Eriksen nell’Inter di Conte

Matteo Pilotto
Calcio Datato

--

Era lecito aspettarsi qualcosa in più dal danese?

Calcio Datato da oggi ha una casa nuova. Ogni settimana impacchetto analisi come questa e le faccio trovare gratuitamente nella tua inbox. Se vuoi evitare di perdertele, qui il link per iscriverti.

Calcio Datato da oggi ha una casa nuova. Ogni settimana impacchetto analisi come questa e le faccio trovare gratuitamente nella tua inbox. Se vuoi evitare di perdertele, qui il link per iscriverti.

Trovarsi ad inizio maggio a scrivere di Eriksen e del suo ruolo nello scudetto dell’Inter non era cosa scontata. Cinque mesi fa, quando il danese era partito da titolare soltanto 5 volte, quando Conte sembrava volerne limitare l’utilizzo al garbage time o a situazioni disperate da risolvere negli ultimi minuti, la sua avventura milanese sembrava essere già giunta al termine, troncata dal marchio “non funzionale” stampatogli addosso dalle parole di Marotta.

E invece la paralisi di movimenti nel mercato di gennaio ci ha dato la possibilità di vedere un Eriksen addirittura protagonista nella cavalcata vincente dell’Inter. Per farlo il danese ha dovuto però calarsi in una dimensione nuova, quella definita pezzetto per pezzetto da Conte. Ha ancora una volta fatto leva sulla sua straordinaria versatilità per calarsi in un ruolo che forse non ne esalta a pieno le caratteristiche ma che gli ha permesso di reinventare il suo percorso in nerazzurro.

Premesse

Eriksen si presenta a San Siro come il rifinitore principe del campionato inglese. Dal debutto nel settembre 2013 all’addio nel gennaio 2020 era stato il giocatore della Premier con il più alto numero di gol da fuori area, gol su punizione, occasioni create ed assist.

Nel Tottenham di Pochettino ad Eriksen erano affidate tante responsabilità quante libertà. La sua funzione era quella di gestire tempi e indirizzi della squadra nella metà campo d’attacco. Manipolava la struttura difensiva avversaria grazie alla capacità di trovare gli spazi giusti per ricevere palla e con le sue scelte di passaggio.

Parlando a Sky Sports del suo rapporto con Poch, Eriksen diceva di sentirsi libero di esprimersi, inserito in un contesto che ne potesse esaltare le qualità e nascondere i difetti.

“He gives his players a lot of confidence and he trusts to let them play”

Anche i migliori luoghi di lavoro possono però diventare scomodi col passare del tempo. La voglia di intraprendere una nuova sfida cresce e dopo un’estate passata invano a cercare una nuova casa, Eriksen arriva in nerazzurro sul finire del mercato invernale.

Quello tra Eriksen e l’Inter è un matrimonio costruito sulle opportunità. Per il danese di imporsi in un contesto diverso da quello inglese; per l’Inter di pescare a prezzo di saldo un giocatore con talenti lontani da quelli presenti all’interno della rosa nerazzurra. Talmente lontani da rivelarsi poi difficilmente compatibili.

L’Inter di Conte è un circuito chiuso in cui a ogni pedina viene assegnata una funzione specifica, dettagliata, che esalta buoni esecutori piuttosto che interpreti eclettici. Nel 352 di fabbrica il centro del campo è poi territorio che va svuotato per lasciar spazio alle punte. Alle mezzali si chiede di abbassarsi in costruzione o di allargarsi ad altezze diverse in fase di sviluppo. Sono spartiti piuttosto rigidi che lasciano poco alle iniziative individuali. Lo spazio da gestire è pre-impacchettato, suddiviso in maniera chiara in tutte le fasi della manovra.

Come poteva pensare Eriksen di riuscire ad inserire il suo spirito intuitivo in un contesto così codificato?

Eriksen e la fase difensiva

Non conosco Eriksen ma mi immagino i suoi primi 12 mesi come un periodo pieno di incertezze, diviso a metà tra la voglia di imporsi e quella di trovare un ambiente capace di abbracciarne a pieno il talento.

Nel percorso che lo ha portato dai margini della rosa alla titolarità, Eriksen non è però stato l’unico costretto a scendere a patti con la necessità di adattamento. Lo ha fatto anche Conte.

Nel 2021 l’Inter è infatti una squadra lontana da quella vista ad inizio stagione. Ha costruito i successi degli ultimi mesi su un approccio prudente e paziente; il pressing è modulato a seconda di avversari e momenti della partita. Conte ha capito che l’aggressività senza palla nella metà campo avversaria portava più scompensi che benefici. Soffriva le contromisure prese da avversari che sembravano voler farsi invadere, schiacciare dentro la propria metà campo per poi sfruttare le incertezze tra centrocampo e difesa nerazzurra.

Eriksen si va quindi ad inserire in un contesto diverso rispetto a quello che lo aveva accolto un anno prima. Le esigenze sono cambiate, con e senza palla.

