Johan Van der Velde: di tulipani, ciclamini e neve a giugno

Il Destino, il Caso e in mezzo il Gavia

Stefano Medaglia
Carollo & Malabrocca Cycling Club
5 min readFeb 11, 2018

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Siamo in un camper, fuori nevica. È il 5 giugno, ma fa freddo e nevica. D’altronde sulle Alpi, a 2600 metri di altitudine, è così: fa freddo anche a giungo. Un olandese sta bevendo un tè, forse una grappa, per scaldarsi.
Johan Van der Velde, il suo nome; ciclista, la sua professione.
Quel camper non è suo, non sa nemmeno bene di chi sia: lui stava morendo di freddo e qualcuno l’ha soccorso, tutto qua. Un olandese in maglietta e pantaloncini nel bel mezzo di una bufera, in bicicletta su un passo alpino, tutto qua.

Devono concorrere una serie di cause per fare sì che un evento accada esattamente in un determinato modo. Quindi un complesso ordine e connessione di cause si deve essere intrecciato per fare sì che Johan si trovi proprio in quel camper, proprio in quel momento, mentre fuori c’è un tempaccio.

Si sa, i Paesi Bassi sono un posto strano: dove non arriva la natura, ci pensa l’uomo, a modo suo, chiaro. Quindi i polder: lembi di terra sottratti al mare con tanto ingegno e complesse opere idrauliche. Se metà del Paese è sotto il livello del mare, la “montagna” più alta dei Paesi Bassi è invece il Vaalserberg, con la bellezza di 321 metri s.l.m. A malapena una collina, insomma. Non un luogo particolarmente montuoso, i Paesi Bassi, insomma.
Da lì, però, veniva Johan, che abbiamo lasciato in un camper parcheggiato su una strada alpina, mentre fuori c’è una tempesta di neve.

Capelli un po’ alla Cruijff un po’ alla Mick Jagger, Johan è forte un po’ in tutto, ma in nulla in particolare.

D’altronde il 5 giugno del 1988 la 14a tappa del Giro d’Italia non passava nei bassi e piatti polder olandesi, ma proprio sulle Alpi, più precisamente sulle Alpi Retiche. 120 km da Chiesa in Valmalenco a Bormio, passando per Aprica e, soprattutto, Gavia. Tappa tutto sommato corta, ma dura.
Pendenze impegnative e strada a quel tempo ancora sterrata: il Gavia, con i suoi 2621 metri è uno dei passi alpini più alti, e uno dei più duri da percorrere in bicicletta.

Il 1988 è la seconda volta che il Giro passa sul Gavia dopo il 1960 e l’impresa di Gamba Secca, al secolo Imerio Massignan: primo sul Gavia e poi secondo all’arrivo, dopo ben tre forature, dietro l’Angelo della montagna Charly Gaul. Sfortunato Imerio, ma questa è un’altra storia.

Qui sulle Alpi fatte di vette appuntite, strette valli e ripidi valichi, si trova un olandese, nato e cresciuto in un Paese strappato a fatica al mare. Nato nella terra dei tulipani, indossa una maglia ciclamino.

Capelli un po’ alla Cruijff un po’ alla Mick Jagger, Johan è forte un po’ in tutto, ma in nulla in particolare. Se sei un corridore così, o sei un fenomeno e lotti per la classifica generale, oppure ti accontenti di lottare per obiettivi — si fa per dire — minori: tappe e altre classifiche.
Ecco, Johan era un gran bel corridore, ma senza la classe dei migliori: così aveva deciso di competere per la classifica a punti. E questo gli stava riuscendo molto bene: saggia decisione. L’olandese della Gis Gelati quel giorno indossa la maglia ciclamino, simbolo del leader della classifica a punti. Che bella la maglia ciclamino, per fortuna che l’hanno rimessa.

