I’m losing my religion

Iescum
Behavioural sciences
9 min readDec 31, 2021

di Paolo Moderato

Da un po’ di mesi, sulla stampa italiana continuano a comparire interviste a medici di Reparti Covid che esternano le loro preoccupazioni per il numero crescente di ricoverati nelle unità di terapia intensiva. Ne ha parlato il Primario di Pneumologia dell’ospedale Cannizzaro di Catania.

Ne ha parlato il direttore della terapia intensiva del Policlinico di Modena, dove il 73% dei ricoverati per COVID-19 non è vaccinato, dato che sale al 90% (9 su 10) per i degenti in Terapia Intensiva (1 su 12).

Poi il primario dell’Ospedale di Jesolo racconta di un malato novax arrivato in gravi condizioni al pronto soccorso che ha rifiutato il ricovero, firmando per le dimissioni. Dice il dott. Brollo: «In effetti serpeggia una certa insoddisfazione tra i sanitari che dall’inizio della pandemia, in Italia scoppiata il 20 febbraio 2020, non si sono mai fermati. Di fronte a queste scene pare proprio che tutto quello che abbiamo vissuto e sofferto non abbia insegnato nulla, non sia servito a niente. Abbiamo visto soffrire e morire migliaia di persone e c’è ancora gente che nega l’esistenza del Covid-19, si rifiuta di comprendere la realtà. È inconcepibile

Da ultimo, ma il primato resisterà poco, il primario di di Anestesia e Rianimazione del Fazzi e del Dea di Lecce, Giuseppe Pulito, che racconta: “Alcuni pazienti, subito dopo il ricovero chiedono di voler parlare con un avvocato. Sì con un avvocato. Vogliono avere garanzie di non essere intubati. La gente è pazza, assistiamo a scene grottesche. E noi lì a dover dare spiegazioni e perdere secondi che possono essere vitali.”

Ancora alla fine di agosto, il Corriere della Sera pubblicava un articolo in cui si lanciava un SOS dagli ospedali della Lombardia per quanto riguarda la situazione psicofisica del personale sanitario. Da una ricerca che ha coinvolto oltre 500 operatori sanitari, in maggioranza medici e infermieri ma anche tecnici di laboratorio e impiegati del Policlinico di Milano emerge che il 10% degli intervistati dichiara di assumere psicofarmaci (ansiolitici, antidepressivi o sonniferi) a partire da marzo 2020 per cercare di far fronte allo stress conseguente al loro lavoro.

Una ricerca condotta dal nostro gruppo durante la prima ondata pandemica della primavera 2020 conferma tali preoccupazioni, anzi mette in evidenza numeri più drammatici: un operatore su 3 mostrava sintomi compatibili con una depressione moderata/grave, il 55% con ansia moderata/grave; inoltre, il 15% riferiva insonnia grave, e il 52% mostrava una condizione di intensa sofferenza psicologica. Un dato allarmante inoltre era che il 3% dei soggetti riferiva frequenti ideazioni suicidarie (non dimentichiamo i casi di suicidio che sono stati registrati anche in Italia fra il personale sanitario). I fattori che si associavano ad un malessere psicologico più intenso erano il sesso femminile, la mancanza di dispositivi di protezione personale e lavorare in area covid per più di 15 h settimanali.

Inoltre, gli operatori che si erano trovati a vivere lontano dalla famiglia avevano un rischio maggiore di ansia, insonnia, depressione e compromissione funzionale (vedi figura riassuntiva).

Abbiamo cercato, dunque, di tamponare, almeno per la fase acuta, tale sofferenza: in collaborazione con il Policlinico di Milano, abbiamo proposto, per alleviare lo stress negli operatori sanitari, degli interventi basati sull’ACT — l’Acceptance and Committment Therapy, seguendo un approccio modulare e flessibile. Si trattava di diversi interventi ed esercizi di mindfulness erogabili via intranet o accessibili per telefono dall’operatore sanitario, accompagnati da messaggi di sostegno da parte di pazienti e personalità di spicco (#youarenotalone) e informazioni sulle strategie per ridurre lo stress e favorire la flessibilità psicologica.

