Al Ronde Van Vlaanderen 2016 con Donato e Rapha Core

È il 2 Aprile 2016, quando alle 6 di mattina parto con quella che sarà la più emozionante esperienza della mia vita. Parlo di bici eh!

Calamaro
Calamaro — ink and rides
7 min readOct 5, 2016

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Original article posted on cykelnmagazine.com

A dirla tutta il Giro delle Fiandre non è mai stata la mia corsa preferita. Le corse monumento sono così, tutte lì, tutte insieme in un mesetto — a parte Il Lombardia, ovviamente — e in piena adrenalina da rientro. A bruciapelo si può premiare: la più noiosa — nessun timore: Milano–Sanremo — e la più esaltante — Monsieur l’Enfer du Nord. E poi c’è il posto d’onore, da riservare al Fiandre. Fascino innegabile che sgorga da muri strappalacrime e vincitori carichi di storia: Roger De Vlaeminck, Johan Museuw, Alessandro Ballan e poi quei due che non sto neanche a nominare.
Solamente il pensiero di percorrere quei pavè aromatici, come solo la birra belga sa essere, mi mette i brividi.
Così ho deciso di andare a pedalarla questa classica monumento, insieme al mio Martello Giallo e a Donato Indiefake, quello che dà alle sue bici nomi da corridori contemporanei.
Già sul treno senti parlare di Cancellara, Sagan, Vanmarke e Koppenberg attraverso spinosi suoni gutturali. E poi mi riconoscono, forse per via della Scicon prestatomi da Alex di Aspire Cycling. Le esse sibilanti passano alla morbidezza dell’Inglese per chiedermi se in Italia è già ora di pedalare e se il Passo Sella è ancora innevato (boh!?!).

La sera l’ambiente è assolutamente elettrico. No, non è vero. Alle 9 i ristoranti hanno già chiuso e insieme a Donato troviamo posto solo in una pizzeria. Tavolo a fianco, due Zurighesi. Sarà perché li ho salutati con il mio solito rispetto (“di dove? Zurigo? Ah, abitate proprio nel cuore della movida europea, eh!”) ma pare ci prendano gusto a metterci paura. “Quest’anno ci va bene, non dovrebbe piovere. L’anno scorso noi ci abbiamo provato a pedalare, ma alla quinta foratura io ho deciso di abbandonare, mentre Karl l’ha finita, ma in 11 ore e 3 cambi ruota”.
Attacchiamo l’adesivo dei muri sul tubo orizzontale e andiamo a letto un pelo in tensione, tanto che al posto di dormire passo almeno un paio d’ore a sistemare i miei bike devices e a preparare l’abbigliamento da pedalata. A capire come fa Donato a non piantarmi una mascherina in faccia e sdraiarmi.

Dormo fino alle 5.30 quando la sveglia suona e si scende a fare colazione. Alle 6.15 siamo fuori, noi due e i ragazzi inglesi nello stesso B&B. Saggiamo l’aria: è tempo da completo leggero, e sono pronto a mettermi addosso Bib e Jersey Rapha Core, che ho preso per l’occasione (sì, la scusa di questo articolo è la recensione dei nuovi prodotti primoprezzo Rapha).
Le gambe scoperte possono andar bene, ma la manica corta è un po’ troppo spavalda per l’alba del Nord Europa. Per fortuna Donato mi presta i suoi Arm Warmers (Rapha questi non me li aveva mandati), neri, ci stanno davvero benissimo con il Blu della maglietta. E per evitare sorprese ci metto sopra l’antivento.

La prima tappa è quella verso la partenza, ma ci perdiamo subito e, pim pum, eccoci a fare 10 km in più, per riscaldare la gamba.
I primi minuti vanno tranquilli, il cielo sembra sereno e dopo circa 20 km mi levo giacca, guanti e mi stampo in faccia gli occhiali da sole. Alla fine ho già passato un muro e due tratti in pavé, direi che mi sono scaldato abbastanza, in tempo per scalare il primo monumento: Molenberg, muro pavimentato di circa 700 metri e impennate da 14.2%.
Riesco a passarlo bene, anche grazie al veleno che mi fanno salire le mountain bike.
La prima sosta è giusto per rinforzare la colazione. Mangio un paio di banane e bevo un isotonico gelato che mi bussa con forza sugli intestini. Ah già, poi c’è quella fantastica scoperta che si chiama Honingkoek e che ho scoperto a Berlino giusto una settimana prima (grazie Jon!). In questa primo stop capisco anche la civiltà di un popolo nordico che a bordo strada sistema non solo dei classici casottini con water in plastica, ma anche dei chimici vespasiani, che occupano meno spazio e ti danno la possibilità di espletare le tue funzioni praticamente senza attese.

Si risale in bici e Donato comincia a lamentarsi della mia lentezza fra foto e tweet. Ci siamo, arrivano i cobblestone veramente duri. Il primo che si fa ricordare è Haaghoek, e non solo per il nome impronunciabile
Un altro paio di strappetti, in cui la parte difficile è soprattutto la discesa scivolosa, e poi si rimangia. È passata un’oretta abbondante dalla sosta precedente, ma le gambe traballano e il fondello ha trovato una bella posizione comoda grazie ai saltelli precisi delle strade belghe.
Qua stiamo fermi giusto il tempo di qualche uvetta, waffel e un paio di torte speziate. Ah, e poi c’è tempo per ascoltare il respiro del Koppenberg.

