Eccomi: un’altra cosa illuminata

Martina Germani Riccardi
Casa di Ringhiera
Published in
3 min readNov 15, 2016

Nella scrittura di JSF ci sono tutti i tempi possibili: ti fa schizzare dal presente al passato al futuro in una sola parola. Illumina. Scioglie. Scardina dinamiche.

Ci sono mille ragioni per cui potremmo definire Jonathan Safran Foer un genio. Quel genere di genio che ti mancherà quando non scriverà più, o non potrà più scrivere. Quel genere di genio che crea cose che impattano in modo definitivo con la tua vita: ti cambiano.

Non dimenticherò mai le immagini che ha scelto per Molto forte, incredibilmente vicino. Che chiamarle immagini è niente, perché sono visioni: gli uccelli neri, l’uomo che cade dalle torri, l’11 settembre, a testa in giù, e verso la fine risale. Le fessure. L’ordine che salta. Non dimenticherò la sensazione di libertà stilistica che mi ha trasmesso, mentre il treno su cui viaggiavamo andava da Barcellona a San Sebastian, e il cielo era bianco, poi grigio, poi nero — come se ci fosse arrivato il suo inchiostro — e siamo scese che non sapevamo dove dormire, ed ero perfettamente allineata col senso di spaesamento che quella stessa libertà pure mi dava.

Mentre leggi Eccomi (Guanda, traduzione di I.A. Piccinini), hai l’impressione di entrare in qualcosa che è stato scritto in una sera: da un uomo che sta cenando e a un certo punto si alza da tavola perché ha questa urgenza, apre il computer e inizia a riempire un foglio bianco. Poi ho saputo che a finirlo ci ha messo undici anni.

Jonathan Safran Foer

Nella scrittura di JSF ci sono tutti i tempi possibili: ti fa schizzare dal presente al passato al futuro in una sola parola. Illumina. Scioglie. Scardina dinamiche. Ti fa chiedere Come diavolo ha fatto a pensare questa cosa? In quale angolo della sua testa riposava? E da quanto? Scrive e strappa. Scrive, e nasconde un tesoro che poi sta al lettore dissotterrare. Trovare il proprio.

Come ogni volta che chiudo un libro che mi è piaciuto tantissimo, non mi resterà quasi niente: non mi ricorderò la trama, nessuno dei nomi, nessuno dei temi che l’autore sviscera. Eppure mi sono immedesimata con tutti: i tre bambini, il marito, la moglie, il patriarca che sta morendo, gli elenchi, i biglietti infilati nel muro del pianto, i genitori del bambino sordo, la “distanza da attraversare”, la nostalgia del futuro di Jacob, le verità accecanti che danno nomi ai capitoli, o che l’autore mette tra parentesi (non ne citerò nessuna, perché i libri sono mappe, e ognuno troverà i punti cardinali di cui ha bisogno). Ho sottolineato, scritto, trascritto, ci ho disegnato su, ci ho viaggiato e dormito. Ma poi lascio volare tutto questo. Lo mangio e resta con me per il tempo che serve. Poi lo mando via.

È uno strano gioco a perdere ma, nel caso di Eccomi, vale davvero la pena partecipare.

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