Questa introduzione ci serve per capire che cosa sta succedendo ora al personale sanitario citato all’inizio, quel personale che nella nostra ricerca risultava già in condizioni di stress e sofferenza. Ricordiamo che siamo stati il secondo paese al mondo colpito dalla pandemia, che non eravamo preparati — il piano di contrasto alle epidemie era carente — e il personale sanitario ha sopperito con risorse personali, materiali e psicologiche, alle mancanze (di organizzazione e risorse) che hanno caratterizzato l’inizio drammatico della pandemia. Ma tutto ha un costo, tutto si paga prima o poi. Stress e trauma presentano il conto, si chiama Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), si chiama compassion fatigue: dopo la fatica e la sofferenza che gli operatori sanitari hanno sopportato durante la pandemia, molti fanno fatica a provare empatia per le persone non vaccinate, che ora arrivano in ospedale e che necessitano di cure. Non faremo distinzione qui fra novax, nivax, aspettiamovax ecc. (torneremo prossimamente su questo tema per analizzare i processi mentali sottostanti). Ciò che importa è che la maggior parte dei pazienti ricoverati, e la stragrande maggioranza di quelli in unità di cura intensiva, è priva di copertura vaccinale.

Qual è la reazione del personale sanitario a questa situazione? Quel personale, come abbiamo appena visto, ha pagato il prezzo più alto di quei primi drammatici mesi di pandemia in termini di sofferenza psicofisica, stress, insonnia e addirittura pensieri di suicidio. Quelle persone che hanno provato la paura di contagiare i loro cari tornando a casa, o di rimanere essi stessi contagiati, nonostante tutte le precauzioni che venivano prese in reparto, indossando “scafandri” che impedivano loro di bere e di espletare altre funzioni lungo tutte le ore del turno, spesso prolungato, che hanno chiuso gli occhi a un numero di persone infinito, con la frustrazione di non aver potuto fare di più per salvare le vite. Alcuni non ce l’hanno fatta a continuare, altri hanno stretto i denti, con grande sofferenza, perché bisognava resistere e non c’era altra scelta. Poi è venuta l’estate, c’è stato un po’ di respiro, sebbene tutti gli esperti ci mettessero in guardia da un più che probabile ritorno autunnale. Che si è puntualmente verificato, con picchi analoghi a quello della prima fase alla fine di novembre ma con una durata temporale maggiore, perché si andava verso i mesi invernali, in cui la vita si svolge prevalentemente al chiuso ecc. Ed ecco un nuovo lockdown a partire da novembre, ancora elevata mortalità, come se cadessero 3–4 aerei al giorno.

Nel frattempo era arrivata la notizia che, al di là di ogni più rosea aspettativa, era stato sviluppato, da diverse industrie farmaceutiche, un vaccino. Alla fine del 2020, dopo l’approvazione dei vari Enti internazionali di vigilanza, il vaccino era disponibile. Ora c’era un’altra scelta. Entro gennaio il personale sanitario in Regione Lombardia aveva in gran parte ricevuto la prima dose: con l’incarico al Generale degli Alpini Figliuolo il primo marzo cominciava una massiccia campagna di vaccinazioni di massa, che ad oggi ha visto oltre 46 milioni di persone vaccinate con ciclo completo, pari al 85,84% della popolazione sopra i 12 anni.

Si comincia a respirare, si vede la luce alla fine del tunnel — si pensava negli ospedali, i cui reparti COVID progressivamente chiudevano. Non è andata così. Si sono sviluppate alcune varianti, come c’era da aspettarsi per un fenomeno biologico, ma soprattutto troppe persone non si sono ancora vaccinate. E gli ospedali si stanno riempiendo di nuovo.

Non è finita. Ciò che è cambiato, rispetto alle prime due ondate, è l’atteggiamento di medici e infermieri verso la sofferenza e verso i malati. Prima i malati non avevano altra scelta, era il COVID che sceglieva per loro, erano vittime. Ora non è più così, questi malati potevano scegliere, come hanno scelto responsabilmente 46 milioni di italiani, e non l’hanno fatto. Così viene a mancare l’empatia del medico e dell’infermiere nei confronti del malato.

Provo a fare un esercizio di teoria della mente, o perspective taking, come è concettualizzato nel modello ACT che abbiamo citato all’inizio.

Medici e infermieri sanno che chi decide di vaccinarsi lo fa principalmente per proteggere sé, e se possiede una buona dotazione di intelligenza socio-emotiva capisce che proteggendo sé stesso protegge anche gli altri e viceversa, ma è difficile che pensi alla sofferenza del personale sanitario dei reparti COVID, a meno che non ne abbia avuto esperienza diretta. Fa parte dei principi egoistici che favoriscono la sopravvivenza. Infatti, non è questo il problema.

Chi rifiuta il vaccino ha seri problemi di comprensione dei concetti di probabilità e rischio (ma di questo parleremo un’altra volta), e una base cinicamente egoistica, più o meno apertamente dichiarata, che si basa sull’idea che “se si vaccinano gli altri in qualche modo sono protetto anch’io, senza correre rischi inutili”.

