Responsive Storytelling: il valore della narrazione interattiva

Patrizia
Bee Free (the social bee)
5 min readSep 30, 2016

Creare una narrazione rilevante per chi l’ascolta. Pensata, visualizzata e raccontata in modo personalizzato. Integrando strumenti emozionali e tecnologici. Fino allo scorso anno questo era considerato un trend di nicchia: oggi è entrato di fatto negli standard progettuali di qualsiasi progetto narrativo multipiattaforma. Ecco perché.

Come un bicchiere da cocktail

L’espressione “responsive storytelling” non è nuova.

Denise Jacobs, grande esperta di web design e nota creative evangelist, la usò già nel 2012 parlando di narrazione multipiattaforma pensata per la comunicazione mobile.

Il “responsive storytelling” è un insieme di conoscenze e tecniche per attirare l’attenzione del pubblico e poi guidarlo attraverso un flusso interattivo, personalizzabile, delle informazioni in modo da trasmettere il racconto nel modo più utile per l’utente.

In altre parole, il suo comandamento di fondo è

Non ti racconto la mia storia; ti racconto la storia che è rilevante per te.

Questo oggi può essere fatto integrando tecnologie esistenti e di ultima generazione come micrositi tematici che includono motion animation, applicazioni, infografiche interattive e multimediali etc.

Edward Segel e Jeffrey Heer ci hanno fornito una perfetta metafora per questo concetto nel loro studio sulla visualizzazione narrativa [Narrative Visualization: telling stories with data ].

Secondo Segel e Heer infatti la struttura di questo format narrativo può essere paragonata a un bicchiere da Martini cocktail. La narrazione cioè segue un percorso stretto all’inizio (l’incipit corrisponde allo stelo del bicchiere) per poi aprirsi all’esplorazione libera (rappresentata dal corpo del bicchiere).

Forse la metafora è più chiara immaginando il classico imbuto appoggiato su un piano orizzontale. L’ampiezza del calice si allarga via via che ci si sposta da sinistra verso destra.

Tredici millesimi di profondità

Oggi le persone sono abituate ad avere accesso alle informazioni quando e dove vogliono. Di conseguenza le “finestre” a disposizione per catturare la loro attenzione sono sempre più piccole.

Secondo il MIT le persone sono in grado di elaborare e memorizzare le immagini visive in soli 13 millesimi di secondo.

Tuttavia il successo di Netflix ci ha insegnato che il pubblico è più che disponibile ad impegnarsi in un’immersione profonda a patto che gli si dia la libertà di accedere alle informazioni nella modalità che più lo seduce. E ogni individuo ha la sua.

La tecnologia interattiva oggi ci permette di guidare l’audience attraverso un convincente linea narrativa di superficie offrendogli, contestualmente, la possibilità di esplorare in profondità i dettagli che gli interessano.

Non si gioca a mosca cieca

Però, però, perché lo storytelling sia davvero responsive bisogna ripartire (ancora una volta) dai fondamentali:

1. cosa vogliamo ottenere?

2. chi è la nostra audience?

3. perché dovrebbe essere interessata a ciò che diciamo/facciamo?

No all’improvvisazione, no all’intuito, vietato andare alla cieca: una buona ricerca etnografica è la chiave fondante per un buon progetto di responsive storytelling. Una ricerca approfondita e una buona analisi delle risposte e dei dati emersi sono l’unica strada per raccontare una storia avvincente.

Navigare senza perdersi in mare

Il passo successivo sarà quello di separare gli elementi essenziali della storia — il fil rouge e i punti chiave utili a tutti — dai dettagli e gli elementi di sostegno più specifici e/o argomentativi.

Questi elementi secondari verranno quindi suddivisi in dettagli modulari on-demand (o in percorsi laterali) che gli utenti potranno esplorare a livello individuale.

Per esempio: una persona che sta guardando un documento su uno studio demografico potrebbe essere interessata ad approfondire alcuni aspetti relativi alla sua città di residenza prima di leggere le conclusioni dell’autore.

Queste microinterazioni sono importanti perché permettono agli utenti di navigare liberamente e scavare più a fondo senza dar loro l’impressione che si stiano perdendo i punti chiave della storia.

Che bella cornice: è interattiva

A questo punto è il momento di creare la cornice interattiva che permetterà all’audience di determinare come viene raccontata la storia.

Funzionalità semplici come pillole di contenuto e una navigazione guidata sono elementi essenziali per aiutare l’utente nella sua ricerca.

E naturalmente infografiche interattive, charts, mappe e altri componenti “data driven” sono molto graditi quando chi guarda vuole andare in profondità nell‘esplorazione di un contenuto

Ovviamente la tecnologia e il mezzo utilizzato non è secondario quando si tratta di comunicare. Ogni scelta ha i suoi pro e i suoi contro.

Da una parte ci sono le funzioni interattive web-based come per esempio le Interactive Features del New York Times, i visual data di Bloomberg e varie altre app che offrono funzionalità praticamente illimitate, interattività e integrazione di dati.

Ma queste, ovviamente, necessitano di expertise di nicchia per essere realizzate oltre ad un’ottima connessione internet per essere visualizzate

Poi ci sono le opzioni più tradizionali come i powerpoint interattivi, Prezi e le Slides di Google che offrono molte meno funzionalità ma sono sicuramente più gestibili in sede di progettazione e produzione e più facilmente accessibili in condizioni diverse.

Il fatto è che anche la tecnologia va scelta sulla base dell’audience e delle risorse disponibili ed è importante non dimenticare che ci sono un sacco di modi diversi per raccontare la nostra storia.

Qualsiasi strada scegliamo, una buona applicazione delle logiche di responsive storytelling ci renderà in grado di creare un’esperienza di valore che va molto oltre la buona narrazione, capace di coinvolgere gli utenti sul lungo periodo, rinforzando la nostra credibilità, la nostra reputazione generando nuova fiducia, nel nostro messaggio, nel nostro brand.

Patrizia Grandicelli — Bee Free

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