informazioni e consumatori”.
Tutti questi intermediari digitali assumono quindi una potenziale influenza editoriale, scegliendo quali informazioni possono essere consumate; è infatti evidente che è il contenuto più visibile a raggiungere maggior traffico. Come? Tramite un processo di gatekeeping, ovvero selezione, aggiunta, modellazione, manipolazione, presentazione, cancellazione e targetizzazione delle notizie.
E se è vero che è l’utente a formulare la domanda da cui dipende la risposta dell’algoritmo, è vero anche che, in base alla query posta dall’utente, sono gli algoritmi a decidere quali risultati sono più adatti a noi, come sosteneva già Pariser nel 2009. Non a caso se, in questo momento, ognuno di noi rivolgesse a Google la stessa domanda otterrebbe risultati diversi, se non altro nell’ordine dei risultati. Sono appunto gli algoritmi a stabilire se lasciar filtrare o meno una particolare notizia, quali app promuovere nei mezzi di comunicazione e quali contenuti porre tra i primi risultati, che quindi saranno diversi per ognuno di noi. Il gatekeeper, ovvero colui che sceglie come e quali notizie presentare, ha quindi un effetto significativo. Vari studi dimostrano come la stragrande maggioranza dei consumatori fa semplicemente click, visualizzando soltanto i primi collegamenti che i motori di ricerca o i social, gli mostrano.
In rete, il pluralismo diviene un concetto giuridico usato per prevenire l’abuso del potere dei media e la chiave legale per limitare, nei quadri normativi esistenti, il potere del gatekeeper sulla formazione dell’opinione pubblica.
Attualmente, però, è in corso un dibattito molto forte, che non sembra arrivare ad un punto d’incontro, tra intermediari e critici. Google e Facebook da parte loro sostengono che, a differenza degli editori di un giornale che hanno il dovere di svolgere una funzione informativa e divulgativa, il motivo della loro esistenza è quello di soddisfare le richieste dei consumatori, selezionando i risultati più pertinenti. Sono anche convinti che, in quest’ epoca di crowdsourced plurale, sono gli utenti stessi a collaborare tra loro scambiandosi informazioni e stabilendo, in questo modo, che cosa è degno di notizia. Simon Milner, direttore della politica pubblica di Facebook nel Regno Unito, ha informato la commissione ristretta dell’House of Lords Select Committee on Communication che il contenuto delle notizie è determinato soltanto dal singolo utente, dai suoi interessi e dalla sua identità in rete. Allo stesso modo Peter Barron, responsabile degli affari pubblici di Google nel Regno Unito, ha ribadito che il motore di ricerca non opera alcun processo di valutazione editoriale per determinare il contenuto che gli utenti vedono. L’ideatore stesso della piattaforma, Mark Zuckerberg, ha dichiarato: «noi non siamo un giornale ma solo una piattaforma di scambio». Parole un po’ in contraddizione con i fatti se si pensa che un paio di mesi fa lui stesso ha affermato di voler assumere quasi 5.000 persone per verificare meglio quali informazioni circolano in rete.
Molti studiosi, appunto, sono critici nei confronti degli intermediari e convinti che, quest’ultimi, stiano sempre più riducendo il pluralismo. Gli accademici, con studi empirici, hanno illustrato come queste nuove forme di comunicazione influenzano il processo di formazione dell’opinione nella società. La quota di mercato di Google è al 90% in Europa e Facebook si riferisce ad un numero crescente di visitatori. Dal voto su Facebook, studiato da Zittrain nel 2014 [2] all’analisi giornalistica di Emily Bell[3], Tufekci [4], Poell e van Dijck [5] è emerso come gli intermediari non solo potrebbero opacamente determinare il risultato delle elezioni ma anche esercitare una vera e propria censura sulle notizie che non hanno intenzione di diffondere, minacciando così sia il giornalismo indipendente che il dibattito pubblico. È per questo che, l’escursione di Facebook nel giornalismo di interesse pubblico, ha sollevato preoccupazioni tra gli editori dei giornali, spaventati dalla potenza di Google. «La società dei social network sta facendo sempre più della notizia un business », afferma Ravi Samoiya del New York Times nel 2014 e « questo colosso — continua — fornisce l’accesso a centinaia di milioni di consumatori.

