Lo Steve Jobs di Sorkin

Filippo Corti
Bicycle Mind
Published in
5 min readNov 23, 2015

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Foto di Doug Menuez

Steve Jobs, il film, è vagamente basato su Steve Jobs, l’uomo. E questo su ammissione stessa di Sorkin, il regista, come ha ricordato in più e più interviste. A Steven Levy, per esempio, ha risposto così:

This isn’t The Steve Jobs Story. And it was never intended to give you all the facts about Steve’s life. And your first clue to that — because I want to make sure that the audience wasn’t mistaking it for anything else — is that we made no attempt to have the actor in any way do a physical impersonation of Steve Jobs. He doesn’t look like Steve Jobs, we didn’t ask him to speak like Steve Jobs. There is a joke about “insanely great” but I didn’t write in any of the Jobs-isms. It’s just not that movie.

Ok, non un documentario, non è una biopic. Riprende solo un frangente della vita di un uomo, seppur quel frangente sia adattato — con eventi e situazioni mai verificatesi — alle necessità della storia che Sorkin si è inventato, contenga diverse finzioni e inesattezze, e finisca col ridurre la personalità di Steve Jobs a pochi schemi collaudati: il bastardo intrattabile abbandonato dalla famiglia, il padre che non ha riconosciuto la figlia, presentato come il direttore d’orchestra che non sa fare bene nulla se non comandare gli altri e distorcere la realtà. È un po’ una soap opera, anche per la scelta degli eventi su cui il regista si è focalizzato: il rapporto padre e figlia, tagliando fuori tutto il resto.

Sorkin semplifica Steve Jobs, riconducendolo a quel poco su di lui che il pubblico già sa — riportando la sua figura dentro le letture trite e ritrite che i media hanno dato di Steve Jobs, di fatto non aggiungendo nulla di proprio nella comprensione di questa figura: chi è stato e cos’ha fatto. Non aggiunge nulla né sul lato umano — anzi, lo riduce a uno stronzo arrogante, pieno di sé, incapace di migliorarsi — né su quello innovativo e tecnologico — alla fine, uno si domanda come quest’uomo abbia potuto portarci il Macintosh, l’iPod, l’iPhone, etc. Cos’ha fatto Steve Jobs, e perché in molti lo rimpiangono? Andate a vedere il film e ne uscirete più confusi di prima, senza una risposta, probabilmente con una piccola convinzione: che il successo, Steve Jobs, non se lo sia meritato.

Steve Jobs esce sminuito dal film. Non si capisce cosa faccia, a che serva, perché sia stato importante o cosa abbia portato a Apple se non un’ossessiva ossessione per i dettagli e una personalità urtante. NeXT è, secondo Sorkin, il piano diabolico e personale per tornare dentro Apple — non un’azienda che ha avuto un’esistenza propria per 12 anni. Pixar non esiste. E l’iPhone non viene nemmeno menzionato perché il film si ferma al 1998. La maggior parte dei dialoghi che occupano grande rilievo nel film — con Hertzfeld, Wozniak e Sculley — sono inventati. Ah, e tutti, più o meno, non lo sopportano.

Aaron Sorkin ha deciso di fare un film leggermente basato su Steve Jobs, dipingendolo in luce negativa. Sceglie eventi a proprio piacimento e ne scarta altri a suo dire irrilevanti. Come scrive Walt Mossberg:

Sorkin chose to cherry-pick and exaggerate some of the worst aspects of Jobs’ character, and to focus on a period of his career when he was young and immature. His film chooses to place enormous emphasis on perhaps the most shameful episode in Jobs’ personal life, the period when he denied paternity to an out-of-wedlock daughter.

Dirò una cosa: il film, per quelle due ore in cui mi sono trovato chiuso al buio nella sala cinematografica, mi è piaciuto. È suddiviso in tre scene principali, tutte si svolgono poco prima di un keynote: quello del lancio del Macintosh, quello del lancio di NeXT e il keynote del 1998 in cui Steve introduce il primo iMac, trasparente. Al solito con Sorkin, tutto ruota attorno ai dialoghi serranti e scontri incalzanti. Dialoghi e situazioni, però, perlopiù inventate.

Nel buio della sala, il film mi ha preso. Poi, una volta finito, mentre le luci tornavano in sala e mi avviavo all’uscita, ho colto i mormorii degli altri spettatori. Il sentimento generale, avrebbe potuto riassumersi in: “hai visto che gran bastardo?” E “e quindi perché lo celebriamo?”.

E questo mi ha dato un gran fastidio. Perchè Sorkin può anche ripetere centomila volte che non si tratta di una biopic, a The Verge e Medium, ma lo spettatore medio non andrà a leggersi The Verge o Medium: uscirà piuttosto dalla sala cinematografica convinto di essersi visto una sintesi di quella che è stata la vita di Steve Jobs, e di averne compreso persona e idee. Dato che il film s’intitola Steve Jobs e in nessun momento, nella pellicola, un disclaimer avvisa lo spettatore che i fatti narrati nel film non si sono mai svolti il dubbio non viene mai instillato nello spettatore. È inutile che poi Sorkin si difenda nelle interviste: magari un avviso sulle fabbricazioni, nella pellicola, all’inizio o alla fine lo si sarebbe potuto mettere, no?

Il mio problema con lo Steve Jobs di Sorkin è — come scrive FastCompany — che il film aiuta a solidificare una lettura e comprensione dell’uomo Steve Jobs molto semplicistica. Lo Steve Jobs dipinto da Sorkin non avrebbe mai potuto salvare Apple: è una caricatura, costruita e tenuta in piedi grazie a molte omissioni. È la narrazione da bar di Steve Jobs, la mitologia, quella che verte attorno agli episodi di scontro e discordia ma tralascia tutti i pezzetti importanti che gli hanno permesso di diventare Steve Jobs, di costruire Apple.

Come scrivono su FastCompany:

The film’s title character is a one-trick pony, a grandstanding egotist who gets great work out of people by charming them or berating them. Humans stand in the way of his unchanging genius, at least until that unconvincing reunion with Lisa at the end. It’s an old and unsophisticated view that’s been trotted out since the early days of Apple. The fact that Sorkin’s dialogue crackles with energy under Danny Boyle’s direction doesn’t make it any more authentic.

The Steve Jobs portrayed in Steve Jobs could never have saved Apple. In the perpetually changing technology industry, simple stubbornness is the kiss of death. Sorkin has created a caricature, an entertaining and modern take on the archetypal tortured business genius. It’s kind of fun, especially for people who don’t know much about how business gets done. But characters like the “Steve Jobs” of this movie don’t last long in business — they burn out, or they get thrown out.

Nelle intenzioni di Sorkin potrebbe non esserci mai stata quella di tentare di capire cosa abbia permesso a Steve Jobs di diventare Steve Jobs, di passare dallo Steve Jobs ventenne arrogante e pieno di sé a qualcosa di più. Sorkin si ferma lì: allo Steve Jobs iniziale. Non c’è evoluzione.

È triste sapere che un mucchio di gente lascerà una sala cinematografica convinta di conoscere quella che, di fatto, è una finzione. Lo Steve Jobs di Sorkin aiuta a cementificare una narrazione attorno alla figura di Steve Jobs che in questi anni non ha fatto che semplificarlo e ridurlo. Il film sarà anche tecnicamente ottimo, e la storia narrata ben congegnata, ma non si possono ignorare i danni che fa attorno alla narrazione e comprensione della figura di Steve Jobs.

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