LA PARABOLA DEL RAGIONIER VITI: GIOCO E AUTORITÀ

We Are Müesli
Breakfast with Muesli
4 min readDec 16, 2020

di Riccardo Fassone

(Questo testo fa da prefazione a Chi è Chi, il singolare libro interattivo che abbiamo tratto dalla nostra escape room Wer ist Wer. Ringraziamo Riccardo per averla scritta e per la possibilità di pubblicarla qui)

C’è una sequenza del film Fantozzi che vale quanto un saggio di storia e teoria del gioco.
Il ragionier Ugo Fantozzi, impiegato all’ufficio sinistri di un’anonima azienda italiana e costretto a sopportare quotidianamente le vessazioni dei propri superiori, scopre che il nuovo direttore ha una passione per il biliardo. Gira voce tra i colleghi che sia sufficiente perdere qualche partita contro l’On. Cav. Diego Catellani per assicurarsi una promozione. Il ragionier Filini riporta ai colleghi increduli la parabola del ragionier Viti: «sette partite perdute, due scatti». Fantozzi decide dunque di giocare una partita contro il direttore, nella speranza di ottenere un trattamento simile. A metà della sfida, Fantozzi ha accumulato uno svantaggio abissale. Catellani sottolinea ogni colpo vincente con un insulto all’avversario, che stringe i denti immaginando una futura promozione. Fantozzi, però, arriva allo stremo e ha un moto d’orgoglio. Colpo dopo colpo, recupera il terreno perduto e batte il direttore, che, incredulo e oltraggiato, spezza la stecca.

La partita di biliardo tra Fantozzi e Catellani non è soltanto un passaggio memorabile nella storia del cinema italiano, ma è anche una lezione su cosa significhi giocare. Questa sequenza apparentemente frivola contiene una teoria del gioco composta da due postulati, che possono essere riassunti così:

POSTULATO 1: Gioco (sostantivo) e giocare (verbo) sono due cose diverse e non sempre (quasi mai?) coincidenti.

POSTULATO 2: I giochi hanno sempre a che fare con l’autorità.

Il primo postulato in questo momento non ci interessa particolarmente. È evidente, però, che, nonostante sia Fantozzi che Catellani si stiano cimentando nel biliardo, che è inequivocabilmente un gioco, nessuno dei due sta giocando. Fantozzi sta, dapprima, cercando di guadagnare una promozione e, poi, tentando di recuperare la dignità perduta. Catellani sta esercitando il proprio potere su un sottoposto. Il gioco è un canale attraverso cui passano queste complesse negoziazioni sociali. Se pensiamo al gioco come a un’attività libera e liberatoria, improduttiva, volontaria, i nostri due giocatori stanno facendo qualcosa che, in pratica, è l’opposto del giocare. Insomma non sempre (o quasi mai) a un gioco si gioca.

Il secondo postulato, invece, ci interessa di più. La partita tra Fantozzi e Catellani è un’estremizzazione – e per questo un buon esempio – di un processo che si attiva ogni volta che giochiamo. Quando giochiamo con altri esseri umani (ma probabilmente anche con animali o macchine), mettiamo in scena una serie di rapporti di potere. Se stiamo competendo, il nostro tentativo sarà di esercitare un’autorità sull’altro; se stiamo collaborando, saremo portati a far prevalere le nostre competenze o, al contrario, ad accettare che siano messe a frutto quelle dell’altro. In ogni caso, giocare comporta una negoziazione di autorità. Giocosa, libera, farsesca, certo. Ma sempre di autorità si tratta.

C’è poi un altro modo in cui il gioco ha a che fare con l’autorità. O meglio, in cui il gioco è l’autorità. Ogni volta che giochiamo siamo sottoposti a regole, strettoie, limiti, norme che indirizzano i nostri obiettivi e i nostri comportamenti. Il gioco, per l’arco della sua durata, è il nostro inflessibile principale, il nostro spietato Catellani. Insomma, giocare a un gioco significa confrontarsi con un sistema autoritario, che, letteralmente, detta le regole(1).

I giochi sono liberatori e oppressivi e i giocatori sono volontari e schiavi allo stesso tempo. Ci sono giochi che abbracciano questo bellissimo paradosso e riflettono sull’autorità, sulle regole, sull’oppressione, portando alla luce l’ambiguità nascosta in ogni gioco. Chi è Chi è uno di questi. Chi è Chi ci mette nei panni scomodi, sconvenienti, poco piacevoli dell’oppressore e, al contempo, in quelli soffocanti dell’oppresso. Se c’è una cosa che riesce bene al gioco è metterci in panni scomodi, mostrarci con chiarezza la complessità vertiginosa delle nostre vite. Sperimentiamo questa complessità attraverso il gioco sin da quando siamo bambini, ma non c’è motivo di smettere di farlo da adulti, ad esempio con un libro come questo. Il suo sistema di regole e regolamenti, cavilli e postille è labirintico, farsesco, ridicolo, e serve a ricordarci, come fanno i migliori giochi, che in ogni autorità, in ogni oppressione, in ogni regolamento soffocante ai quali siamo sottoposti, è possibile e forse necessario, trovare qualcosa di ridicolo. Qualcosa di cui prendersi gioco.

(1) Non posso, purtroppo, attribuirmi del tutto questa intuizione. Il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer diceva una cosa molto simile circa sessant’anni fa nel suo Verità e metodo. Non mi sembrava il caso di citare un ermeneuta di Marburgo nella prefazione a un libro interattivo, ma nemmeno volevo fare un torto a Gadamer.

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