Foto di Michal Jarmoluk

I calciatori non decidono

Matteo Pilotto
Calcio Datato
Published in
6 min readNov 14, 2020

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Dalla legge Bosman ad oggi hanno subito passivamente l’evoluzione delle dinamiche dello sport di cui sono i protagonisti

“Sfortunatamente, non decidiamo nulla come giocatori e nessuno ci consulta. Siamo solo dei burattini in queste novità inventate da FIFA e UEFA.”

Le parole di Toni Kroos alla vigilia della terza pausa internazionale dall’inizio della stagione rimettono al centro una questione che sembrava dimenticata dopo il successo della sentenza Bosman, celebrata da Sky Sport in un articolo del 7 ottobre 2011 come “la norma che ha liberato i calciatori”. A 9 anni di distanza, nel bel mezzo della totale irrazionalità della stagione calcistica 2020/2021, è giunta l’ora di chiedersi nuovamente quale sia il ruolo dei calciatori nelle dinamiche di uno sport le cui regole di ingaggio sembrano sempre più dettate unilateralmente, senza che la loro opinione possa nemmento entrare nelle conversazioni legate a pianificazioni, regole o cambiamenti.

Anche sforzandosi, si fa fatica ad andare oltre alla forza contrattuale del singolo, ad individuare i calciatori come categoria centrale nella modellazione dell’evoluzione dello sport. Hanno accettato silenziosamente di continuare a servire le proprie prestazioni anche in un mondo in cui i non-calciatori sono stati limitati ai confini della propria abitazione. Hanno dovuto prepare il big match di giornata anche dopo aver perso uno o più compagni risultati positivi ai test di routine. Sono stati sottoposti alla stessa rigidità nei giudizi del calcio pre-lockdown. Forse in passato la mancanza di peso politico poteva essere ben celata dai grossi numeri di stipendi e trasferimenti, dall’ideale figurato di uomini-dei al di sopra delle difficoltà quotidiane della vita terrena, ma nell’epoca della pandemia, del calendario fitto che ne mette a rischio salute e carriera, la mancanza di considerazione per la categoria appare evidente.

Eppure le unioni sindacali esistono, anche quelle a rappresentanza dei calciatori. L’ AIC (Associazione Italiana Calciatori) a livello italiano (forse l’unica entità che riusciamo a ricordare per una qualche iniziativa volta alla tutela dei calciatori ) e la FIFPro (Fédération Internationale des Associations de Footballeurs Professionnels) a livello internazionale. È proprio sul sito di quest’ultima che troviamo una nota sull’emergenza legata al rischio di eccessivo workload per i calciatori nella stagione in corso. La gestione del calendaro viene definita “priva di sufficiente considerazione per la salute, il benessere e la performance richieste”, tale da richiedere una “urgente e continua revisione da parte degli organizzatori”.

La nota continua entrando nel dettaglio dei rischi e legandoli non solo a condizioni di salute ma anche a possibili conseguenze negative per i livelli prestazionali che potrebbero influenzare negativamente Europei 2021 e Mondiali 2022 (quelli pianificati per dicembre in Qatar nel bel mezzo della stagione 2022/2023). Si raccomanda la concentrazione delle energie sulle competizioni “più importanti” (definizione piuttosto soggettiva) e la necessità di “limitare spostamenti non necessari, esposizione al virus e periodi di quarantena troppo lunghi”.

Si tratta di raccomandazioni da una parte condivisibili, piene di buon senso, e dall’altra tremendamente distaccate dalla realtà. La nota si chiude con uno “strumento online per la misurazione del workload dei giocatori, così come dell’impatto di viaggi ed infortuni”. Nessun riferimento ad alcuna iniziativa intrapresa dall’unione per portare avanti i diritti dei rappresentanti, per far valere quelle condizioni considerate come fondamentali per mantenere i livelli prestazionali e garantire salute e benessere ai calciatori professionisti.

La FIFPro esiste, riconosce limiti e pericoli del calcio in piena pandemia ma sembra non avere il peso politico per muovere passi concreti. Non è rappresentata nel Consiglio FIFAl’organo decisionale più importante della FIFA — e non va olte 4 membri (su 16) nel Consiglio Strategico del Calcio Professionistico UEFA (PFSC), l’ente europeo dove l’UEFA, assieme a club, leghe e giocatori, affronta argomenti di discussione che ruotano attorno a competizioni, calendario, aspetti finanziari e commerciali, ruolo dei club nel contesto del calcio europeo.

Come può bastare una rappresentanza marginale per incidere in maniera rilevante su presente e futuro dello sport?

