Due passi

Notti insonni trascorse per le vie di un quartiere qualunque, facendo i conti con il passato e l’idea di quello che è stato.

Ada Zegna
Casa di Ringhiera
4 min readMay 19, 2017

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Harry Gruyaert

Non riuscivo a prendere sonno, così mi sono alzato, ho infilato i pantaloni, le solite scarpe, la giacca nera, ho preso le chiavi e sono uscito di casa. Erano le quattro di notte, o le quattro del mattino, non so mai catalogare questa parte difficile e fragile della giornata, con il nero del cielo e gli uccelli già svegli che interrompono il silenzio. Fuori il tempo era strano, sia perché il silenzio non è mai effettivamente silenzio, sia perché quella sera aveva piovuto e sopra la mia testa c’erano ancora stracci di nuvole. Sembravano vecchi occhi stanchi gonfi di lacrime, indecisi se piovere ancora sulla strada sporca e umida. Ma l’aria era tersa e pulita, il vento ostinato che si pianta nelle narici odorava di piscio e di un assaggio di estate, di una stagione che aspetta il suo turno impaziente, seminando qua e là una memoria lontana o un ricordo ancora da vivere.

Il mio quartiere è scuro, anche di giorno, e mi piace camminarci da solo come se fosse mio, quasi fosse una grande stanza condivisa con tutti, e guardare ingordo ogni cosa che cambia: le lattine di birra sui marciapiedi, l’insegna rotta del piccolo negozio aperto ventiquattro ore, i mozziconi in fondo ai tombini, una prostituta, la gente rumorosa, gli anziani soli. Io tenevo le mani dietro la schiena come faceva mio nonno mentre si passeggiava insieme in un luogo nuovo, ma quando nei finestrini bui rigati di pioggia vedevo la mia ombra, mi imbarazzavo, sembravo un vecchio, allora spostavo le braccia lungo il corpo, in segno di arresa. Mi arrendevo di continuo e non ero destinato a grandi imprese, ne sono sempre stato consapevole, e l’ossessione di trionfare su almeno un aspetto della mia vita mi rincorreva e mi faceva avanzare alla cieca verso un obiettivo qualsiasi, verso una meta invisibile in cui l’unico a gareggiare ero io. Per respingere la consapevolezza di avere dei problemi nel dormire la notte, specialmente con la solitudine del mio letto, avevo la necessità di tenere la mente occupata, e camera mia non bastava più. Sentivo il bisogno di prendere freddo, nel fiato insensibile della città, di prendere nota di tutto quello che mi faceva vivere, fare miei quei dettagli che nessuno notava. La gente, seppur estranea per la maggior parte delle volte, aveva un potere calmante su di me perché mentre la osservavo rubavo parole estranee e me le mettevo in tasca, affezionandomi alle immagini che mi piaceva creare per non pensare a quelle cose torbide come la nostalgia o la mancanza. Allo stesso tempo, però, la odiavo, e coltivavo in me una forma di masochismo nel provare ingiustificate gelosie verso gli altri, verso un uomo con una macchina più bella della mia, o per mano a una donna più reale della mia.

Mi capitava di finire per caso davanti a casa tua e di fermarmi qualche secondo a pensarti tra l’immobilità delle cose materiali, tipo quel portone scardinato, e il mutare delle cose che accadono attorno: forse non era mai una vera e propria coincidenza, forse volevo soltanto ripercorrere gli stessi passi di un me di qualche anno fa, più giovane e arrogante, senza essermi mai reso conto che il presente che vivevo allora non è che una serie di ricordi ossessivi da vivere adesso, come un campo minato. E in questo punto la sensazione di abbandono era inevitabile, indiscutibilmente presente al mio fianco sinistro, più o meno dove stavi tu.

Man mano che camminavo veloce, ritornando da dove ero venuto, il mio cuore palpitava irregolare, fino a quando stremato davanti a un trio di ubriachi mi univo a bere i loro discorsi per smettere di pensare. Quelle stesse parole che riecheggiavano nella mente fino al mattino, quando finalmente esausto rientravo in casa, appoggiavo le chiavi, la giacca, mi toglievo le scarpe e i pantaloni e potevo sognare i nostri abbracci morbidi e violenti.

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