God save the Punk

Casa di Ringhiera
Casa di Ringhiera
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7 min readAug 19, 2016

di Valentina Rinaldi

È una mattina di fine luglio. Sembra presto ancora e già Milano brucia. Salendo a spirale i gradini di 10corsocomo si avvertono delle voci in lontananza. Religioso silenzio tutt’intorno e, nell’aria, quell’unica voce rauca e sgraziata urla I AM AN AN — -T-I-CHRIST I AM AN AN-ArCHIST!
È il 1976 quando esce Anarchy in UK, il primo singolo dei Sex Pistols, imprescindibile atto di nascita di quel movimento straordinario che sta per esplodere e travolgere tutto. E lui, Johnny Rotten il marcio, il supereroe anarchico, con il suo grido forte e inarticolato mi accoglie all’ingresso della galleria:
Don’t know what I want
but I know how to get it
I.want to destroy the passerby
’cause I want to be anarchy.
No dogs body

Inizia qui, così, l’ascesa agli inferi di Punk in Britain, tributo a celebrazione di una delle subculture più potenti del Novecento.
Allestita in occasione dei quarant’anni della nascita del punk: oltre novanta scatti in bella mostra, un percorso fotografico a sezioni, un’occasione per ri-scoprire il fenomeno che ha sconvolto e stravolto un’epoca e che non è mai stato del tutto superato. Nel tempo, nella portata.
Cammino e respiro piano. Entra una luce assordante in quell’ambiente immacolato, e stride il contrasto potente del bianco, bianco luminoso e sfacciato con la musica e le foto che piano piano si intravvedono sulle pareti.
“Siate infantili, siate irresponsabili, siate ogni cosa che questa società detesta!”

Posano fieri come blasfeme divinità senza nome e si esibiscono davanti agli obiettivi di Karen Knorr e Oliver Richon, testimoni delle notti interminabili nei club della scena punk. Il Roxy, il Vortex, il Global Village. Londra che inizia a bruciare e quei corpi che si agitano e spingono e esplodono di colori e gesti e grida. Una sorta di viva messa (in scena) artistica. Gli abiti come i pezzi di muri sudici della periferia londinese, le scritte rozze e ingiuriose, gli strappi laceri sulle t-shirt, le spille e le borchie e i simboli nazisti per il puro gusto (estetico) di suscitare scandalo. Senza un reale progetto né tanto meno un preciso intento politico. Libertà e disobbedienza. Così si fanno beffe di quella ingessata borghesia che tentano di gettare così nel caos più totale.

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Non solo non è finzione. Il Punk è certamente uno stile di vita per una considerevole quantità di persone. Dà loro completa identità. e’ una vera e propria cultura di per se stessa e attrae di per sé le sue persone. Il Punk li spinge ad unirsi. Dà loro il nucleo (Alan Edwards).

Tutto quel magma bollente che deborda, pieno di artisti, agitatori culturali, anarchici e seguaci della moda, rockettari, figure famose e icone consapevoli, in un certo senso, della straordinaria potenza di ciò che stavano vivendo e creando.
Il sorriso freddo e insolente, il corpo resistente e vivace. I capelli cotonati come bizzarre sculture biondo platino, i body e le calze a rete, e il viso a linee nere e quadri fucsia, come un dipinto di Mondrian. Jordan, la ragazza del Sex, la trasgressiva boutique di Malcom McLaren (ideatore/manager dei Sex Pistols) e Vivienne Westwood, icona femminile di uno stile rivoluzionario che impersonifica totalmente. Il Sex si trovava in King’s Road ed era un posto in cui, se rimanevi abbastanza a lungo — ricorda lo stesso McLaren — poteva accadere qualcosa di magico. Un pellegrinaggio continuo in quel luogo profano che consacrava lo spirito del punk attraverso le borchie e gli abiti e i body di vinile.
Non era socialmente necessario essere belli. Jordan era in un certo senso comunicazione pura e diretta di tutto quello che il Sex e il Punk rappresentavano. Un movimento liberatorio, che usava in qualche modo anche la moda come veicolo per la parità di genere (spesso gli abiti erano unisex, e venivano personalizzati a piacimento. Senza regole precise, senza quei dictat non scritti a cui, volenti nolenti, spesso ci assoggettiamo).
Ci sono scatti bellissimi di Jordan, in casa, al Sex, nei locali, con gli amici di sempre, gli stessi che orbitavano intorno a quel nucleo: Siouxsie Sioux, Billy Idol, Soo Catwoman e Simon Barker.
È lo stesso Barker, aka Six, che riprende e fissa espressioni e momenti intimi:
“Questo è il mio album di famiglia dal 1976 al 1978. Ritratti di amici che dormono, leggono, scherzano, fanno smorfie e si truccano. Erano principalmente donne. Donne forti, indipendenti, creative. “

