Confessioni di una lente non pericolosa — Il Delta brucia (NTLPD)

Nigeria — I ribelli del Mend

Damiano Rossi
Callmeishmael.net
9 min readDec 24, 2017

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Foto di Damiano Rossi

“Non ti ricordi di Ken Saro Wiwa? Il poeta nigeriano, un eroe dei nostri tempi, non ti ricordi di Ken Saro Wiwa? Perché troppo ha amato, l’hanno ammazzato davanti a tutti,
bugiardi dentro, fuori assassini, vigliacchi in divisa, generazioni intere ingannate per sempre, a sangue freddo…”

E’ questa la canzone (Il teatro degli orrori — A sangue freddo) che continua a girarmi per la testa durante tutto il viaggio aereo che da Bujumbura (Burundi) mi porta sino a Port Harcourt, dopo aver trascorso una notte ad Addis Abeba (Etiopia).
Sono sulle tracce, che non il tempo ma gli esseri umani hanno cercato più volte di cancellare, di Ken Saro Wiwa, leader della resistenza Ogoni (minoranza di cinquecentomila persone che vivono nello Stato di
Rivers, a est della sua capitale Port Harcourt, dove nel 1958 fu
scoperto il primo giacimento) nei confronti del governo nigeriano e
delle multinazionali petrolifere. La loro lotta stava diventando un
fastidioso banco di prova e una loro vittoria avrebbe quasi certamente
portato tutte le altre etnie e comunità del Delta a intraprendere la
stessa strada. Così Ken Saro-Wiwa venne più volte arrestato e
torturato fin quando nel 1995 venne accusato di omicidio insieme ad
altri otto attivisti e, dopo un processo farsa di pochi mesi, furono
tutti condannati a morte e impiccati. Era il 10 novembre del 1995.
Quindici anni dopo, eccomi qui, all’aeroporto di Port Harcourt. E’ già
sera e il mio contatto dovrebbe essere fuori ad aspettarmi…ma come
spesso accade da queste parti (e in tante altre parti d’Africa) la
puntualità e l’organizzazione non la fanno da padroni. Mi ritrovo
quindi ad aspettare due ore dietro le inferiate che mi separano dalla
strada, dalla città…un bianco da queste parti è meglio non si
avventuri da solo per le strade, troppo alto il rischio di rapimenti.
Niente da fare, nemmeno l’ombra del mio uomo. Sono ormai le 10 di sera
e decido quindi di affidarmi al caso…vedo una ragazza che passa con la
brochure di un albergo e le chiedo informazioni a riguardo. Passano
due minuti e sono con lei (che lavora da PR per questo hotel) su un taxi che proprio non “sfreccia” su queste strade così trafficate, fino a giungere all’albergo che per questa notte sarà la mia base. E che base! Un albergo super lusso per il quale spendo tanto quanto i restanti dieci giorni del successivo hotel. Naturalmente, oltre al frigo-bar che mi guardo bene dall’aprire, c’è il wi-fi ed è così che all’una di notte riesco a contattare Vincent, il ritardatario…non aveva ben capito il giorno del mio arrivo.

L’attesa

Foto di Damiano Rossi

L’indomani mattina alle 8 è però già alla hall dell’hotel ad aspettarmi, soliti rituali di benvenuto, saluti, chiacchiere e bla bla bla…e su un altro taxi ci rechiamo sino a quello che per i restanti 10 giorni sarà il mio albergo (modesto, non costoso, con l’unico neo che il cuoco mi prepara solo riso con le verdure!?!?), non lontano dalla ONG per la quale Vincent lavora, una organizzazione che si occupa di tutela dell’ambiente e di difesa dei diritti umani. Da quando, nel 1956, furono scoperti sotto le paludi del delta del fiume Niger i primi giacimenti di petrolio (chiamato Bonny Light in quanto a basso contenuto di zolfo e perciò facilmente raffinabile in gasolio e benzina), quest’area che si estende su oltre centomila chilometri quadrati, con più di venti milioni di persone e che comprende nove Stati (i più interessati da estrazioni e conflitti sono quelli di Rivers, Bayelsa e Delta, con le rispettive capitali Port Harcourt, Yenagoa e Warri) non ha più avuto pace.
Passo i successivi quattro giorni rinchiuso nella mia stanza
d’albergo, troppo rischioso per me uscire, troppe bande criminali a
contendersi i bianchi. Faccio soltanto la spola dalla mia camera alla
sala da pranzo. Intanto la ONG di Vincent si sta muovendo per farmi
incontrare alcuni membri del MEND (Movimento per l’Emancipazione del
Delta del Niger), gruppo ribelle che riesce, oltre a effettuare
rapimenti ai danni dei dipendenti delle compagnie petrolifere
straniere (unica azione questa che può spezzare la censura totale che
attanaglia quest’area), a impossessarsi ogni giorno di oltre
trecentomila barili di greggio, circa il quindici per cento della
produzione totale del Paese. Questo “spillaggio” di greggio dalle
pipeline, il suo rudimentale ma efficace processo di raffinazione e la
rivendita finale al mercato nero locale o il trasporto nei Paesi
vicini è detto bunkering.