Tuttoggi Conte non perde occasione per sottolineare come a Eriksen sia servito del tempo per “capire che nel calcio ci sono due fasi: quella offensiva e quella difensiva”. Il concetto è qui estremizzato, ma il danese ha effettivamente dovuto superare il trauma di un passaggio da un calcio dove i suoi compiti difensivi erano specificamente legati alle transizioni negative ad uno a lunghe fasi di difesa posizionale.

Nel Tottenham di Pochettino il suo apporto difensivo era fatto di pressioni portate in seguito alla perdita del possesso o per contrastare il principio della manovra avversaria. Un contributo diverso rispetto a quello richiesto da Conte alla sua mezzala sinistra. All’Inter Eriksen deve preoccuparsi degli spazi alle sue spalle piuttosto che di aggredire quelli di fronte a lui, e lo fa bene.

Rispetto agli anni londinesi sono diminuite significativamente —come ci si poteva aspettare dato il cambiamento nell’approccio difensivo — le azioni di pressing (da 21.9 a 11.6 per 90') ma l’efficace adattamento ad una difesa di posizione è sottolineato dall’elevato numero di palloni recuperati, una statistica che a differenza di pressing, tackles ed intercetti premia posizionamenti e letture difensive efficaci.

Dalla sua entrata in pianta stabile nell’undici titolare Eriksen è infatti il giocatore dell’Inter con il più alto numero di palloni recuperati: 7.40 per 90'. Molti dei quali a ridosso della trequarti avversaria, a protezione della zona di rifinitura.

Eriksen con e senza palla

Prima di entrare nel dettaglio del contributo di Eriksen nella fase di possesso dell’Inter occorre fare un passo indietro e definire il ruolo del danese nella manovra del Tottenham di Pochettino.

I 7 anni in Premier League lo avevano proiettato come uno dei giocatori del campionato inglese con la maggior influenza sulla fase di possesso della propria squadra. Il centrocampo degli Spurs — privo di un vero e proprio regista — ruotava a seconda delle circostanze seguendo i movimenti del danese, bravo ad abbassarsi a supporto dei due mediani quando la manovra aveva bisogno di un costruttore capace di aggiungere qualità alla risalita palleggiata o nel farsi trovare tra le linee avversarie partendo dall’esterno per guadagnare un tempo di gioco e mandare in porta un compagno.

Eriksen non era soltanto il rifinitore di maggior qualità di quella squadra ma colui che ne dettava i tempi di gioco. In un Tottenham che tendeva a mantenere il controllo del pallone per lunghe fasi della partita, il danese era sì capace di assumere funzioni da primo regista ma lo faceva in maniera fluida, dinamica. L’abbassamento al fianco o in mezzo ai due mediani era un punto di arrivo più che di partenza.

La necessità di calarsi nel contesto di un’Inter più attendista, con un baricentro più basso rispetto agli Spurs di Pochettino, a suo agio nel lasciare il pallone agli avversari, lo ha portato a dover adattare le sue qualità ad esigenze diverse, ad entrare nella manovra soprattutto nella fase di impostazione, toccando più palloni nel terzo difensivo e accompagnandola soltanto quando le disposizioni avversarie non permettono di eseguire attacchi rapidi.

Due esempi della fase di impostazione dell’Inter a Napoli. Nel primo caso è Brozovic ad abbassarsi sulla linea dei difensori con Eriksen unico riferimento centrale, Bastoni e Sriniar in posizione dei terzini. Nella seconda immagine è invece Eriksen che si affianca a De Vrij mentre Bastoni scala lateralmente sulla sinistra.

Conte ha pensato per lui funzioni da secondo regista più che da mezzala di possesso alla Sensi versione autunno 2019. Nel centrocampo asimmetrico dell’Inter è Barella ad alzarsi su una linea più alta con Eriksen invece più basso, al fianco di Brozovic.

Le heatmap di Eriksen evidenziano l’aumento di passaggi ricevuti a ridosso della propria area da Inter-Benevento in poi

Nella Serie A 20/21 Eriksen sta viaggiando ad una media di 14.9 palloni toccati nel terzo difensivo per 90', 6.4 in più rispetto agli 8.5 registrati nella Premier League 18/19 (ultima stagione completa sotto la guida di Pochettino). Rispetto allo stesso campionato sono invece calati coinvolgimento a metà campo (da 40.2 a 37.4 tocchi per 90') e nel terzo offensivo (da 30.2 a 28.7).

Il coinvolgimento di Eriksen nella metà campo difensiva viene evidenziato anche dal grafico qui sopra. Il 46.3% delle azioni non difensive del danese avviene infatti nei primi 50 metri di campo, una percentuale superiore alla media tra i centrocampisti del campionato italiano

Eriksen ha quindi dovuto abituarsi ad entrare nella manovra in modi e con tempi diversi. Anche quando l’Inter riesce a farsi largo nella metà campo avversaria, l’accompagnamento dentro la metà campo avversaria lo vede raramente occupare uno dei 5 ruoli da invasore che vanno a distribuirsi lungo i corridoi verticali (solitamente occupati dalle due punte, dai due esterni e da Barella).