Lo stesso comunicato con cui la FIFPro prendeva coscienza del calendario interazionale per la stagione in corso certifica mestamente l’incapacità di sollevare in maniera concreta le preoccupazioni espresse dall’unione.

“La FIFPro prende nota delle decisione prese dal Consiglio FIFA relative alle modifiche al calendario delle competizioni internazionali. Continueremo a lavorare con le nostre controparti nel gruppo di lavoro degli stakeholder FIFA per continuare a monitorare, migliorare ed adattare il calendario negli anni a venire”

Rispetto ad altri sportivi professionisti come tennisti (nell’Association of Tennis Professionals o ATP) o giocatori NBA, i calciatori hanno semplicemente un minor peso rappresentativo all’interno dei massimi organi decisionali. Tra i 7 memberi del consiglio di amministrazione dell’ATP troviamo un ex giocatore (il presidente dell’ATP Andrea Gaudenzi) e 3 rappresentanti dei tennisti. La National Basketball Players Association (NBPA) — unione sindacale dei giocatori della prinicipale lega di basket — è invece l’unico interlocutore con cui l’NBA stessa (commissioner più 30 proprietari) deve scendere a patti per il rinnovo del Collective Bargaining Agreement (CBA), il contratto con cui NBA e NBPA definiscono regole e termini del rapporto tra lega, squadre e giocatori. Il suo peso politico è cresciuto nel corso degli anni, si è esteso oltre i confini del parquet di gioco e vede un coinvolgimento attivo, costante, di figure chiave del basket NBA. Al fianco del direttore esecutivo Michelle Roberts ci sono infatti Chris Paul (presidente) e, nel ruolo di vicepresidente, 6 giocatori tra cui LeBron James e Kyrie Irving.

Se per NBA e tennis professionistico i malumori degli sportivi possono essere portati direttamente in consiglio, il calcio sembra non riuscire ad andare oltre agli sfoghi individuali, ai singoli allarmi che mancano però di consistenza, praticità. C’è tanta rassegnazione nelle parole dei calciatori stessi o dei molti allenatori che stanno pubblicamente cercando di alzare il livello di allarme (Klopp e Guardiola su tutti). Dubbi e precoccupazuoni sembrano essere condivisi direttamente, — attraverso i media — e indirettamente — a livello politico — dall’ECA (Associazione dei Club Europei), ma la stagione è ormai definita, il calendario talmente fitto da rendere impossibile imagginarne una anche leggera modifica. Se cambiamento sarà, non potrà portare beneficio nel breve termine.

Le parole di Kloop al termine di Manchester City — Liverpool sono piene di preoccupazione, sconforto per quello che sembra possa essere un problema che affliggerà i giocatori per il resto della stagione

La sensazione — o forse soltanto la speranza — è che le voci di Kroos, Klopp, Guardiola siano solo il primo segnale di una presa di coscienza che possa spingere i calciatori a rivendicare una rappresentanza proporzionale al loro contributo. Che li porti a pretendere una considerazione al momento inesistente.

Il rischio, da parte nostra, è di non andare oltre valori di mercato e stipendio, di limitarsi al potere contrattuale del singolo, di non capire come l’accumulo della ricchezza dell’uomo-calciatore sia in realtà anche legata all’ingresso di figure esterne — gli agenti — che hanno sfruttato svincoli post-Bosman e crescita del movimento per utilizzarne i talenti per scopi personali.

In questo contesto, le difficoltà da parte dei club nel rinegoziare gli stipendi con alcuni gruppi-squadra sembrano ben spiegare il valore dell’ingaggio per la categoria. Senza peso decisionale, senza considerazione da parte di organizzazioni nazionali ed internazionali, il valore intrinseco e figurato dello stipendio resta l’ultimo baluardo a cui aggrapparsi. Un certificato di importanza che la categoria fatica a trovare negli organi del potere.

La commercializzazione del calcio contemporaneo, la crescita del potere di negoziazione individuale ha fatto perdere di vista il contesto. Ci si è accontentati dei benefici indiretti, si è abbracciata l’idea di calciatore-brand, di icona mondiale, ma si è più o meno incosciamente accettata una realtà dove la categoria calciatori non è coinvolta nelle decisioni legate alla propria salute, al propro futuro. Lo si è lasciato in mano ad altri in cambio di un pacchetto che mai come oggi appare svalutato, relativo.

Sarà forse il calcio in piena pandemia, i rischi di un calendario internazionale che non da respiro, il mondiale invernale in Qatar o forse tutti questi fattori insieme a portare la categoria calciatori a ripensare e rivendicare un ruolo che appare oggi tristemente marginale.

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