Foto di Damiano Rossi

Sono le 6 di mattina e qualcuno bussa alla mia porta. E’ Vincent e
insieme a lui c’è un nuovo taxista. E’ il quinto giorno e finalmente
esco dall’albergo. Sarà così per i restanti quattro giorni. Ogni mattina partiremo alla volta di non so dove, sempre con un taxista diverso e un’auto diversa. Usciti dal centro città ci inoltreremo su strade ai cui lati non ci sarà altro che foresta. L’unica cosa che so è che dovrò tenere ben nascosta la mia macchina fotografica sotto il sedile del guidatore e che se verremo fermati dalle pattuglie anti-rapimento (ve ne è una ogni 20 chilometri circa) dovrò dire, con un foglio alla mano, che sto andando a una conferenza per conto della ONG…mica posso dir loro che sto andando a incontrare quelle stesse
persone che loro stanno cercando e dalle quali pensano di difendermi!
Verremo fermati, più di una volta e sempre la passeremo liscia. Ma non
è tanto il posto di blocco quel che mi preoccupa, ma la velocità con
la quale il nostro autista di turno sfreccia in quei 20 chilometri di
strada libera…alla mia domanda sul perché vada così veloce mi dice che
ha paura che qualcuno con un’auto esca dagli alberi a lato, ci tagli
la strada e mi rapisca…bene, penso io, vai pure veloce!
Dopo due ore d’auto lasciamo la strada principale e ci inoltriamo in
stradine non asfaltate, dove di tanto in tanto troviamo bambini che ci
bloccano la strada con tronchi e rami e li tolgono solamente se
paghiamo loro una piccolissima somma di denaro. Ma la cosa che più mi
lascia stupito è che ai lati della strada ci sono piccoli banchetti di
legno sui quali ci sono bottiglie di plastica che contengono
benzina… eh sì, da queste parti i distributori non sono sempre
aperti…ma come è possibile?

Risalendo il fiume

Foto di Damiano Rossi

La Nigeria è il settimo produttore mondiale di petrolio, il primo per l’intero continente africano e l’oro nero costituisce da solo il 95% degli introiti delle
esportazioni e l’80% delle entrate totali. Ma, paradosso tra i paradossi, la benzina il più delle volte scarseggia e si è costretti a importarla da altri Paesi, perché le poche raffinerie presenti in loco sono per la maggior parte dell’anno fuori uso. Ecco spiegato il motivo.
E poi tutto a un tratto mi si apre dinnanzi lo spettacolo dell’estuario del fiume Niger…e davanti a me una piccola imbarcazione a motore con qualcuno incappucciato (di cui non saprò mai il nome e che mai vorrà farsi fotografare) che mi aspetta, con un AK-47 tra le braccia e che è pronto a farmi da guida per incontrare gli uomini del MEND…durante quei giorni viaggeremo sempre su imbarcazioni leggere, tra le intricatissime paludi di mangrovie e saranno diversi i ribelli con cui avrò la fortuna di parlare. Ognuno di loro avrà una propria storia da raccontare…
“Sono cresciuto sentendomi ripetere da mio padre che prima o poi il
petrolio avrebbe portato ricchezza anche alle nostre famiglie, ai
nostri villaggi, alla nostra gente. Così non è stato e mi sono
stancato di aspettare, di credere in false promesse e di dar retta a
politici corrotti. Se non vogliamo morire dobbiamo armarci e
riprenderci quel che è nostro”, mi dice Patrick, col viso nascosto
sotto a una maglia nera che funge da passamontagna, portavoce di un
primo gruppo.
Nel 1971 il governo nigeriano nazionalizzò l’industria del petrolio.
Con la creazione di una joint venture, il Paese più popoloso d’Africa
con i suoi centottanta milioni di abitanti e oltre duecentocinquanta
gruppi etnico-linguistici, nel nome della Nigerian National Petroleum
Corporation (NNPC), possiede così dal cinquantacinque al sessanta per
cento delle operazioni petrolifere delle multinazionali sulla
terraferma. Le enormi entrate derivanti da quest’accordo sono così
cresciute dagli iniziali duecentocinquanta milioni di dollari l’anno
agli oltre sessanta miliardi registrati nel 2005 per poi continuare ad
aumentare anno dopo anno.