Dalla teoria alle prove empiriche per dimostrare con dati che gli intermediari rappresentano una minaccia per il pluralismo

Dopo aver analizzato tutti i riferimenti teorici sulla questione, è arrivato il momento di rispondere alla domanda iniziale con prove empiriche. A causa della limitazione dei dati di dominio pubblico presente nel Regno Unito, i dati utilizzati da Tambini per portare avanti l’indagine saranno quelli tratti da fonti disponibili pubblicamente. Tali statistiche sono divulgate dalla BBC e da SimilarWeb, ovvero una società informativa fondata nel marzo 2007 che, con i suoi 350 dipendenti, ha sede centrale a Londra e monitora tra il 4% e il 7% della popolazione Internet del Regno Unito, controllando il suo comportamento di navigazione digitale e cercando di analizzare quali siti web hanno più traffico utenti. Con questi dati cerchiamo di rispondere alle domande iniziali:
Quante notizie sono consumate online?
Come abbiamo già analizzato precedentemente, nonostante le piattaforme come tv e stampa rimangono molto importanti, la piattaforma online si sta apprestando a divenire quella di distribuzione più importante, in particolar modo per i giovani.
Quante notizie online gli intermediari sono potenzialmente in grado di influenzare?
SimilarWeb, in un mese ha catturato dati su oltre 200 milioni di consumatori della rete a livello globale che hanno accettato di fornire dati sulla loro navigazione, permettendo alla società di analizzare quali siti visitano e come arrivavano ad essi.
Partendo dal presupposto che i consumatori possono accedere a siti di notizie online in modi diversi ovvero, digitando un indirizzo web in un browser, tramite un motore di ricerca, un social network o un aggregatore di riferimento, dalla ricerca è emerso che nell’ agosto 2015 motori di ricerca e social indirizzavano il 48.6% dei britannici a siti di giornale. Il 38.9% era invece indirizzato da siti la cui attività non è limitata soltanto alla diffusione di notizie di attualità, come Yahoo e Msn.

In sintesi quasi il 50% dei lettori del Regno Unito consuma notizie su siti web dei giornali da dispositivi non mobili ma a cui sono indirizzati da motori di ricerca o social network, ovvero da intermediari.
Oltre a questi dati di Similar Web, quelli della BBC mostrano come almeno un quinto (18%) del traffico totale proviene da motori di ricerca e social media.

La ricerca mostra quindi, con dati empirici, che gli intermediari digitali hanno un ruolo così significativo che circa il 50% del traffico dei giornali online nel Regno Unito è veicolato da intermediari.
Per capire ancora meglio il ruolo di questi ultimi, gli autori hanno chiesto anche ai consumatori di specificare in che modo hanno avuto accesso alle ultime notizie online della settimana: con il 32% dai motori di ricerca e il 28% dai social media, si è dimostrato come, nel 2014 e nel 2015, questi due mezzi di comunicazione sono stati le seconde e le terze rotte di riferimento più importanti.

L’obiettivo di questo articolo non è comunque quello di stabilire in modo definitivo la percentuale esatta del traffico di notizie online riferito agli intermediari nel Regno Unito ma solo quello di far emergere come quest’ ultimi, nonostante il passare del tempo, svolgano un ruolo significativo nella distribuzione delle notizie ai consumatori online.

Quanta influenza editoriale esercitano gli intermediari sulle notizie online?

Tanta. Dai dati di dominio pubblico e da quelli forniti dalle fonti proprietarie a cui si è avuto accesso, sono infatti emerse due cose importanti: che i consumatori ricercano notizie online in percentuale sempre maggiore e che, circa la metà di essi, arriva a queste informazioni per mezzo di intermediari digitali.
Si conferma quindi l’ipotesi iniziale per cui quest’ ultimi hanno il potenziale adatto per influenzare una quota significativa delle notizie e delle opinioni dei consumatori. Intendendo appunto per influenza, la capacità di orientare, attraverso fasi di filtraggio e catalogo, i contenuti sui quali i consumatori faranno click.

