Una cosa che mi è successa.

Violetta Bellocchio
Athena Talks
Published in
7 min readApr 18, 2017

L’estate scorsa ho scritto il mio primo articolo per Internazionale. Ero molto felice. L’articolo era una storia personale, e raccontava, in breve, una cosa che mi era successa: un incidente di percorso con la polizia ferroviaria in una delle stazioni di Milano.

Il pezzo ha fatto 500.000 visualizzazioni in meno di tre giorni.

Questa è la storia della settimana in cui, per una settimana di fila, mi hanno rovesciato addosso delle grandi secchiate di sangue. Forse la conoscete già, l’avete vista succedere da fuori, ma non avete sentito la mia versione. Sono stata molto attenta a non dire niente fino a qui.

Andiamo.

Prologo. Le conseguenze materiali.

Nella mia vita di tutti i giorni non è cambiato assolutamente niente. Non ho perso o guadagnato collaborazioni — dopo qualche mese ho ripreso a scrivere per Internazionale, ma a parte quello, no loss, no gain. Non mi sono mai trovata il matto davanti a casa (importantissimo questo) e non ho avuto problemi durante nessuna delle faccende pubbliche a cui ho preso parte (festival, presentazioni, varie). Le vendite dei miei libri precedenti non si sono impennate e non sono crollate. L’editore che mi aveva appena messo sotto contratto per il libro nuovo non ha ridiscusso i termini del nostro accordo. Ero libera di camminare per strada, andavo a dormire all’ora che preferivo, mangiavo, facevo la spesa e ricevevo telefonate disponendo pienamente del mio tempo.

Per un po’ di tempo, però, non ero libera di scrivere quello che volevo.

Il primo vero problema sono stati i numeri. Io non avevo scritto un articolo da mezzo milione di visualizzazioni: ne doveva fare 10/15.000, al massimo, considerando la grande vetrina offerta da una testata prestigiosa e riconoscibile; se la stessa storia fosse apparsa su Abbiamo le prove, la rivista di nonfiction che ho fondato e curato per due anni, avrebbe fatto 5.000 visite. Era un racconto volutamente piccolo e personale, non un’inchiesta. Era stato taggato come “reportage”, cosa che mi è stata rinfacciata a più riprese — come se un autore decidesse tag e illustrazioni dei propri pezzi. Ma il dibattito sull’etica del giornalismo dev’essere durato trenta secondi. Poi è scattato il gavettone di sangue.

Il mio unico vantaggio, in tutto quanto segue, è stato che avevo 38 anni quando ho scritto quell’articolo, ora ne ho 39, quindi potete essere certi che sto su Internet da più tempo di molti di voi, e so in alcune situazioni la cosa giusta da fare è allontanarsi dallo schermo. Di tutto quello che mi è stato buttato addosso, quindi, io so il giusto: non mi ci sono lasciata tirare dentro, nel bene e nel male. Però so com’è andata.

I tre cicli del danno.

Il primo giro è partito pochi minuti dopo la messa online del pezzo. Hanno cacciato fuori la testa alcuni hater di vecchia data, e un consistente numero di commentatori che, come ho avuto modo di scoprire nelle settimane successive, si fanno vivi ogni volta che qualcuno scrive cose non positivissime sulle forze dell’ordine. Questo è stato il giro in cui, per un arco di tempo tra le 24 e le 48 ore, ricevevo i messaggi d’insulti delle guardie giurate di (…), in cui mi si diceva che erano persone come me a rovinare l’Italia, mi prendevo della femmina isterica e mi si suggeriva di ricominciare a bere. Penso che in questo gruppone ci fosse un buon numero di hater di Internazionale, quelli che mettono il “mi piace” alla pagina per poter insultare il giornale in fretta. Non lo sapevo, adesso lo so.

Il secondo giro, molto più rilevante, ha avuto al centro un gruppo di persone, quasi tutti maschi, addetti ai lavori o aspiranti tali, che gravitano intorno alle piccole riviste culturali e alle case editrici indipendenti. È successo un po’ di tutto, ma io ho capito quanto, di preciso, si stava mettendo male dalla valanga di mail e messaggi privati che contenevano le parole “solidarietà” e “mi dispiace”. Quasi tutti venivano da femmine. Tutto mi veniva detto in privato. Venivo avvisata più volte di non dare corda alle provocazioni di uno che mi stava addosso con accanimento particolare, un redattore di Rivista Studio: non lo conosco, ma per la rivista ho scritto per più di due anni, tutti i lunedì, occupandomi molto spesso di gender. (L’ironia.)

Non è questo il momento adatto a raccontare la ragione per cui ho interrotto io quella collaborazione, ma sta di fatto che dopo aver smesso di scrivere per Rivista Studio non ho mai scritto niente di negativo sulla rivista o sulle persone che la fanno, pensando, erroneamente, che il silenzio fosse la scelta migliore.

