L’interazione che la parola comporta — nel nome del mood

Artlandis
Artlandis’ Magazine
6 min readJun 4, 2017

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(un frame di Matrix:Reloaded — a buon intenditor ;)

Premessa: Oggi terrò uno speech sul “mood”, ospite di un bell’evento dedicato al “Brand Design” organizzato da I Pirati Grafici (maggiori informazioni qui).

Preparando il mio intervento mi sono ritrovato a considerare l‘opportunità di spiegare l’essenza dei concetti che affiancheranno il mio intervento; una riflessione necessaria che ho deciso di approfondire in questo articolo per sottolineare le criticità dell’interpretazione di termini chiave onnipresenti in rete e sui social.
Una caotica biblioteca dove l’apparenza e la superficialità ingannano e generano limiti pericolosi che diventano coriacee barriere velenose travestite da “sapere”, un ostacolo concreto per le nuove generazioni come per quelle più stagionate.

1 — L’origine della necessità

Capita di frequente, durante una lezione o un seminario, di dover identificare un concept o un approccio strategico con un singolo termine utile a “farsi capire” dai nostri interlocutori.
Snocciolare velocemente codici suggestivi (quali “Mood”, “Storytelling”, “Advertising”, “Transmedia”, “Ascolto” o quello stesso “Concept” usato nel primo capoverso) è una pratica divertente, comoda e sembra essere capace di costruire un regno intero, frutto della potenza espressiva del linguaggio e nato della percezione del relatore.
Così è.
Inevitabilmente accade che si dia per scontato il senso di quella parola, su entrambi i fronti, ovvero chi parla e chi ascolta accetterà (di conseguenza accoglierà spontaneamente) le implicazioni suggerite intrattenendosi sulla superficie di un oceano denso di promesse, proposte e ricchezze.

Quanto io parlo, uso volentieri sequenze di termini chiave, trascinato dal piacere di assecondarmi, giustificando il loro uso ricordando quanto sia necessaria la rapidità di esecuzione in termini di una frase espressa a voce o inserita in un post sui social.
Nel frattempo, però, con un leggero disagio mi chiedo: quale sarà il senso percepito di quella parola?

Io sono un formatore.
Mi chiedo: se il formatore deve “dare la forma” può bastare una veloce esecuzione in versi per suggerire l’esistenza di mondi interi?
E’ lecito usare una singola parola oppure un termine chiave allo scopo di raccogliere tutta l’essenza che popola quel mondo?
Sono convinto di no. Non credo sia possibile.
Rinunciare all’alternativa possibile è un serio rischio per la crescita di tutti.
Troppe variabili da considerare, troppe dinamiche coinvolte.

2 — La parola in versione “assoluta”, una fredda e ingombrante prigione.

In primis: la parola, di per sé, è frutto del linguaggio e anche la sua semplice traduzione comporta una serie innumerevole di considerazioni possibili.
La sua radice, l’evoluzione, la percezione nel tempo, gli echi personali, umani e sociali; persino la pronuncia e il contesto specifico nel quale la si usa.

L’oratore, il predicatore o il comiziante entrano anch’essi nel calderone delle variabili con la loro storia, la motivazione e l’interpretazione che si trovano alla base dell’argomentazione.
Una miscela di fattori da valutare necessariamente, ancor prima che la parola sia ascoltata da chicchessia, per non correre il rischio di assolutizzare un astratto di ciò che, al contrario, è sinceramente relativo.

Dal dubbio legittimo spostiamoci all’osservazione ed all’ascolto (in senso prettamente fisico) degli utenti e della rete alla quale mi rapporto.

Semplificando, esistono due categorie:
Coloro i quali assolutizzano la parola chiave e nel definirla la “costringono” di proposito nella declinazione che hanno scelto o assorbito da terzi.
Altri invece la associano deliberatamente a ciò che hanno inteso o che più conviene loro nel contesto in cui si ritrovano ad esprimersi.
Questioni di opportunità. Di opportunismo, anche.

In entrambi i casi il risultato si riassume in un caotico modo di intendere che, sostenuto dalla “superficialità dell’essere” (tipica dell’era dei social), contribuisce a perpetrare un falsa universalità e, quindi, l’ignoranza (la non-consapevolezza) in un’eco perpetua nemica della crescita.
Si tratta di considerarla una vera e propria “prigione” in grado di limitarci e di limitare notevolmente la Creatività e la capacità di Comunicare.

Per queste premesse, che fermamente sostengo, ho voluto fissare nero su bianco gli spunti del mio ragionamento, a beneficio di un futuro confronto che spero nasca già durante l’evento di oggi pomeriggio o si sviluppi in rete.

3 — Il demiurgo personale per spezzare le catene auto-inflitte

Vista la natura del contenitore che ospiterà il mio speech oggi e vista la premessa in testa all’articolo prenderò in esame proprio il termine chiave “Mood”.
Il mio scopo è fissare una direzione interpretativa che esalti qualcosa di meravigliosamente umano: la volontà di esprimersi.
Che sia senza vincoli auto-imposti, presenti fin dall’origine della progettazione creativa.

