I bambini delle stelle

Articolo pubblicato anche sul blog della Casa dei Diritti di Milano

Gisella, 34 anni, è sdraiata sul lettino in sala parto. Le è stato indotto farmacologicamente il travaglio ed è pesantemente sedata. Non comprende con piena lucidità quanto sta accadendo. Si rende conto, però, che sta partorendo suo figlio; un figlio morto. Ripercorre velocemente e con fatica le ultime concitate ore… Il bambino “ha avuto un problema”, le hanno detto e, al settimo mese, durante una visita di routine, il suo ginecologo semplicemente le ha detto: “non c’è più battito”. Da qui la corsa in ospedale e ore di attesa solitaria al Pronto Soccorso. Quando chiede spiegazioni, dato che non comprende come mai nelle sue condizioni non venga visitata d’urgenza, le viene risposto che non c’è fretta, “tanto non c’è più niente da fare”. Ma come, quale “problema”, lei già si preparava al parto, qualche sua amica aveva avuto figli prima del termine… e quindi? Procedura d’urgenza, la macchina sanitaria agisce nel suo interesse, fredda, implacabile. Non c’è tempo di aspettare nessuno, il marito è distante, i genitori irreperibili. Le inducono quindi il parto, dicendole di mettersi comoda e magari di leggere un giornale perché tanto ci sarebbe voluto del tempo prima dell’arrivo delle contrazioni. Un ginecologo che la vede piangere le dice di non disperare, che presto tornerà in ospedale per motivi ben più lieti e che dimenticherà tutto.

Torna al presente, e mentre è impegnata nelle spinte sente una voce che chiede: “ci pensate voi alla sepoltura o noi?”. Accanto a lei ora c’è il suo compagno, ma anche lui è confuso sul da farsi, e quando si tratta di decidere se vedere o meno il bambino vengono scoraggiati dal personale: “è meglio così. Ora dovete voltare pagina”. Rimpiangeranno per sempre di avere seguito quel consiglio…

Questo breve racconto non è il resoconto di un qualche caso di malasanità, o di una famiglia particolarmente sfortunata nel rapporto con gli operatori di un ospedale.

Quello appena letto è solo un piccolo assaggio della prassi che ancora oggi può capitare di subire alle famiglie che perdono un figlio prima ancora che nasca.

Parliamo di un evento drammatico, straziante e traumatico, di cui ancora oggi si parla pochissimo in Italia, complice un tabù culturale difficile da superare, con conseguenze però gravi per chi questo lutto si trova, in qualche modo, a doverlo affrontare.

Partiamo però dal principio: cos’è la morte in utero e quanto è ampio questo fenomeno? L’Istat considera morto in utero un bambino nato morto che ha superato 25 settimane più 5 giorni di vita intrauterina. Numericamente, sappiamo che in Italia la morte in utero si assesta su un tasso di circa 3 su mille. Da segnalare che, tra i paesi sviluppati, abbiamo uno dei peggiori trend di riduzione (solo 1,1% tra il 2000 e il 2015, contro ad esempio il 6,8% dell’Olanda — dati del 2015 tratti da The Lancet).

Nasce morto, quindi, un bambino ogni 350 gravidanze, solitamente nell’ultimo trimestre.

Spesso non è possibile stabilire una causa del decesso, nonostante il regolare svolgimento di esami sulla madre e autopsia sul bambino, lasciando le famiglie ulteriormente confuse, senza una spiegazione concreta di quanto accaduto. Gli operatori (ostetriche, ginecologi, infermieri) raramente sono adeguatamente formati per supportare la donna e la famiglia durante questo difficile passaggio, e questo ha purtroppo ricadute gravi nel rapporto con i pazienti. La comunicazione della morte del bambino, così come le prassi che ne conseguono, possono avvenire in modo altamente traumatico, rendendo ancora più complicata l’elaborazione di una perdita già così difficile. Sono ancora poche, infatti, le realtà ospedaliere del nostro territorio che ricevono un’adeguata formazione sul lutto e sulle linee guida assistenziali, e la rete che assiste e supporta i genitori non è ancora ben organizzata.

Si tratta di una grave lacuna a livello sanitario, in quanto è nota ormai da decenni l’associazione tra l’esposizione a eventi gravemente traumatici e l’esordio di patologie psichiatriche. E la morte di un figlio durante la gravidanza o subito dopo la nascita è, ovviamente, un evento che ha un impatto gravissimo sulla psiche di un individuo, per il quale le famiglie andrebbero adeguatamente supportate sia al momento dell’evento, sia nei mesi successivi ad esso.

Il lavoro del personale, tra l’altro, se svolto con competenza e non affidato alla “sensibilità” dei singoli operatori, è determinante e prezioso nell’aiutare la donna e la sua famiglia a intraprendere un buon percorso di elaborazione del lutto.