Altro uomo bello accanito è stato il social media manager di una casa editrice molto chic, che dal suo profilo riprendeva la cosa anche settimane e addirittura mesi più tardi. Cosa ne guadagnasse, lo ignoro, se non fare il figo con gli amici a scapito mio. (Ma è possibile, per tanto poco?)

Nel frattempo, una giovane scrittrice di cui ero appena stata editor per un’antologia prendeva le distanze dal mio articolo parlando di me in terza persona su Facebook. Ai miei tempi le madri si ammazzavano in guanti bianchi.

Il terzo giro è partito dalla bacheca di un fumettista romano che ricordavo di aver incontrato una volta parecchi anni fa a Lucca Comics, e mi risultava essere diventato nel frattempo molto produttivo e molto popolare. Come mai un fumettista famoso volesse fare caciara a proposito di un articolo mio apparso su Internazionale, non lo so, però è stato quello il momento in cui ho cominciato a essere chiamata puttana e cagna in calore, ed è stato detto che il mio più grande desiderio era venire stuprata dalla polizia.

Tempo dopo mi sono ricordata che c’era stato un periodo in cui io e il fumettista eravamo stati in contatto — forse tramite social? Ah, no. Ci eravamo scritti delle mail. L’avevo intervistato per un articolo sul bullismo, in cui raccoglievo un po’ di testimonianze di persone che, come lui, il bullismo l’avevano subito da bambini o da ragazzini. In altre mail mi faceva i complimenti per gli articoli su Rivista Studio.

Comincio a pensare che una parte della mia vita professionale sia stata costruita su un antico terreno di sepoltura indiano.

Conclusioni.

Un mese dopo raccontavo questa storia a un ragazzo che era mio allievo durante una summer school, e lui sentenziava, secco: “è invidia”. Ma magari, aggiungevo io. Vorrei che fosse così semplice. Perché, vedete, ci provo, ma non posso credere che sia stata una cosa semplice come l’invidia a scatenarmi addosso un tale casino. (E poi: invidia per numero uno — 1 — articolo apparso su una testata, per quanto la testata sia… seguita? Ben fatta? È possibile essere invidiosi per un traguardo minore?)

Non ho dubbi che un bel po’ di gente ci sia finita in mezzo per il gusto del flame, come non ho dubbi che a un certo punto quanto mi è successo è stato un attacco di genere. Ho avuto a che fare con tre gruppi di maschi, quelli che mi davano della troia, quelli che mi auguravano uno stupro e quelli che si fregavano le mani pensando che nessuno mi avrebbe fatto scrivere mai più, perché tanto io non sono una vera scrittrice. In tutti e tre i casi, il desiderio non era contestarmi come autrice dell’articolo o come persona: il desiderio era cancellarmi.

Personalmente ho trovato più disturbanti gli attacchi dei colleghi (si può dire colleghi? colleghi), che volevano farmi sparire dalla circolazione perché era inconcepibile che Internazionale pubblicasse un mio pezzo. Non ho mai davvero fatto parte del Mondo delle Piccole Riviste, ma per molte di loro ho scritto, nel corso degli anni, e per altre scrivo ancora: non sono stata scoperta nel Mondo delle Piccole Case Editrici, ma ho scritto racconti per alcune di loro, e alcuni dei loro libri li leggo e li consiglio, se mi piacciono. Non sono una compagna di cordata, quindi, per una certa categoria di persone, da nessun punto di vista: ma non uso il tempo che passo sui social per insultare il lavoro di qualcun altro, e soprattutto mai lo farei se nel frattempo mi presentassi come una mediatrice raffinata e di classe, in grado di presentare contenuti di prima scelta a un selezionatissimo pubblico di persone migliori.

Adesso sono a poche settimane dalla pubblicazione del libro che stavo scrivendo l’estate scorsa. Grazie a Dio avevo firmato regolare contratto, e per le regole immutabili che scandiscono il mio monologo interiore — hai firmato? hai preso i soldi? allora lavora. Bellocchio: lavorare — sono stata in grado di terminare il romanzo.

Mi chiedo cosa devo aspettarmi, a questo punto. Mi chiedo chi lo recensirà, e che trattamento mi verrà riservato. Mi chiedo chi lo leggerà. Chi sarà curioso di sapere cosa faccio, al netto di una situazione grottesca in cui mi sono ritrovata senza averne il minimo desiderio.

… e comunque c’è il lieto fine, perché a novembre stavo tornando in aereo da Londra dove Rolling Stone mi aveva mandato a intervistare Oliver Sim sbattendosene altamente dei problemi che mi aveva dato un articolo online, e stavo raccontando questa storia al mio vicino di posto che mi aveva detto “ma le donne su Internet vengono trattate diversamente?”, e la ragazza che stava seduta davanti a noi si è voltata e ha detto, “scusate, non voglio interrompervi, però complimenti”. Questa è per te, ragazza che mi hai riconosciuto in aereo. Ciao.

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