Montecampione: il tempo che passa

Una salita, un residence diroccato, un murales e Marco

Stefano Medaglia
Carollo & Malabrocca Cycling Club
6 min readJul 19, 2019

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Montecampione è un posto strano: basta esserci stati anche solo una volta per capirlo. Non è questione di opinione o di sensazioni personali, è proprio un posto strano. E anche abbastanza brutto.

Ci sono già stato a Plan di Montecampione in bici, ma è passato un po’ di tempo e mi va di rifare questa salita. Stavolta ho deciso: parto da casa mia. Fanno 150km per più di 2000m d+, che per me è un giro impegnativo, considerando che sono solo e non posso sfruttare nemmeno la misera scia di un compagno.

Plan di Montecampione, questo il nome esatto (Montecampione è il nome della località sciistica) è un posto strano: un residence abbandonato a quasi 1800 metri, in mezzo ai prati e alle piste da sci che, beh, l’estate sono dei prati con dei tralicci nel mezzo.

Parto la mattina nemmeno troppo presto, passo dalla Franciacorta e risalgo il lago da Iseo fino a Pisogne. Inizio la salita da Pian Camuno e mi dà il benvenuto un murales fatto probabilmente in occasione del Giro d’Italia del 2014. Fin da subito non sento la gamba buona: ad un certo punto mi viene anche un mezzo crampo, ma è tutto sotto controllo e continuo con un ritmo che non è nemmeno così male.
Il primo tratto di salita è il più “civilizzato”, la strada sale e si attraversano paesini con persone che tagliano i prati o chiacchierano per strada. Superato Alpiaz la situazione cambia e non incontro praticamente più nessuno, nemmeno i motociclisti onnipresenti sui passi alpini. Incontro solamente qualche ciclista: qualcuno lo supero, qualcuno mi supera.

Montecampione è famoso quasi più per una somma di coincidenze che per dei fatti oggettivi. La stazione sciistica è decaduta. La strada non porta da nessuna parte, paesaggisticamente non è un granché. La salita, in sostanza, sono 20km per 1500 metri di dislivello, quindi da un punto di vista atletico è interessante, soprattutto considerando che è facilmente raggiungibile e non incastrato su una montagna austera e innevata. Questo però non basta per renderlo famoso. Se anche si vanno a vedere i passaggi storici del Giro si resta un po’ delusi. Solo 3: nel 1982 con arrivo nel paese e vittoria di Hinault, nel 1998 con arrivo a Plan di Montecampione e vittoria di Pantani e nel 2014 con vittoria di Aru. Niente a che vedere con le salite leggendarie del Giro e del Tour, con annesse foto storiche di Coppi e Bartali e di quel ciclismo eroico.
Insomma, facendola breve, il motivo per cui Montecampione è famoso è solo uno: Marco. Marco e quegli scatti ai danni del povero Tonkov, che a una certa capitolerà, permettendogli di porre le basi per la doppietta Giro-Tour.

“Mi sono detto vai Marco, o salti tu, o salta lui… E’ saltato lui.”

Sono già stato qua e mi ricordo abbastanza bene l’ultimo tratto: decido di fare una specie di forcing e alzo il ritmo, per quanto mi è possibile. Mica come Pantani, diciamo che vado un po’ più forte rispetto a prima.
Arrivo in cima e c’è un parcheggio e una rotonda: sì, una rotonda. Un parcheggio, poco più sopra una rotonda e un residence diroccato: ecco a voi Plan di Montecampione.

Ritrovo un ragazzo che mi aveva chiesto indicazioni e superato sul tratto più ripido quando non ne avevo più, poco dopo arriva un altro ciclista che invece avevo incrociato sul primo tratto di salita. Plan di Montecampione sembrerebbe appannaggio esclusivo dei ciclisti, se non fosse che in numero siamo schiacciati dalle vere padrone di questo luogo: le mucche.
Un camion sta scaricando delle brune alpine sotto gli occhi vigili della forestale giunta sul posto grazie alle performance di un pandino verdone fiammante. Un ragazzo di origine africana che fa il pastore con la maglia del Milan e un border collie aggiunge un pizzico di surrealismo al tutto, come se ce ne fosse bisogno.