Il potere algoritmico: ecco cosa fare per migliorare la situazione esistente

Il 50% di tutte le notizie consumate sono il risultato di una ricerca Google. Poiché è evidente come i nuovi mezzi di comunicazione influenzano la società nella formazione dell’opinione pubblica, sembra giustificato rivelare come, perché e in che misura i suoi algoritmi proprietari potrebbero avere l’effetto di promuovere, bloccare o indirizzare le notizie.
Con l’apporto della ricerca empirica, gli intermediari vengono sempre più associati ad editori digitali, responsabili principali della distribuzione del traffico di notizie online e che, in contrasto con la regolazione dei media tradizionali, determinano anche la priorità ai contenuti presentati e consumati.
La lealtà dei media
, però, è considerata vitale per una democrazia sana sia perché fornisce ai cittadini una varietà di notizie da cui trarre le proprie opinioni, sia perché riduce la possibilità dei media di influenzare l’agenda politica. Per questo è imperativo che i regolatori e i responsabili delle politiche sviluppino un approccio adeguato per comprendere meglio la progettazione dell’algoritmo, ridefinire questo potere e proteggere il pluralismo informativo. Una quantità maggiore di dati empirici forniti dagli intermediari, inoltre, è necessaria per comprendere in modo più approfondito la natura dell’influenza editoriale.
Inoltre, in seguito ad una richiesta della House of Lords Inquiry, il governo britannico ha chiesto al regolatore Ofcom di sviluppare un nuovo quadro di misurazione volto sia a controllare il ruolo degli intermediari nel processo di distribuzione di notizie nel Regno Unito, sia a verificare che la regolamentazione esistente sia idonea ad impedire la concentrazione dei media.
Da ciò è emerso che se, da un lato, le attuali regole normative impediscono alle grandi compagnie di stampa di acquistare emittenti influenti, esse non impediscono transizioni simili tra intermediari digitali e giornali o emittenti. Il sistema di garanzia del pluralismo nei media tradizionali, quindi, non regola gli intermediari digitali. Si evince quindi che, nel Regno Unito, regolamentare il pluralismo con le forme utilizzate per i media tradizionali, non è più lo strumento adeguato. E poiché le autorità nazionali di regolamentazione come Ofcom, non hanno poteri specifici per richiedere agli intermediari di fornire i dati di cui sono gelosamente in possesso per monitorare il loro operato, alcuni accademici richiedono nuove forme di regolamentazione e poteri più forti per le autorità pubbliche indipendenti. Pasquale e Bracha [6] nel 2008 suggeriscono il bisogno di intervenire normativamente per far rivelare agli intermediari il funzionamento e l’etica dell’algoritmo tramite la creazione di un ‘algoritmo trasparente’.
«Che siano o no consapevoli della loro influenza editoriale — concludono i critici — gli intermediari stanno esercitando un nuovo tipo di ‘potere algoritmico’: selezionando e filtrando le notizie. Chiediamo pertanto- concludono- maggiore trasparenza in come lo fanno.»

Il vademecum dell’intermediario

Quindi, se da un lato, i responsabili politici avranno bisogno di approfondire le proprie competenze in termini di funzionamento degli algoritmi e comportamenti degli utenti, dall’altro gli intermediari dovranno cooperare per rilasciare i dati al pubblico, dialogando volontariamente con gruppi di esperti, accademici responsabili delle politiche, autorità di regolamentazione e professionisti del settore. Gli intermediari, ad esempio, potrebbero mettere a disposizione dipendenti in grado di: spiegare le basi della progettazione algoritmica e il loro funzionamento e dichiarare quali siti hanno la priorità al momento della scelta dell’utente. In ultimo potrebbero fornire indicazioni al regolatore su alcune caratteristiche e sul loro impatto nell’interesse pubblico, così che il regolatore possa richiedere dati all’intermediario qualora qualche caratteristica sia ambigua o poco chiara ai fini della comprensione.
«Crediamo sia questa la via promettente anche per eventuali ricerche future», conclude infatti il ricercatore Tambini,autore di riferimento nel portare avanti quest’analisi.

Caterina Panfili

NOTE:

[1] Dal sito ‘Agi.it’ , “Quanti sono davvero gli utenti di internet?” di Riccardo Luna, 7 febbraio 2017 https://www.agi.it/blog-italia/riccardo-luna/quanti_sono_davvero_gli_utenti_di_internet-1462576/news/2017-02-07/

[2] Damian Tambini, “Digital Intermediaries in the UK: implications for news plurality”, 2016, p. 3
Ripreso da Zittrain, J. (2014), “Facebook Could Decide an Election Without Anyone Ever Finding Out”, New Republic, available at http://www.newrepublic.com/article/117878/information-fiduciary-solution-facebook-digital-gerrymandering (accessed 12 December 2014)

[3] Damian Tambini, “Digital Intermediaries in the UK: implications for news plurality”, 2016, p. 4
Ripreso da Bell, E (2014), “We can’t let tech giants, like Facebook and Twitter, control our news values”, Guardian, available at: http://www.theguardian.com/media/media-blog/2014/aug/31/tech-giants-facebook-twitter-algorithm-editorialvalues (accessed 24 March 2015).

[4] Damian Tambini, “Digital Intermediaries in the UK: implications for news plurality”, 2016, p. 4
Ripreso da Tufekci, Z. (2014), “What Happens to #Ferguson Affects Ferguson: Net Neutrality, Algorithmic Filtering and Ferguson”, Medium,available at: https://medium.com/message/ferguson-is-also-a-net-neutrality-issue-6d2f3db51eb0 (accessed January 15 2015).

[5] Damian Tambini, “Digital Intermediaries in the UK: implications for news plurality”, 2016, p. 4

[6] Damian Tambini, “Digital Intermediaries in the UK: implications for news plurality”, 2016, p. 6
Ripreso da Bracha, O. and Pasquale, F., (2007), “Federal Search Commission-Access, Fairness, and Accountability in the Law of Search”, Cornell Law. Review., 93, pp. 1149–1210

MATERIALE DI RIFERIMENTO

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