Poi arriva per molti il momento della verità, della conversione sulla via di Damasco. Persone che hanno svilito e sbeffeggiato la scienza e chi la pratica, con accuse deliranti di schiavitù intellettuale e morale nei confronti di Big Pharma ecc, quando non riescono più a respirare invocano o meglio pretendono aiuto da quella scienza e da coloro che la praticano (e allora anche Big Pharma va bene). A questo punto, davanti a questa incoerenza, a questa conversione di comodo, la reazione in molti medici e infermieri è di sentirsi manipolati disonestamente. In questo momento lo spirito di compassione e l’empatia che caratterizzano coloro che hanno scelto di erogare sempre e comunque l’aiuto e la cura, viene messo a dura prova. È la compassion fatigue.

Medici e infermieri sanno bene che ogni posto in Unità di Terapia Intensiva è sottratto a pazienti che ne potrebbero aver bisogno, in caso di complicazioni di interventi chirurgici o per qualunque altro motivo: ricordiamo che uno degli effetti collaterali del COVID è stato quello di bloccare e procrastinare molti interventi programmati, con conseguenze che si vedranno presto sulla salute della popolazione, per non parlare dei costi giornalieri di un letto in UTI, che gravano sulla collettività. Il 29 dicembre, molto lucidamente e senza peli sulla lingua, Carlo Alberto Carnevale Maffè sul Foglio ricordava che “già oggi, a causa della quota di non vaccinati, il sistema sanitario sopporta un peso quattro-cinque volte superiore a quello che affronterebbe in una situazione di copertura vaccinale generalizzata. In pratica i no vax determinano un’ingiustificabile tassa di molti miliardi a carico di tutti i contribuenti, che pure già pagano i costi della prevenzione con vaccini gratuiti e facilmente fruibili. Inoltre, a causa della saturazione delle risorse, i pazienti di altre patologie si vedono negati o ritardati esami, cure e attenzioni”

Tutto ciò produce un “clamoroso paradosso del welfare sanitario universale”: la mancanza di obbligo vaccinale, da parte dello Stato, premia “l’azzardo morale” e la scelta opportunitica dei cd novax

Il malato ricoverato non pensa a tutto ciò, ma chi lavora in ospedale non può impedirsi di pensare che i bilanci sono stretti, e ciò che si spende da una parte viene sottratto dall’altra. E che i costi della prevenzione sono infinitesimali rispetto a quello dei trattamenti, anche domiciliari, se si considerano i benefici. Quando non c’erano alternative tutti hanno buttato il cuore al di là dell’ostacolo, ma ora bisogna fare i conti anche con queste cose. Ancora troppe persone, per vari motivi, hanno rifiutato di proteggersi col vaccino, e le conseguenze ora gravano su di loro ma anche sugli altri. Non è questa la libertà di scegliere, l’ha ricordato recentemente anche il Presidente Mattarella.

Questi sono i pensieri che attraversano la mente dei sanitari. Sono pensieri che aggravano la sofferenza, perché sono pensieri disfuzionanti, controvaloriali, che chi ha sposato la professione sanitaria non vorrebbe avere, ma non può fare a meno di avere. Da qui la sofferenza, perché come abbiamo visto all’inizio di questo articolo, pensiero e linguaggio ci intrappolano nelle sabbie mobili della sofferenza psicologica.

Medici e infermieri continueranno a fornirci le migliori cure possibili come hanno sempre fatto, come fa il neurochirurgo che, mentre cerca di salvargli la vita, tra sé e sé dà del cretino al motociclista che si è schiantato senza casco, ma con sempre maggiore fatica emotiva. L’espressione I’m losing my religion, che dà il titolo a una canzone dei REM, rende ben questo stato emotivo: non stanno perdendo la fede, stanno perdendo la pazienza.

Giovambattista Presti, Barbara Dal Lago, Alice Fattori, Giuliana Mioli, Paolo Moderato, Lucia Sciaretta, Maria Antonella Costantino (2020). Mental health support to staff in a major ho- spital in Milan (Italy) during the COVID-19 pandemic: a framework of actions. General Psychiatry 2020;33:e100244. doi:10.1136/gpsych-2020–100244

Moderato, L., Lazzeroni, D., Oppo, A., Dell’Orco, F., Moderato, P., Presti, G., (2020).Acute stress response patterns and factors associated with impaired psychological status in health workers facing SARS-CoV-2: Saving Private Ryan. (5/20/2020). Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3608122 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3608122 helancetpsych- D-20–01243

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