Se sull’Aprica piove, sul Gavia nevica, e fa un gran freddo. C’è chi è più preparato, più attrezzato, più coperto, e chi meno. Johan meno. Ha solo la maglietta ciclamino a maniche corte, niente in testa e nessun guanto. Non ha nemmeno il nastro sul manubrio: mani nude contro il metallo gelido. Chissà che freddo. Ma questo non lo frena di certo, anzi: Johan attacca. E attacca talmente bene che stacca tutti e resta solo. Così bene che è primo sul Gavia.

Viene freddo solo a guardarlo.

Date le condizioni così estreme, per qualche minuto c’è stata la possibilità che la tappa finisse proprio sul Gran Premio della Montagna. Mentre Johan arriva in cima, stremato e infreddolito, gli organizzatori stanno discutendo proprio di questo. Scendere in quelle condizioni, con quel tempaccio, su quella strada, non è una cosa banale; per di più i corridori e le squadre non sembrano molto preparati.

Ci vogliono una serie di cause, una complessa connessione di eventi per fare sì che qualcosa accada proprio in un determinato modo. Dallo strano territorio dei Paesi Bassi, dove Johan è nato, alla neve a giugno sulle ripide strade alpine, dagli 0 ai 2600 metri di altitudine. Ma questo non sempre basta: a volte ci vuole qualcosa in più.

In principio era il Verbo, scrisse Giovanni, ma Goethe lo corresse: in principio era l’Azione. Nella fisica epicurea è il clinamen, deviazione degli atomi dal determinismo meccanicistico. E qualcosa di simile ce lo dice anche Heisenberg: le leggi naturali non conducono a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo. Non basta una serie di cause perché qualcosa accada in un determinato modo, ci vuole qualcosa in più: se volete, chiamatela libertà in un mondo causalmente determinato.

Sul Gavia nevica, e fa un gran freddo. Johan è in maglietta e pantaloncini. Ma questo non lo frena di certo, anzi: parte in picchiata verso Bormio. Come se Bormio fosse lì sotto, ma mancano ancora quasi 25 km.

E così, ora, lo ritroviamo in quel camper in cui lo avevamo lasciato. Sta bevendo un tè, forse una grappa, per scaldarsi. A un certo punto della discesa si è fermato, ha appoggiato la bici al paracarro ed è entrato in quel camper al bordo della strada.
I suoi colleghi si sono coperti, hanno messo una mantellina, dei guanti, dei cappelli, degli occhiali, qualunque cosa potesse essere di aiuto per non morire di freddo. Perché, finché si sale, si fa fatica e ci si scalda, ma quando dopo si scende non è per niente semplice e bisogna coprirsi.
Johan no. Arriva sul Gavia e si lancia in discesa, così, in maglietta e pantaloncini.

Così, giusto per capire le condizioni di quella giornata.

Johan poteva scegliere di essere passivo, far sì che decidesse qualcun altro al posto suo, fare in modo che altre cause esterne scegliessero del suo destino. E chi lo sa, magari gli organizzatori avrebbero accorciato la tappa e lui avrebbe vinto.
Oppure Johan poteva scegliere di essere causa attiva di ciò che gli sarebbe accaduto. Cioè libero.
Manco a dirlo scelse questa seconda opzione: ruppe gli indugi, allontanò quelli che cercavano di fermarlo e si buttò in picchiata verso il fondovalle, nel bel mezzo di una bufera di neve.

Johan arriverà a Bormio solo 46' 49" dopo il primo. Taglierà il traguardo 127°.

Ah, quasi dimenticavamo: quel giorno ha vinto un altro olandese, ma il suo nome non lo diciamo nemmeno, ché in fondo non è così importante.

“Quel metro di neve sulle Lepontine Retiche, affrontato con una bicicletta al posto della slitta, vale quanto l’alpinismo estremo senza bombole d’ossigeno tra le inviolate vette del Pamir.”

Pezzone degli Offlaga Disco Pax.

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