Un uomo solo al comando?

Stefano Medaglia
Carollo & Malabrocca Cycling Club
7 min readJan 17, 2018

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“Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia”, così diceva Pantani. Allora, se Pantani aveva ragione — e ragione l’aveva eccome — dovremmo lodare non chi arriva primo, ma chi arriva ultimo, ché di fatica ne ha fatta di più.

P rendete il 161esimo classificato al Giro d’Italia 2017. Giuseppe di nome, Fonzi di cognome: ultimo classificato. Lui ha corso una tappa in più. Tom Domoulin ci ha impiegato 90 ore, 34 minuti e 54 secondi a percorrere i 3.609,1 km delle 21 tappe, alla media di 39,843 km/h. Giuseppe Fonzi 96 ore, 23 minuti e 34 secondi. Alla media del vincitore praticamente 225 km di differenza: una tappa in più. Per 5 ore e 48 minuti in più dei primi ha tenuto le sue chiappe sulla sella e le scarpette agganciate ai pedali. Mica poco, èh! Quando gli altri erano già a festeggiare sul palco, oppure a riposare nei bus, lui — insieme agli ultimi — era ancora intento a pedalare.

Spesso si dice che il secondo è solo il primo degli ultimi. Per una sorta di parallelismo invertito dovremmo considerare l’ultimo come il primo tra chi non è nemmeno arrivato: chi ha vinto solo per essere rimasto in gara, lottando contro il tempo massimo, contro cadute e malattie, tra una scorribanda e l’altra all’ammiraglia a fare incetta di borracce. Vi pare poco?!

Ma poi, diciamocelo, è davvero così importante chi vince?

Nel ciclismo d’altronde a vincere è uno solo. Si sa: si parte in tanti, ma solo uno passa per primo il traguardo. Non è l’unico sport ad essere così, certo, ma è pur sempre un fatto importante. Ci sono, certo, più gare nella gara: tappa, maglie, gpm e traguardi volanti; ma chi vince non è che una minuscola frazione del gruppo. C’è tutto un mondo, un turbinio di gambe, un mare di sudore oltre i primi, oltre i campioni. Se davvero contassero solo quelli che vincono, beh, non ci sarebbe molto da dire.

Prendete i tifosi che vanno a vedere una corsa. Loro non sembrano troppo interessati a chi vince, non lo vedono nemmeno: vedono chi passa, nell’ordine in cui passa in quel momento della corsa. Spesso lo scoprono solo dopo, chi vince, a gara finita da un pezzo. Ma anche nel mondo delle dirette, dello streaming, delle app, c’è chi si ostina ad andare a vedere i corridori pedalare. Solo pochi secondi: passano veloci e poi scompaiono dalla vista.

Chiediamocelo ancora: è davvero così importante chi vince?
Siamo abbastanza convinti che oltre la vittoria ci sia di più, che ci sia dell’altro oltre i campioni fortissimi e imbattibili.

Riguardo questo, c’è chi è venuto sulla terra a indicarci la strada, come una sorta di messia. A indicarci la struggente bellezza della sconfitta. La buona novella degli ultimi: andare in fuga al contrario.

D’altronde si sa: Italia, popolo di santi, poeti e navigatori. E morti di fame. Perché noi italiani, quando bisogna inventarsi un mestiere, quando bisogna inventarsi qualcosa per tirare a campare, siamo i migliori. Non c’è partita.
Ora il ciclismo per noi può essere molte cose: attività fisica, passione, agonismo e chissà cosa. Ma anni fa per molti era tutt’altro: sopravvivenza. Sopravvivenza sulla sella, dallo striscione di inizio a quello di fine corsa, perché le corse erano dure. E sopravvivenza nella vita, perché questa era ancora più dura delle corse. E nell’Italia del dopoguerra a maggior ragione.
Anche per i campioni era così, pensate a Bottecchia: a lui la bicicletta interessava sì e no. Ottavio di nome, ottavo figlio: lui doveva vincere per mantenere la famiglia numerosa, correva solo “per i schei”.

Però non tutti avevano la classe di Bottecchia. Negli anni ’40 e ’50, poi, era quasi impossibile vincere davanti: troppa concorrenza, troppi fenomeni. Coppi, Bartali, solo per dirne due; ma anche altri come Louison Bobet, gli svizzeri Koblet e Kübler o il Leone delle Fiandre Fiorenzo Magni.

Così l’invenzione: vincere al contrario. Dietro. Andare in fuga. Ma nelle retrovie.

Chi? Luigi Malabrocca, nato a Tortona il 22 giugno 1920.
Luisin, detto il Cinese.
Malabrocca è il Messia, uno a cui l’agonia piaceva allungarla — lui andava in fuga al contrario, in fondo al gruppo.
Il Campionissimo degli ultimi. Giro 1946: primo Bartali Gino, ultimo Malabrocca Luigi. 1947: primo Coppi Fausto, ultimo Malabrocca Luigi.
In più ci sarebbe l’edizione del 1949, ingiustamente sottrattagli dagli organizzatori: primo Coppi Fausto, ultimo Carollo Sante, ma doveva essere ancora Malabrocca Luigi. Ingiustizia da far invidia all’esclusione di Sagan dal Tour 2017, ma questa è un’altra storia.
Il Giro del 1949 è quello della Cuneo-Pinerolo, per intenderci, ma anche, e soprattutto, quello dell’immortale sfida per la maglia nera. Perché se Malabrocca è stato il Coppi degli ultimi, Carollo è stato il suo Bartali. Rivali, sì, ma complementari.