Prati verdi, impianti sciistici in estate, un residence che cade a pezzi, due so tre ciclisti con le tutine di lycra attillate, un pastore con la maglia del Milan, qualche cane, la forestale col pandino e una cinquantina di vacche.

Qualcuno scriveva che “il tempo che passa fa malinconia”. Non c’è modo migliore di dirlo. Qua tutto sembra esistere solo per rimandare ad un passato che fu, con i suoi fasti, i suoi colori sgargianti, la sua allegria. Qua niente è quello che è, è solo la traccia di ciò che è stato, come quei ricordi dell’infanzia felice, delle vacanze, dei pomeriggi passati a mangiare i ghiaccioli guardando la tv.
Guardando Marco e quel suo sguardo triste ma deciso. Viene malinconia a pensare alle sue imprese sgranate sui televisori col tubo catodico, a pensare all’epilogo triste della sua carriera e della sua vita. A pensare a quel suo sguardo triste, un po’ come quello di Ayrton Senna, altro mito degli anni ’90 con cui condivide l’affetto dei tifosi e una fine tragica.
A pensare al tempo che passa per noi che siamo rimasti, e guardiamo ancora indietro al passato che si sbiadisce sempre di più, come i murales lungo la strada che porta a Plan di Montecampione.

Che poi ad essere precisi, io mi ricordo poco o niente di Pantani. Ricordo poco, ma i miei primi ricordi ciclistici restano legati a Pantani e Cipollini, questi due esseri mitologici ed eterei. Non veri e propri atleti, quasi più delle condensazioni di idee: la resistenza e la potenza. Due nomi che servivano a fissare dei confini, delle sagome, anche se poi i contenuti per me erano molto vaghi. Però questi ricordi me li porto sempre dietro, insieme al rammarico di non aver mai davvero vissuto il Pantani nei suoi anni migliori.

Arrivato in cima “non tiro più né coppe né bastoni” e mi siedo su un muretto, appoggio la bicicletta cercando di evitare i vetri rotti a bordo strada. Ammiro, mentre ne sono parte, il surrealismo della situazione. Sto lì un attimo, ma nemmeno troppo: qua non c’è niente. Ho pure finito l’acqua e non ho idea di dove trovarla se non nel paese qualche chilometro più sotto.
Tempo di respirare, faccio una foto al residence, chiudo la maglietta, metto gli occhiali, aggancio le scarpette e giù per la strada che sembra più gravel che asfalto.

Se ci penso, ci sono due immagini che rendono bene l’esperienza di pedalare a Montecampione: il residence decadente e diroccato e un murales dedicato a Marco, ormai scolorito e aggredito da muschio e lichene. Decadente anche il murales, pure lui.
Il tempo non passa solo per i fatti reali, passa anche per i nostri ricordi dei fatti. Non invecchiamo solo noi, invecchiano anche le tracce che lasciamo dietro di noi. Quel murales è nel punto esatto in cui il Pirata scattò per l’ultima volta, lasciando la compagnia di Tonkov. Appena dopo una galleria, sulla destra della strada.
Mentre scendo mi fermo per fargli una foto.
Alla fine se sono qui è anche per lui.

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Carollo & Malabrocca Cycling Club
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“Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia”, così diceva Pantani. Allora, se Pantani aveva ragione — e ragione l’aveva eccome — dovremmo lodare non chi arriva primo, ma chi arriva ultimo, ché di fatica ne ha fatta di più.

Stefano Medaglia
Stefano Medaglia

Written by Stefano Medaglia

Grimpeur da pianura, finisseur da discesa, rouleur da salita.