Buon compleanno Avv. Fulvio Croce
6 Giugno 1901– 6 Giugno 2019
Il diritto di avere fiducia
Recensione del libro di Mario Calabresi, Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa, Storie di ragazzi che non hanno avuto paura di diventare grandi, Mondadori, Milano 2014. In ricordo dell’ Avv. Fulvio Croce a quasi centoventi anni dalla sua nascita.
Questa recensione, pubblicata per la prima volta sul sito della Scuola Superiore dell’Avvocatura nel 2015, dopo svariate modifiche, è tornata a vedere la luce in questi giorni di giugno 2019 quando, scartabellando tra le carte di una storia dell’avvocatura indimenticata, ci è tornato alla mente l’anniversario della nascita dell’ Avvocato Fulvio Croce, nato il 6 giugno del 1901, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino al momento del suo assassinio, avvenuto per mano delle Brigate Rosse. Questa recensione, originariamente nata come tributo alla memoria di Giulio Regeni e del suo sacrificio diventa oggi l’occasione per ricordare in modo un po’ insolito l’anniversario della nascita di un grande Avvocato che si è immolato per la salvaguardia del diritto di difesa e dei principi dello Stato di diritto. L’inno alla fiducia per un futuro che veda il risveglio del senso civico, della voglia di fare e farsi e del sacrificio per qualcosa di più grande fanno del libro di Mario Calabresi un testo sempre attuale, specialmente in un momento storico in cui l’unica cifra dilagante sembra essere proprio quella della sfiducia senza se e senza ma.
“Togliersi il cappello, dire “grazie per averci provato figlio, o fratello”, che la terra ti sia lieve””.[1]
L’inno al diritto ad avere fiducia fa del nuovo meraviglioso libro di Mario Calabresi una guida per chiunque, lungo la salita degli anni della “crisi” a tutto tondo, sia affamato di prospettiva e spirito di ricostruzione. Attraverso la raccolta di testimonianze di giovani che (nonostante tutto) sono riusciti nell’impresa di diventare grandi, l’autore con la purezza del pensiero, l’eleganza dello stile e l’originalità del taglio che già notoriamente gli appartengono apre la via ad un sentiero di rinfrancante speranza, spalancando una breccia in questa nebbia di incertezza e disillusione che da qualche anno a questa parte permea l’aria che respiriamo.
Fin troppo si è detto riguardo alla spasmodica ricerca della stabilità da parte di una generazione che, se da una parte subisce l’incertezza di una condizione (sperabilmente transitoria) di assoluto smarrimento — sociale culturale ed istituzionale — dall’altra difficilmente riuscirebbe a rinnegare il suo modus vivendi: correre all’impazzata e trovare sempre meno tempo per un po’ di silenzio e per un’occasione di respiro stabile. La mia generazione, pur avendo il respiro corto, non è tuttavia programmata per correre più piano: ciononostante, la stanchezza della corsa a passo “incerto” ci rende fragili, esposti, talvolta incapaci di reagire. Soccombiamo irrimediabilmente nel confronto con quella generazione di ferro dei nonni degli anni ’20, che con il niente che avevano hanno potuto tutto: impallidiamo di fronte alla generazione dei nostri genitori che, in linea generale, ci ha potuto offrire quel salto che noi rischiamo di non poterci più permettere oppure, banalmente, la prospettiva di cui, oggi, ci sentiamo derubati. Nella migliore delle ipotesi siamo “seduti” e “choosy”, nella peggiore siamo figli del benessere privi di una scala di valori degna di questo nome e rivendicata come tale. Questo è il quadro che non di rado chi ci ha preceduto ed ancora decide sulle nostre sorti è solito dipingere: come ogni rappresentazione generalista, anche questa porta con sé una percentuale di innegabile verità ed il fatto di vivere da giovani adulti in un momento storico in cui la società, la politica e finanche il mondo del diritto appaiono aver smarrito un po’ la retta via non può affatto giocare come alibi. Non può, invero, consentirci di dimenticare che per ogni tassello di certezza e prospettiva che sentiamo venire meno, vi sono altrettanti nuovi ed inesplorati strumenti che le generazioni precedenti non avrebbero saputo maneggiare e far fruttare al meglio. Questo libro, un po’ saggio, un po’ reportage ed un po’ romanzo, esalta, anche solo per aver scelto di raccontarla, l’esperienza di chi, in momenti storici differenti e assolutamente disomogenei, ha saputo trovare quegli strumenti, prima ancora che il mondo si accorgesse di averli. Nella difficile impresa di recensire al meglio questa opera senza svilirne la natura e l’originalità con apprezzamenti che rischierebbero, da una parte, di risultare scontati e dall’altra, invece, di non dare sufficiente contezza del senso, mi è parso utile dipingere (idealmente) l’anima di questo testo individuando i quattro volti del diritto ad avere fiducia, attraverso la selezione di quattro espressioni — chiave estrapolate estremamente significative.
Ai miei genitori, che mi hanno insegnato ad avere fiducia.[2]
La cultura della fiducia.