Il delta brucia

Foto di Damiano Rossi

Di tutti questi petroldollari, però, le comunità del Delta non ricevono che briciole o promesse mai mantenute, continuando così a vivere nella miseria.
Se prima la gente di questi villaggi faceva della pesca e dell’agricoltura le principali e più importanti attività economiche e di sussistenza, ora la situazione è cambiata. L’intero ecosistema è
stato progressivamente distrutto dall’attività estrattiva. Quasi più
della metà dei settemila chilometri quadrati di foresta di mangrovia
(sui novemila chilometri quadrati complessivi presenti in tutto il
globo terrestre) sono stati distrutti, sterminate le specie ittiche,
decimata la fauna, inquinato il suolo coltivabile. Stroncato il
sistema produttivo alla base della sopravvivenza di questi popoli.
“Non possiamo più pescare. Gli impianti, oltre a inquinare l’acqua,
hanno anche cambiato il moto ondoso, causando l’erosione della costa e
costringendo i pesci a spostarsi in acque più profonde. Per arrivare
così al largo avremmo bisogno di motori più potenti per le nostre
piccole imbarcazioni, ma non possiamo permettercelo. Ora nei nostri
villaggi arriva pesce surgelato, pescato altrove!”, così parla
Vincent, trentadue anni, incontrato in un piccolo villaggio
dell’Ogoniland. Qui vive con la moglie e i tre figli. Queste persone
si trovano a combattere un inquinamento criminale dovuto alle
centinaia di perdite di greggio da pozzi e condutture arrugginite e
usurate che, il più delle volte, corrono in superficie perché dalle
compagnie è considerato troppo dispendioso l’interramento. “Vivevo di
pesca e agricoltura. Ora i pesci stanno morendo e il campo dove
coltivavo è ridotto a una nera palude. Cosa possiamo fare? Le grandi
compagnie petrolifere arrivano nei nostri villaggi, espropriano le
nostre terre e in cambio promettono di aiutarci, di costruire scuole,
ponti e strade. Ma le uniche strade che costruiscono sono quelle che
servono loro per gli spostamenti da un sito all’altro, pochi
chilometri di asfalto in un mare di fango”, mi dice Henry, incontrato
in un villaggio a trenta chilometri da Yenagoa. Associato a tutto
questo vi è anche il fenomeno del gas flaring: durante il processo di
estrazione, infatti, il petrolio esce dal terreno molto spesso
associato a gas; quest’ultimo, sotto la superficie, è dissolto nel
petrolio ma quando è pompato fuori ritorna alla forma gassosa. In
Europa, il novantanove per cento del gas viene utilizzato oppure
iniettato nuovamente nel terreno, nel delta del Niger no, troppo
dispendioso e senza alcun ritorno economico. Ecco quindi queste torce
a cielo aperto che da quasi sessant’anni continuano ininterrottamente
a bruciare, rilasciando nell’aria e quindi nel terreno tossine e
sostanze cancerogene che, oltre a distruggere l’ambiente, stanno
provocando tumori e altre gravi malattie alla gente del posto. “Non
credo sia una semplice casualità il fatto che già due componenti della
mia famiglia si siano ammalati ai polmoni e molta gente che conosco
abbia bronchiti e asma. Respiriamo greggio, mangiamo greggio, beviamo
greggio”, conclude così Henry, mentre guarda sconsolato il campo sul
quale un tempo poteva coltivare e sfamare così la moglie e i due
bambini.
Le autorità nigeriane non hanno mai esercitato un vero e proprio
controllo sulle modalità di estrazione del petrolio e sulle
conseguenze ambientali. Così le compagnie petrolifere, tra tutte
l’anglo-olandese Shell che, peraltro, nel corso di un processo ha
ammesso di aver stipendiato, fornito supporto e acquistato armi per
dotare la polizia nigeriana dell’attrezzatura necessaria alla difesa
dei propri impianti, continuano indisturbate a espropriare terre,
costruire impianti, inquinare, distruggere e trasformare queste aree
in una sorta di loro riserva industriale.

“Sappiamo che una puntura sul naso ci fa più male di un terremoto a distanza di chilometri che uccide molta gente. Sono convinto che la tutela dell’ambiente in Ogoniland debba interessare più a me che alla Shell International nei suoi lussuosi uffici sulla riva del Tamigi a Londra. Ma non posso accettare quelle sue arie di rispettabilità, perché tutto quel lusso a Londra è una condanna a morte per i bambini e la mia gente di Ogoniland”, così parlava Ken Saro Wiwa…

“Leave our oil under!” (Ken Saro Wiwa)

Foto di Damiano Rossi

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