“Un uomo solo al comando, Malabrocca, però al contrario”
Marco Pastonesi

Luisin è per antonomasia l’incarnazione di quella maglia nera nata un po’ per gioco, ma poi diventata una cosa serissima. C’erano in palio soldi, insaccati, casse di vino, sigarette, cioccolato, forme di formaggio: un po’ di tutto. La maglia verrà assegnata ufficialmente solo tra il 1946 e il 1951, portata orgogliosamente dall’ultimo in classifica generale. Ora non resta che un modo di dire, e un lieve ricordo delle imprese di chi si nascondeva per far passare il gruppo.

Ultimo, sì, ma con una certa classe.

Che poi Malabrocca mica era una schiappa, beninteso. Le sue corse le ha vinte, già, e anche di abbastanza importanti. Nel cross, poi, si è vinto due campionati italiani, nel 1951 e 1953.
Gregario, ruota veloce, specializzato nella vittoria dei traguardi volanti con una tecnica impeccabile: con l’amico Ausenda faceva le “americane”, cioè delle volate combinate per spartirsi il premio. La tecnica era semplice e geniale: Malabrocca si metteva a ruota del compagno per poi, in vista del traguardo, afferrarlo e spingersi in avanti, sopravanzando in questo modo la concorrenza.

Però è inutile che stiamo qua a discutere: le sue vittorie contano poco o nulla se paragonate al suo genio, se paragonate alla rivoluzione di cui è l’iniziatore.

Malabrocca è Copernico. Copernico ha invertito il centro dell’Universo: il centro diventa periferia. Così Malabrocca ha invertito il sistema solare del ciclismo: i primi non sono più i più importanti, anche loro diventano periferia, piccoli pianeti erranti. Sulle strade si fa il tifo per i campioni, chiaro, ma poi si aspetta anche lui, l’operaio, il contadino, il proletario del gruppo.

Malabrocca è Nietzsche. Ha distrutto gli idoli: non a colpi di martello, ma di fughe nelle cisterne, spinte dei tifosi, soste nelle taverne e furti nelle botteghe lungo la strada.

Malabrocca è Freud. Ci ha insegnato, una volta per tutte, che non c’è solo chi vince, chi appare, la coscienza imbellettata. No: dietro c’è un mondo intero, popolato da forze sconosciute, forze brute, da persone che permettono ai primi di arrivare primi. I gregari sono l’inconscio del ciclismo. Non c’è solo l’Airone Coppi che vola delicato sulla sua Bianchi, nella sua maglia bianco-celeste. C’è anche il fango, le ruote bucate, la fatica di chi arranca in coda al gruppo.

Malabrocca è Einstein. Ha portato nel ciclismo la teoria della relatività: la velocità e il tempo sono relativi all’osservatore. Ecco che se cambiamo il sistema di riferimento, Luisin stacca Coppi, lascia Bartali al palo. Gli ultimi saranno i primi, basta ribaltare la classifica. Relatività ristretta e generale: ultimo alle tappe e maglia nera in classifica generale.

“Te cinese sei uomo di gran fondo. A 35 all’ora arrivi in capo al mondo, puoi pedalare per un mese di seguito, a 45 però sei del gatto, addio, per te c’è il semaforo rosso.”
Così diceva Fausto a Luisin

Malabrocca era — ed è — il simbolo di quella classe operaia che va in paradiso (o almeno ci andava una volta, che ora in questo mondo qua non si capisce più bene).
Sì, bravissimi Coppi e Bartali, tanto famosi e carismatici da dividere l’Italia in due, chi per l’uno e chi per l’altro. Ma la gente a bordo strada non poteva che immedesimarsi in uno come il Cinese. E lo aspettava per salutarlo.
A maggior ragione considerando che il ciclismo al tempo era ancora e soprattutto uno sport popolare, in Italia di gran lunga il più celebre, anche più del calcio. Allora era naturale che l’operaio, il contadino, l’artigiano si riconoscessero in chi faceva più fatica di tutti: nella maglia nera. Gli ultimi e l’ultimo.

Così Luisin ci ha aperto gli occhi, ci ha fatto allargare i confini del nostro orizzonte. Non ci sono solo i primi, i campioni, i vincenti. Non ci sono solo Coppi, Bartali, Magni: ci sono anche Malabrocca e Carollo.

Ecco la fatica sul volto dell’idolo dei diseredati

I vincenti vengono già lodati da tutti. Ci pensino altri ad elogiarli.
Noi, eredi del Cinese, ci carichiamo del compito di lodare gli ultimi — sì, proprio gli ultimi, quelli che perdono.

Lasciamo ad altri il narrare le gesta eroiche, le imprese impossibili, la purezza atletica. Noi ci occupiamo di quelli che barcollano, che zigzagano, che incespicano sulla bicicletta.
Perché a noi piacciono quelli che soffrono, quelli che fanno fatica. Mica quelli a cui viene tutto facile.
Pedalata fluida, efficiente — in una parola — bella? No grazie. Spalle immobili, schiena dritta? Ma per piacere.

Se vi interessano i vincenti, guardatevi la tv.
Se non capite la struggente bellezza della sconfitta, leggetevi gli ordini d’arrivo.

Raccontare gli ultimi, gli sconfitti, i perdenti, come se fossero i primi, i vincitori, i trionfatori. Mestiere quasi evangelico, ma non esageriamo troppo, che altrimenti si fa brutta figura. Perché in fondo non c’è nulla da redimere, non c’è nessuno da salvare: solo qualche storia da raccontare.

Se volete leggervi qualcosa su Malabrocca, Carollo ed il ciclismo del dopoguerra, leggetevi: Benito Mazzi, Coppi, Bartali, Carollo e Malabrocca: le avventure della maglia nera.
L’idea di Malabrocca come Einstein del ciclismo l’ho letta da Marco Pastonesi in
Polvere, vol.2, Velocità.

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