Con questa dedica si aprono le danze. Al di là della vibrazione che una frase del genere riportata in epigrafe può trasmettere, credo con tutta onestà (e sperando di non aver preso un abbaglio) che sia questo il leitmotiv dell’intera opera di Mario Calabresi. Tutto il libro è un inno alla cultura del diritto ad avere speranza e fiducia ed all’importanza di diffonderne il senso attraverso un’educazione comunitaria improntata sul suo autentico significato. L’intera struttura del testo, per come esso stesso è congegnato, si occupa di assolvere un compito che, probabilmente, l’autore ha riconosciuto, in prima battuta, in capo ai suoi genitori ma che, a ben vedere, rientra tra i doveri minimi della società di appartenenza verso l’individuo: insegnare ad avere fiducia e a non disperare di fronte allo scorrere del tempo, talvolta impietoso e incontrastabile. In questo senso, questo libro è un invito alla comunità sociale a farsi carico di questo insegnamento e a garantirne l’assimilazione da parte delle generazioni future.
La mia generazione è attratta dal mondo per un solo motivo: lo spazio.[3]
La fame di spazio.
«Significa opportunità, significa libertà, significa energia». Così prosegue e termina la citazione che si è scelto di parzialmente riportare qui: si tratta di una delle risposte che Bianca Mazzinghi, giornalista di 29 anni, espatriata, fornisce all’allora direttore de La Stampa. Si tratta di una delle numerose testimonianze raccolte nel libro e legata, come altre, al tema ricorrente dell’espatrio e del bisogno di partire: se la necessità è, con ogni probabilità, la prima ragione della fuga dei giovani da questo paese, la fame di spazio è, altrettanto probabilmente, la seconda (se non, a seconda dei casi, la prima a pari merito). Senza voler nobilitare una situazione (quella dell’espatrio forzato) che è certamente un segnale prima di tutto allarmante, non può sfuggire, allo stesso tempo, quanto il mutamento del concetto di distanza, il cosmopolitismo e la possibilità di guardare lontano siano l’altra faccia della medaglia: uno strumento potente nelle nostre mani, della cui gestione abbiamo la responsabilità, ma allo stesso tempo, il merito. Il testo coglie con molta onestà questa doppia anima dell’espatrio, dando voce ad un mondo che cambia e raccontandone, sì, le criticità, ma anche le grandi opportunità. Quello della ricerca di uno spazio per sé è il sottofondo costante che accompagna non soltanto le testimonianze raccolte tra le file della mia generazione, ma anche il racconto della vita di Gianluigi Rho e Mirella Capra, due giovani medici degli anni ’70 fuggiti in Africa per rincorrere quell’ “energia da sconfinamento” che ispira e permea di sé tutto il tessuto narrativo. Ecco il cuore pulsante dell’opera: il sogno, la fame di spazio, la ricerca incessante dell’energia positiva che deriva dal nuovo, dall’inesplorato, dalla rottura con le certezze quotidiane e gli schemi mentali convenzionali. Mario Calabresi passa in rassegna questi temi ricostruendoli nel sogno di Gigi e Mirella, ascoltando la voce di Bianca Mazzenghi, azzardando un paragone calzante tra il cuneese e la Silicon Valley, facendosi largo a Londra nel valzer di vite di Brick Lane, accarezzando con rispetto le ferite dell’Africa, ma dischiudendo una fessura anche sulle sue prospettive e ripercorrendo i sentieri dei vaccinatori in bicicletta e i sogni dei giovani dei dintorni di Kampala.
Ricordatevi sempre come vi chiamate. Ripetete ogni giorno il vostro nome e il vostro cognome.[4]
La libertà delle proprie origini.
Il cammino di chiunque rincorra l’autodeterminazione e la consapevolezza del sé passa attraverso lo step primario della piena conoscenza e profonda accettazione delle proprie radici. Concetto quantomeno vintage se solo si pensa alla varietà di occasioni che abbiamo di scappare via da quello che ci lega a ciò che era ed eravamo. L’autore riporta questa citazione nel contesto del racconto di Andra e Tatiana, due ex bambine di Auschwitz, sopravvissute ad un percorso che ha fatto della totale spersonalizzazione e della rinnegazione del sé una delle armi di perpetrazione dei crimini contro l’umanità consumatisi durante la seconda guerra mondiale. Nel racconto di vita di Andra e Tatiana il diritto ad avere fiducia si declina attraverso la scelta del modo migliore e più efficace che consenta di rimanere attaccati a due mani alle proprie radici: non essere costretti a dimenticare il nostro punto di partenza rende liberi e indipendenti nella scelta della propria destinazione di arrivo, garantendo così autonomia nella mappatura del percorso che si desideri intraprendere. La libertà così tutelata dalla consapevolezza delle proprie origini si coniuga facilmente anche con l’indipendenza dalle lusinghe del compromesso, tema ricorrente nel testo e sviluppato magistralmente attraverso il racconto di Silvio Novembre e, per suo tramite, di Giorgio Ambrosoli. Il radicamento dei valori che costituiscono il bagaglio irrinunciabile di servitori dello Stato e della cosa pubblica del calibro di Silvio Novembre e Giorgio Ambrosoli rappresenta un altro sobrio e composto volto del diritto a restare fedeli ed attaccati con le unghie e con i denti alla fiamma perpetua della speranza, rivendicando il diritto ad avere la chance di credere che esista un ordine fisiologico e virtuoso delle cose da preservare e a cui rifarsi, qualunque cosa succeda.
