Breve storia di un’emozione nascosta
Pubblichiamo in esclusiva alcuni scatti provenienti da Invisible me, progetto fotografico realizzato da Ana Avetisian.
Circa una settimana ho conosciuto Ana Avetisian e il suo progetto Invisible me. Le sue foto, tutte col volto nascosto e con una prevalenza del nero sul bianco, sono autoritratti che a primo impatto lasciano una traccia fedele ai lavori di Francesca Woodman. A guardarle senza conoscere la sua storia, non si immaginerebbe mai che Ana sia così giovane e che abbia già attraversato momenti delicati nella sua vita.
Ana Avetisian è nata nel 1997 in Georgia, paese che precedentemente era parte dell’immenso impero URSS. Mi ha raccontato che nel 2010 si è trasferita in Italia con tutta la sua famiglia e che questo spostamento dal luogo che chiamava casa le è costato un distacco da ciò che la Georgia rappresentava per lei, soprattutto le ha permesso di creare un modo per sopravvivere al dolore che il cambiamento drastico comporta.
Leggendo la storia di Ana e della consapevolezza a cui è giunta attraverso Invisible me, mi sono resa conto che ancora una volta stavo sbattendo il muso contro la storia di Agota Kristof. È come se ad ogni scatto osservato arrivassero in modo naturale e spontaneo le parole di questa scrittrice che ha sofferto così tanto il distacco dalla sua terra natale.
Il filo conduttore delle opere di Agota Kristof — che poi è anche quello delle foto di Ana — rappresenta l’eterno scontro tra la cruda realtà e la fragilità del mondo interiore. In Invisible me vedo le notti insonni passate davanti alla finestra, fumando una sigaretta in attesa che un segno dall’esterno arrivi a dare la scintilla dell’ispirazione.
Riesco a percepire l’attesa spasmodica del poggiare la testa sul cuscino per sognare ancora una volta i luoghi lasciati alle spalle, le persone che non vedi ormai da anni e la lingua, quella che col passare degli anni utilizzerai sempre meno per poter comunicare con la gente di un altro paese che, no, il georgiano proprio non lo capisce.
Quando Ana è arrivata in Italia pensava di essere in un altro mondo. Mi verrebbe ancora una volta di azzardare un paragone con il trasferimento forzato di Agota Kristof in Svizzera in seguito alla Rivoluzione ungherese. Dover spiegare alla gente con il minuscolo vocabolario a sua disposizione che essere forzati a vivere in un’altra nazione, rendersi conto di dover imparare un’altra lingua e dimenticare la propria, è una punizione più che una possibilità di sopravvivere rispetto a chi in quel posto c’è rimasto.