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Raccoglievano, amplificavano e indossavano con orgoglio le critiche ricevute, ne facevano sfoggio.
I look da strada si fondono a richiami sadomaso e al tartan, simbolo del folclore british: la diabolica e geniale Vivienne Westwood contribuisce con il suo stile e le sue creazioni a sancire il punk come esperimento di comunicazione folle, complesso e affascinante.
“Non mi consideravo una stilista, ma qualcuno che ha voluto confrontarsi con uno status-quo in degrado attraverso un modo di vestire”

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Non c’era bisogno di un reale motivo, le persone erano felici di essere notate e farsi fotografare. Gli sguardi, quelli soprattutto cattura Sheila Rock. Sono diversi da tutti gli altri scatti presenti alla mostra. C’è un qualcosa nel suo guardare che riesce ad andare oltre, cogliendo a volte la natura contraddittoria di quelle anime ribelli. La bellezza, la creatività e l’attenzione ai dettagli in un’estetica do it yourself. C’è una sorta di purezza in questo modo espressivo e nei suo scatti si coglie tutto l’amore e il rispetto verso queste persone e la cultura punk.

“Scattare foto punk era per me prima di tutto un divertimento. Mi piaceva la gente e la musica sono felice di aver contribuito alla scena e aver vissuto una seconda adolescenza.”
Ray Stevenson e i protagonisti della scena londinese: i Sex Pistols e i Damned e Billy Idol e Siouxie e i Clash e Vivienne Westowood.

Ancora chiama e richiama, allunga la mano e spalanca gli occhi, la testa piegata e le smorfie che dilatano faccia e percezione. Johnny Rotten con le sue pose ostentate e le gli occhi stralunati. Il folle e carismatico Sid Vicious che interpreta se stesso, spettacolare emblema dell’identità che si celebra auto-distruggendosi.
Quella dedicata ai Sex Pistols è naturalmente la sezione più importante, la luce oscura in fondo al tunnel. Loro incarnano quell’energia devastante, genialmente creata e calcolata. Hanno dato vita a un’immagine forte, l’hanno fatto nel modo più deciso possibile, con la consapevole intenzione di provocare e scioccare, scuotere le coscienze flaccide e borghesi.
Dennis Morris, fotografo ufficiale dei Sex Pistols racconta le icone del punk attraverso i suoi scatti. Erano pazzi della loro stessa immagine, bevevano e se ne nutrivano avidamente traendone vantaggio, diventando un fenomeno dei media, un’immagine creata ad arte che divenne esse stesa arte.

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“Volevo che la grafica esprimesse quello che ra lo spirito della musica e delle canzoni, il carattere dell’intera band”. Jamie Reid, l’artista autore di tutto il materiale visivo dei Sex Pistols, l’ideologo insieme a McLaren di tutta l’operazione di assalto dell’industria culturale inglese.

E laggiù, in fondo a questo luminoso tunnel/labirinto che rifulge della bellezza del lato oscuro, nevrotico sguardo a zig-zag, veloceveloce, unisci i puntini! tutte insieme laggiù le ripetizioni ossessive delle loro canzoni con scritte colorate, l’immenso e assoluto logo di God save the Queen, le lettere, ritagli di giornali, e cartoline e immagini sovrapposte che formano una vistosa surrealistica visione, un unico grandioso pensiero visivo che sfrutta narcisismo, esibizionismo, feticismo e porta con sé tutto il mondo dei Sex Pistols, i loro slogan, la loro battaglia estetica e loro stessi come parte di una grandiosa opera d’Arte moderna.

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Vi è una sorta di poetica quasi surrealista, nel fenomeno punk — con quelle sue letture paradossali degli oggetti e le spille di sicurezza conficcate nella pelle, il colore artificiale dei capelli, gli abiti imbrattatati e modificati, che evidenziavano simultaneamente e criminosamente il carattere innaturale di qualsiasi discorso. Dopo quei gloriosi incredibili cento giorni del punk, tutto viene fagocitato, ricontestualizzato entro logiche (ri)produttive e sublimato nella moda.
E qui, alla fine della mostra, libri, raccolte fotografiche, saggi dedicati, perfettamente allineati, simmetrici, colorati, patinati, pettinato. Il Punk. Bello, da sfogliare, disponibile e organizzato mentre ancora nella testa la voce dura di Rotten sbraita I am an anticrhrist, I am an anarchist.
Tutto quell’ammasso rumoroso e ribelle (s)travolto da quest’altra macchina infernale, sublimato e lisciato a uso e consumo di una società impigrita che insegue il mito ma cui manca il coraggio di alzare sul serio la cresta.
Sono trascorsi quarant’anni, era il 1976.
L’etica del punk diluita che diventa estetica. In mezzo a questo fighettume, oggi più che mai, vien da chiedersi cosa resta di quel sogno inglese.
Cash from chaos, per dire.

Punk in Britain: fino al 28 agosto, galleria Sozzani, 10corsocomo Milano.

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