Leggete bene i contro, adesso ne siete consapevoli. Vi auguro buon viaggio.[5]
La consapevolezza del viaggio.
La frase sopra riportata è estrapolata dal penultimo capitolo del libro, intitolato «Nessun rimpianto». Non vi è, in questa sede, bisogno e ragione di svelare le circostanze cui si riconduce questa citazione, ma basterà dire che è la consapevolezza del viaggio che si va ad intraprendere a chiudere il cerchio delle componenti del diritto ad avere fiducia: la lista dei pro e dei contro appoggiata sopra un bagaglio in procinto di chiudersi accompagna diligentemente il viandante affamato di spazio in partenza, ricordandogli di prendere piena conoscenza del significato di una scelta, delle sue possibili conseguenze, delle inevitabili rinunce. Assieme a quello del viaggio e dello spazio, il tema della responsabilità della scelta ricorre altrettanto di frequente lungo lo scorrere del testo: è opportuno rivendicare il diritto ad avere fiducia in un mondo che, in qualche modo, deve ad ognuno una prospettiva soltanto se e quando si abbia altresì il coraggio di conoscere e sopportare il peso e le responsabilità della scelta.
Quest’ultimo tassello del percorso tracciato da Mario Calabresi, di cui si è qui cercato indegnamente di ipotizzare una ricostruzione, appone un sigillo sul messaggio di speranza su cui si innesta e attorno al quale si sviluppa l’intera opera.
Certamente la scelta dei luoghi, geografici e dell’anima, che Mario Calabresi privilegia per la stesura di questo libro piovuto sulla mia strada un giorno per caso, ha trovato terreno fertile, risultando azzeccata nella dimensione di un momento di grande confusione, sfiducia e smarrimento che — sento di poter dire — caratterizza anche la generazione dei giovani giuristi e professionisti del diritto, per mille, differenti ragioni, siano esse imputabili o meno a questa stessa. Durante la lettura, percorrendo i luoghi scelti e le testimonianze riportate, si riscopre quella forte sensazione di curiosità che prende alla metà di un romanzo appassionante, che scandisce lo studio di un argomento di tesi o di approfondimento che si è scelto e fatto proprio. Mi sono chiesta che cosa proverà la mia generazione quando occuperà il posto nella sala dei bottoni di questa società che andremo a ereditare e mi sono, tuttavia, emozionata pensando a ciò che resterà, tra cinquanta anni, alle generazioni che ci seguiranno e degli strumenti che per primi abbiamo saputo utilizzare. Del bagaglio che avremo riempito nonostante (o in barba a) questa cappa asfissiante di sfiducia e di quello che avremo avuto la responsabilità e il dovere di costruire da zero.
Questo libro lascia dietro la sua ultima pagina la curiosità di vedere… come va a finire. E la bella sensazione che di solito accompagna chi sempre confida nell’happy ending. Ed è l’inascoltata fame dell’happy ending, in questo momento storico, a gridare più che mai.
La dedica al termine di uno scritto generalmente spetta a chi per vita e per professione è capace di scrivere e scrive davvero. Oppure a chi, avendo conosciuto e conoscendo il destinatario della sua dedica, può permettersi un’invasione di campo nell’intimità di un ricordo.
Non ho mai conosciuto Fulvio Croce e non ho mai conosciuto Giulio Regeni. Istintivamente rispolverare il libro di Mario Calabresi mi è però parso il modo più generazionalmente “mio” di offrire un pensiero al ricordo di grandissimo professionista, che ha sacrificato tutto sull’altare del diritto di difesa e di quella professione che per tanti di noi diventa vita, e a quello di un giovane della mia generazione, che come tanti di noi probabilmente viaggiava rincorrendo l’eco del suo inno alla fiducia.
Se la cultura e il culto della libertà e del libero pensiero insieme all’impegno e all’amore cocente per la propria professione avranno ancora un senso in questo mondo, la memoria di Fulvio Croce e di Giulio Regeni saranno salve per sempre.
“(…)Grazie per averci provato figlio, o fratello”, che la terra ti sia lieve” (da In morte di Giulio Regeni. L’ elogio dell’andarsela a cercare, in http://www.odysseo.it/giulio-regeni/).
[1] In morte di Giulio Regeni. L’ elogio dell’andarsela a cercare, in http://www.odysseo.it/giulio-regeni/.
[2] M. Calabresi, Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa, Storie di ragazzi che non hanno avuto paura di diventare grandi, Milano 2014.
[3] M. Calabresi, op. cit., p. 52.
[4] M. Calabresi, op. cit., p. 92.
[5] M. Calabresi, op. cit., p. 107