Ecco con un passaggio di Matrix:Revolution (al minuto 1:30):

Amore è solo una parola. Quel che conta è l’interazione che la parola comporta.

Come per il “programma” che intesse lo scambio con Neo, Mood è solo una parola.
Quello che conta è l’interazione che la parola comporta.
Mood è un prestito dalla lingua inglese, si traduce facilmente con “umore” ed insieme con una sua derivazione (la “moodboard”) fa spesso capolino nel mondo dei grafici, di illustratori, progettisti, designer, concept artist ecc..
All’interno dei Social il termine è stato ormai assorbito e spopola associato all’emozione umorale di chi scrive.
Niente di male, fino a che quell’associazione verticale non si trasforma in un abitudinario appiattimento che avvilisce il designer ed il creativo per vincolarlo ad un semplicismo che si radicalizza non solo nel suo approccio ma anche nella sua capacità di tradurre in “racconto emozionale” le sue idee o il suo intendere.

Il Mood (o la moodboard) non è solo un insieme di immagini di riferimento, di colori e/o di casi studio presi in esame.

Mood è un concetto e, in quanto tale, è il generatore di una serie di interazioni tra chi offre e chi riceve (il progettista e il committente, ad esempio).

Mood è una scatola sempre aperta che deve contenere una storia orizzontale (rif. mktg) che sia un viaggio emozionale sia per chi ne disegna i capitoli sia per chi vivrà l’esperienza del viaggio assorbendone la trama.

Ovvero: “mood” non si può tradurre in un esercizio di raccolta di esempi, riferimenti e progetti analoghi al nostro.
Di certo non si può tradurre in una scala cromatica, in un album di foto o in cinque o più righe di testo introduttive.

Quando il designer è in fase progettuale può cercare l’ispirazione e trovarla pressoché ovunque: brani musicali, stili, linguaggi e culture diverse, cinema e videogiochi, quadri e opere d’arte, scatti fotografici, video, poesie, citazioni, aforismi, moda, cultura pop e così via.
Un orientamento che si da per scontato, ma che tale non è.

Da una premessa, due domande (retoriche, eventualmente):
1 — Se il compito del designer è dotarsi del potere della suggestione per comunicare, perché rinunciarvi in fase di progettazione e abbandonarsi ad una solita, scialba raccolta di contributi visivi?
2 — Se il designer è in grado di suggestionare sé stesso e lasciarsi ispirare da ogni musa possibile, perché non usa lo stesso approccio in fase di presentazione di un progetto (a seguito di elevator pitch) diretto al Cliente, al portfolio, agli stessi social di cui si dota?

La risposta non può essere la “questione di tempo” : è, invece, un problema di forma mentis.

Forma mentis a sua volta plagiata dal considerare un termine chiave o una parola come piatta serie di attività in sequenza o come la ordinaria rappresentazione di un solo, singolo intento.

Se “mood” si traduce con “umore” (di riflesso: “emozione”), allora il nostro compito è di espandere al massimo lo spazio tra le singole lettere che la compongono e permeare quello spazio con un significato, per gioire di ogni singolo centimetro infinito di cui disponiamo.

Il mondo ha la forma che desideriamo, del resto.
Ogni designer dovrebbe saperlo. A volte lo dimentica.

Per necessità. Oppure per altre buone ragioni o presunte tali.
Fino a che la nostra “magia”, ovvero la nostra capacità di affidarci al mood personale, non cede il passo all’accettazione.
Accade così che un termine chiave di 4 lettere, trampolino di lancio verso un cielo azzurro e luminoso, assume l’aspetto di una tetra prigione di rimpianti e potenzialità ;)

4 — Conclusioni

Il lascito di quanto di questo post è l’urgenza di ricalibrare la nostra percezione verso ogni termine specifico che forse siamo soliti utilizzare con leggerezza.
Il beneficio del cambio è diretto in favore della forma mentis citata con conseguenze esclusivamente positive.
Storytelling, Transmedia e altri termini chiave, si trasformeranno istantaneamente in una miniera di tesori da scoprire che arricchiranno la nostra capacità di tradurne il senso preferito: prima, durante e dopo ogni progetto che affrontiamo.

5 — Nota a margine

In questo lungo articolo è evidente la direzione intrapresa: il prossimo passo sarà quello di affrontare il tema del “linguaggio”.
Me ne occuperò nei prossimi giorni, in un secondo articolo.

Nel frattempo mi piacerebbe avere un tuo feedback, approfondire il tema della percezione in relazione ai termini chiave che siamo soliti usare.
Capire quali vincoli e limiti sembrano esistere e percepiamo.
Magari per alleggerire un sacco pieno di mattoni che portiamo sulle nostre spalle, senza un motivo plausibile.

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