Il colore dei sogni

Ada Zegna
Casa di Ringhiera
Published in
3 min readDec 15, 2016

E intanto lui se ne sta lì, sdraiato come il famoso cane che dorme, che si sveglia improvvisamente incazzato, e ritorna ad essere mansueto e puro mostrandosi con colori mai visti.

Photo credit: Ryan McGinley

La spiaggia era fredda e deserta. I ciottoli facevano male al culo, me lo ricordo, stavamo seduti da un’ora e la posizione era scomoda. Ma eravamo lì solo per guardare, fissavamo ciò che avevamo davanti e basta. Osservavamo il mare cercando di spogliarlo, ancora e ancora, ma non c’era niente da fare, era impenetrabile. Forse era lui che osservava noi.

Non credo esista una cosa così destabilizzante e dannatamente paurosa come il mare. Fingiamo di conoscerlo, di sapere i suoi segreti, d’estate ci sguazziamo allegri con i nostri costumini, lo navighiamo, ci pisciamo dentro, scarichiamo i rifiuti e poi diciamo “ah quanto è bello il mare!”. Collezioniamo i suoi scarti come se fossero doni: vetri verdi delle bottiglie levigati, sassi che cambiano una volta asciutti, scheletri di minuscoli crostacei. E intanto lui se ne sta lì, sdraiato come il famoso cane che dorme, che si sveglia improvvisamente incazzato, e ritorna ad essere mansueto e puro mostrandosi con colori mai visti. Non gliene frega nulla di nessuno, eppure è sfidato da sempre, ogni giorno, da donne e uomini che mollano ciò che hanno o ciò che gli è rimasto e lo attraversano con il cuore strabordante di speranza, come una bacinella piena.

E poi ci siamo noi due, fermi a scrutarci dentro per specchiarsi un po’, senza rendersi bene conto di quanto sia gigantesco, di quanto sia profondo. Pensai ai marinai, alle loro mogli, alle vecchie storie dei pescatori. Pensai alla balena di Pinocchio, alle leggende dei mostri marini, alla Fossa delle Marianne. A quante persone come me, in tutta la storia del mondo, sono state a fissare il mare, per leggere le onde.
Queste erano le cose che gironzolavano nella testa, mentre ero lì con la mia umanità tra le mani.
Non so cosa pensasse Giacomo, per tutto il tempo non ci siamo rivolti una parola. Ne disse una dopo due minuti.

‹‹Così›› farfugliò.
‹‹Come dici?››
‹‹E’ così che vorrei vivere, e invecchiare. Alzarmi al mattino e aprire gli occhi su questa vastità, per ricordarmi di quanto sono piccolo. Mettere l’acqua a bollire e aspettare che sia pronta. Ecco, saper aspettare: aspettare per fare il tè, aspettare te che ti alzi pigramente dal letto, aspettare che le onde si calmino, che la stufa si scaldi e che la mia barba diventi bianca, giorno dopo giorno. Avere la pazienza di vedere le cose cambiare, di apprezzare ogni ruga, ogni pasto, ogni ora››.

Ogni tanto se ne usciva con questi dolcissimi pensieri e io non sapevo mai cosa rispondergli, così me ne stavo in silenzio e sorridevo.

Le grida dei gabbiani diventarono una nenia, volavano in cerchio sopra le nostre teste, quasi come avvoltoi che aspettano di cibarsi. Ma noi non eravamo prede, non eravamo carcasse, anche se in realtà non sembravamo affatto gustosi da lontano: volti pallidi, occhiaie marcate, smilzi e un po’trasandati.
Chiusi gli occhi. L’aria salata profumava di pioggia, i piedi e i gomiti si appoggiavano sui sassolini freddi e i miei capelli erano pesanti, gonfi come nuvole. Percepivo tutto, anche senza la vista. Il tempo invece, non lo sentivo più, quanto era passato? Quello scorreva e scorreva, diventando un concetto distorto. Il rumore del mare aveva calmato così tanto il mio cervello che mi ero dimenticata persino dove fossi, chi mi stava vicino. Le palpebre molli si aprirono e la luminosissima luce grigia del cielo mi sfondò l’iride. Giacomo si era alzato e mi stava tendendo la mano, era ora di tornare a casa.

Era anche ora di alzarsi dal letto.

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