Non va poi dimenticato che anche per gli operatori ospedalieri gestire un caso di morte in utero senza un’adeguata preparazione è fonte di stress e burn out, tanto che le loro parole brusche, violente o anche solo noncuranti, sono spesso il frutto del desiderio di allontanare da sé qualcosa di indicibile e intollerabile: come si fa a morire prima di nascere?

È preferibile, allora, spingere la famiglia ad andare avanti, magari suggerendo di cercare altri figli: parole che vengono vissute con violenza dalle donne che le ascoltano, ma che per chi le pronuncia hanno il significato di fuggire da un momento in qualche modo inaffrontabile, anziché cercare una condivisione e una vicinanza che sarebbero invece molto preziose.

E cosa dire del possibile incontro con il bambino? Capita che le famiglie non vengano incoraggiate a vivere questo cruciale momento il quale, per quanto estremamente doloroso, permette invece alle madri di dare un volto al bambino che è stato a lungo sognato, e ne facilita l’elaborazione del lutto.

Le donne, poi, sono spesso pesantemente sedate, non sempre però in modo giustificato: si tratta di un elemento non da poco, che le priva della possibilità di accedere in modo lucido al ricordo dell’evento, complicando ulteriormente il trattamento della perdita subita.

Perché in Italia si parla così poco di tutto questo? A volte uno sguardo alla normativa vigente può essere utile per comprendere quale sia il livello di consapevolezza di un paese rispetto ad alcuni temi. Secondo la legge italiana sono considerati “nati morti” solo i bambini dopo la 28° settimana di gestazione, motivo per cui solo per loro si rende necessaria la registrazione presso l’anagrafe.

Non è così ovunque. Rimanendo in Europa, sappiamo che in Germania, dal 2013, è possibile dare legalmente un nome anche ai bambini nati morti (“Sternenkinder”, i bambini delle stelle) con un peso inferiore ai 500 grammi [1].

In Francia è invece possibile iscrivere all’anagrafe i bambini nati morti indipendentemente dalla durata della gestazione e dal loro peso. Con l’idea, certamente, che non sono certo queste due variabili che rendono un figlio più o meno “reale”: il legame con lui inizia infatti molto prima della nascita, e non è di certo l’età del bambino che può in qualche modo stabilire o “misurare” l’entità della perdita subita dai genitori.

Le norme per la sepoltura, che in Italia certamente esistono, spesso non vengono correttamente esplicitate alle famiglie, e così capita che i bambini vengano trattati alla stregua di rifiuti ospedalieri, e “smaltiti” di conseguenza.

Si tratta anche questa di una grave mancanza, che non fa altro che complicare e aggravare il lutto delle famiglie. La sepoltura, infatti, è un atto psichicamente fondamentale, anzi necessario, per rendere rappresentabile qualche cosa che non lo è, ossia la morte. È quindi un passaggio cruciale per accedere all’elaborazione del lutto, del suo trattamento in maniera simbolica.

La morte in utero è quindi un tema che in Italia è ancora troppo poco approfondito e trattato. Questo accade nonostante esistano numerose linee guida internazionali per il trattamento della morte in utero o perinatale, e nonostante alcuni autori, nel nostro paese, se ne occupino da anni con serietà e passione (si vedano, ad esempio, i numerosi contributi di Claudia Ravaldi [2], oppure di Nadia Muscialini [3]). Così come esistono certamente realtà in cui, nel tempo, si è costruita una grande sensibilità.

È un tema, però, che non possiamo accettare che venga taciuto e non trattato sempre con la dovuta attenzione all’interno del nostro Sistema Sanitario. La formazione del personale ospedaliero sul tema della morte e delle best practice da attuare per gestire insieme alle famiglie questo passaggio non può e non deve essere considerato un elemento “accessorio”, un insegnamento facoltativo da attivare solo in alcune realtà.

Dovrebbe trattarsi invece di una formazione di base per infermieri, ginecologi e ostetriche, attraverso la quale possa esprimersi un approccio più consapevole e una reale modifica di prassi estremamente nocive per la salute mentale della donna, di tutta la sua famiglia, e degli operatori che lavorano in questo ambito.

[1] L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce come “nato morto” un feto deceduto in utero e partorito ad età gestazionale pari o superiore a 22 settimane (21 settimane + 7 giorni) o, se non è definibile con sicurezza l’età gestazionale, con un peso pari o superiore ai 500 grammi.

[2] Ravaldi, C., Vannacci A., (2014). La morte perinatale. Aspetti psicologici del lutto e strumenti di intervento. Rivista sperimentale di Freniatria (67–76).

[3] Muscialini, N. (2010). Maternità Difficili. Psicopatologia e gravidanza: dalla teoria alla pratica clinica. Franco Angeli

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Chiara Marabelli
Articoli tratti dal mio blog www.psicologamarabelli.com

Psicologa e psicoterapeuta, lavoro con passione insieme ad adolescenti e adulti