Ripartiamo subito, non vogliamo rimanere imbottigliati nel Colle di Testa. Lo vedi già dopo cinque minuti sulla bici, è lì e ti scruta. Ti vuole dire in faccia che qua si cammina, non si pedala. Donato sale subito su come un proiettile e me lo perdo. Io seguo il mio ritmo ben cadenzato. Ma siamo almeno in 1200 sulle pietre umide e appena quello davanti mette il piede a terra eccoci tutti lì a passeggiare. Per fortuna per la strada, mentre spingo, becco la TV Belga e con la mia faccia da pirla sto lì a esprimere le mie perplessità: “L’unica cosa pericolosa in Belgio è sto maledetto pavè bagnato”. Ehm.

Arrivo in cima e Donato mi fa una foto che cancella subito sotto le mie minacce.
Riscendiamo dal Koppenberg e affrontiamo insieme gli altri due muri (non so se conoscete il Taaienberg ma vi assicuro che dopo il Koppenberg questo fa davvero piangere). Poi una bella discesa su sanpietrino, dove Donato mi stacca senza pensarci, e ancora altri muri (e del Kanarieberg vogliamo parlare?).
Continuiamo a sorpassare un ragazzo spagnolo, che stamattina ci approcciava urlandoci: “Rapha Brothers!” e alla prima sosta ci attaccava bottone dicendo “state tranquilli, i problemi arriveranno dopo l’ultimo ristoro. Lì la corsa ti sembra finita ma ci sono ancora quei due mostri da superare”. Ed eccolo di nuovo lì, proprio all’inizio dell’inferno. Apre bocca e lo zittisco, in andaluso: “Lo sé quillo, lo sé. Ahora empieza la marrona. Nos vemos en la cima!” Mi è scappata la mano. Ma sono abbastanza nervoso anche a causa di sti maledetti manicotti, che continuano a calare, anche senza saltellare sul pavè. Il bib, invece, è perfetto, aderisce bene e non mi ha fatto sentire alcun cigolio fra il sedere e la Cambium. Così come la jersey, calda al punto giusto e mai inzuppata di sudore. Certo, la lana merino è meglio, ma Rapha Core è pur sempre un primoprezzo.

Basta cianciare, Donato mi piglia per le orecchie, mi deride su Telegram e poi mi mostra gli ultimi muri sul tubo orizzontale. Ripartiamo. L’emozione comincia a salire. Kruisberg e Karnemelkbeekstraat sono un bell’antipasto, brevi e poco irti, ti fanno tornare a sentire la forma. Ma tanto poi sulla destra vedi quella casa, che venticinque volte ti ha fatto l’occhiolino dalla televisione quando sai già che Fabian sta per scattare e non ce ne sarà più per nessuno. Questa volta però Cancellara non c’è, ci sei tu sul quel pavé affilato e a scattare non ci saranno altro che i fotografi maledetti dalle tue urla demoniache.
Mi tiro sui pedali mentre abbasso la presa sul manubrio: ‘sto Vecchio Kwaremont lo devi colpire con un diretto, così come faresti anche con i mountain biker col 36/34. Quella di stare fuorisella non è proprio una genialata: la salita non è eccessiva, ma la distanza fra due pietre è pari alle dimensioni di una nutria fiamminga. Nono, qui si sta seduti e si pesta quanto si può per scavalcare sanpietrini alti quanto marciapiedi. Sono più di due chilometri e a ogni pedalata rivedo tutte le scene degli ultimi 7 anni di Ronde, giuro che mi sale il magone per l’emozione.
Finisco il tratto in pavè e mi scambio un cinque tremolante con la ragazza con cui ci siamo succhiati la ruota a vicenda al suono di “sei grande”, “no sei più grande te”.
In cima alla salita Donato mi illumina con un sorriso e mi spegne con un ceffone “ti sbrighi o no? Voglio una birra io!

E c’ha ragione pure lui. Il problema dell’Oude Kwaremont è la discesa in falsopiano che lo segue. Spingi a tutta, giri a destra e incontri quella carogna del Paterberg. Mi ritrovo sul pavè insieme al 50/13, sferraglio sopra il cambio ma salta la catena e ferisco il Martello Giallo. Rimango di nuovo a piedi maledicendo la mia avventatezza. Niente, sono un pirla. Ma mi fermo a fare le foto e a bere una Redbull offerta dalla classica promoter in blu. Stavolta Donato è nero: “Ennoh eh! ti sto aspettando da venti minuti!
Mi metto la giacca a vento e tiro io per gli ultimi 15 km, che chiudiamo in circa 25 minuti. Fino al traguardo, dove la folla chiude la strada verso l’arrivo digitale.
È fatta. Abbiamo portato le terga fino alla fine. E anche loro hanno retto benissimo nonostante il terreno sconnesso.

E ora ci tocca solo una doccia e un paio di splendide, gelate, Kwaremont.
Oh Wait!!

Il mio Ronde Van Vlaanderen

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