È infatti più facile vederlo imbastire la manovra offensiva piuttosto che dettare l’ultimo passaggio. Lo stesso third pass servito a Perisic in occasione del gol di Lautaro nel derby di ritorno nasce da un’inusuale appropriazione del ruolo di invasore solitamente occupato da Barella, in quel caso rimasto basso dopo aver dato il là alla ripartenza nerazzurra.

Questa Inter tende ad attivare Eriksen in situazioni piuttosto statiche, quando la difesa posizionale avversaria è ben assestata e impone un giro palla orizzontale alla ricerca di un pertugio. Tra i giocatori nerazzurri con almeno 1000' in campo in questo campionato, Eriksen è undicesimo per numero di passaggi progressivi ricevuti: soltanto 1.61 per 90'. Meno della metà rispetto a quelli ricevuti da Barella, un numero inferiore anche a quello fin qui registrato da Bastoni e che lo colloca nel gruppetto dei costruttori assieme a Brozovic, Vidal (che ad inizio stagione ha spesso svolto il ruolo di play al posto del croato), Skriniar e De Vrij.

Un coinvolgimento di questo tipo limita alcune delle caratteristiche che rendono il danese un giocatore unico, non gli consente di sfruttare a pieno quell’intelligenza posizionale che permetteva agli Spurs di manomettere le linee difensive avversarie. Sebbene la sua pulizia tecnica lo renda uno dei migliori giocatori al mondo nell’andare in gol o nel mandare al tiro un compagno da calcio piazzato, l’apporto di Eriksen alla manovra offensiva è fortemente legato alla sua mobilità.

Inserirlo in uno spartito rigido, perlopiù in fase di impostazione, è una scelta che rischia di penalizzarne le capacità di incidere sulla fase di rifinitura della propria squadra, limitandone la pericolosità alle sole situazioni da fermo.

Ad oggi Eriksen è il centrocampista dell’Inter con la più alta media di expected assist (0.17 per 90') ma il primato è soprattutto figlio della precisione con cui il danese batte punizioni e calci d’angolo.

Tra i giocatori del campionato italiano con almeno 1000' giocati, Eriksen è infatti 24° per passaggi chiave per 90' ma soltanto 115° per passaggi chiave su azione. Un gap signficativo che evidenzia da una parte le difficoltà del danese nel mandare in porta i compagni su azione, ma che ne sottolinea anche le straordinarie abilità balistiche.

Nella Serie A 20/21 Eriksen viaggia ad una media di 1.17 tiri assistiti da calcio piazzato per 90'. Soltanto Calhanoglu, Verdi e Di Marco (tra i giocatori con almeno 1000' giocati) hanno sin qui fatto meglio di lui.

Come valutare il percorso di Eriksen?

Difficile immaginare a cosa faccia riferimento Conte quanto afferma di essere certo che Eriksen possa fare “molto, molto di più”. Dice di apprezzare il fatto che stia “aumentando aggressività e intensità” quando in realtà il progresso in fase di non possesso sembra più legato ad un sensibile miglioramento nelle letture e nel posizionamento difensivo.

Alla mia analisi mancherà sempre una parte importante. Da fuori, senza l’esperienza quotidiana dell’allenamento, l’evoluzione del percorso di Eriksen in questa Inter manterrà sempre una struttura nebulosa, poco chiara. Dalla mia ho però il campo e la possibilità di confrontare il giocatore visto in maglia Spurs con quello calatosi faticosamente nella realtà nerazzurra.

La sensazione è che l’Eriksen degli ultimi mesi sia un compromesso tra le sue qualità e le esigenze di Conte; che il contesto rigido di questa Inter lo abbia portato a rinunciare al pacchetto completo; che ci si sia limitati a sfruttarne qualità in impostazione, pulizia di calcio e soltanto sporadicamente la capacità di imbastire la fase finale dell’azione.

Gli si sono tolte alcune delle licenze che gli permettevano di sfruttare a pieno le sue caratteristiche distintive: dalla fluidità nei movimenti alla capacità di incidere sui ritmi della manovra andando a ricevere palla o ad attaccare uno spazio a seconda delle opportunità individuate dal suo superiore intelletto calcistico.

I 12 mesi passati tra arrivo e affermazione sono quelli di cui Eriksen ha avuto bisogno per abbandonare le resistenze più remote del suo subconscio e farsi così incastrare in un sistema che lo avrebbe sì arricchito sotto certi aspetti del gioco (soprattutto dal punto di vista difensivo) ma che ne avrebbe anche offuscato parte della sua stessa identità da calciatore.

Forse è vero che Eriksen poteva dare di più. Ma forse è l’Inter, questa Inter, a non essere il contesto adatto a mettere il danese nelle condizioni di farlo.

--

--