Il fantasma di Dubravka — Cap. IX

Fabio Cardetta
Casa di Ringhiera
Published in
7 min readDec 13, 2016
Photo credit: Rory Björkman

Un atroce silenzio occupava la cucina.

Svetlan cercò in qualche modo di rimettere la donna a proprio agio. Poi si scusò per il disturbo e fece segno a Tub che bastava così.

Fuori dal cortile del palazzo, prese il suo collaboratore a quattr’occhi e gli fece il sunto della situazione.

“Questo Daniel ha tutte le caratteristiche di un mezzo sciroccato: taciturno, solitario, la madre non sa niente di lui, non ha amici né frequenta ragazze. E l’assenza di donne nella sua vita fa protendere decisamente per il frustrato sessuale.”

Tub lo ascoltava perplesso con le mani in tasca.

“Inoltre, a quanto pare il toy boy della madre in quella casa ci vive da ormai due mesi. Secondo te come deve averla presa Daniel?… Gli attacchi sono cominciati proprio due mesi fa. Una coincidenza?”

Svetlan ebbe il riflesso di guardarsi indietro per vedere se qualcuno li avesse seguiti. Poi tornò a Tub, che rispose: “Sono dati interessanti, anche se non bastano. Comunque c’è un’altra cosa strana…”

“Cosa?”

“Quando sono andato al bagno, ho provato ad andare anche nelle altre stanze. Una era uno sgabuzzino, l’altra porta invece era chiusa. Quella deve essere la stanza del ragazzo.”

“La stanza era chiusa?”

“Sì”

“Cioè, lui chiude la porta della stanza quando la madre è in casa? Quindi neanche la madre potrebbe avere accesso a quella. Il ragazzo nasconde qualcosa.”

“Già, è quello che è sembrato anche a me.”

“Facciamo così. Tu resti qui ad aspettare. La signora ha detto che tra un po’ uscirà. Se il ragazzo rimane in casa, vacci a fare due chiacchiere. E magari, con le tue maniere gentili, cerca di dare un’ altra occhiata, o meglio… dai un’occhiata in quella stanza, è quello che ci serve!.. Io faccio un po’ di domande nel quartiere. Dobbiamo chiudere il cerchio prima di stasera.”

Mentre Svetlan già faceva per allontanarsi, Tub lo placcò mettendogli la mano sul petto: “Non credi che stiamo diventando un po’ troppo importuni? Se torno e magari gli scassino la porta del figlio, di sicuro chiamano la polizia…”

Svetlan abbassò gli occhi sulla mano del collega.

Poi sfoggiò un sorriso di perdono e rispose:

“Non ti preoccupare, siamo noi la polizia!… Stiamo lavorando per loro o no?… Se succede qualcosa, meniamo in mezzo la signorina Velikovà e noi ne usciamo puliti. Non credo che le convenga… Inoltre, so che sai essere discreto. Tratta quel ragazzo come sai. Si prenderà una strizza tale che ti farà fare tutto e non dirà niente alla signora, ne puoi stare certo!”

I due si salutarono frettolosamente, mentre una donna in minigonna usciva a grandi falcate dal portone del palazzo.

Simona era seduta al tavolino di un bar in Dunajska ulica. Stava prendendo un pezzo di torta e un caffè, una colazione ritardata dati gli ultimi avvenimenti. Avevano ricevuto una segnalazione di una signora che aveva riferito di aver incrociato il giovane della descrizione poco prima che avvenisse l’ultimo agguato nel quartiere di Ruzinov.

La signora affermava che il giovane anche questa volta vestito in impermeabile e pantaloni sportivi, qualche metro prima di arrivare alla fermata incriminata, stava leggendo ‘Il nuovo anno’, un giornale universitario, e l’aveva gettato nel cestino passando di fretta.

La signora aveva letto dell’accaduto solo molti giorni dopo, aveva telefonato alla polizia, ed era accorsa in commissariato per fornire l’identikit del giovane, che quella volta pare andasse in giro a volto scoperto.

Simona ora aveva un identikit (un ragazzo barbuto, naso a punta, occhi chiari) e sapeva bene dove cercare il ragazzo. Sin dalla prima mattina aveva sguinzagliato i suoi agenti per i corridoi della facoltà di lettere e per il quartiere universitario, per il quale anche lei andava girovagando chiedendo informazioni.

Ma ancora niente. Nessuno aveva riconosciuto il ragazzo.

Simona era molto nervosa. Si sentiva molto vicina a prendere quel farabutto, ma ancora niente. L’ansia la stava divorando dall’interno.

Poi il cellulare squillò. Una voce familiare inaugurò la conversazione: “Sono Peter Svetlan, ispettore Velikovà… Volevo dirle che abbiamo trovato il suo uomo. Lo troverà stasera, tra le 18.00 e le 19.30, alla fermata di Tranvske Myto.”

La tazzina di caffè le cadde di mano, proiettando i cocci fuori dalla porta del locale.

“Mi dica tutto, mi spieghi meglio, per cortesia!”

Il telefono fu riattaccato.

Simona rimase con gli occhi spalancati, in piedi, davanti al bancone. Con il telefono in una mano e nell’altra una invisibile tazzina che immaginava ancora di tenere in pugno.

Svetlan un’ora prima era accorso alla chiamata d’urgenza di Tub. L’omone, come d’accordo, aveva preso il toy-boy per le orecchie e gli aveva fatto dire tutto quello che sapeva.

“Da quanto tempo vivi in questa casa?”

“Due-tre mesi, credo…”

“Perché la stanza del ragazzo è chiusa?”

“N-non lo so… Il ragazzo è strano. Mi guarda male, forse perché siamo quasi della stessa età… Lo capisco anche, ma io non saprei dove andare, dati i problemi che ho avuto in famiglia e…”

“Non ti ho chiesto la storia della tua vita. Rispondi alla domanda!” — fece Tub, guardandolo come se stesse per sgozzarlo.

Il ragazzo si fece sempre più paonazzo.

“Non sai dove va di solito?”

“No, non parlo mai con quello…”

“La stanza era chiusa pure prima che arrivassi tu?… O prima era diverso?”

“C-credo di no!… Ivona mi ha detto che Daniel non hai mai voluto che lei entrasse nella stanza. Lei entra solo una volta al mese per fare le pulizie, ma sempre in sua presenza… Perché lui, dice, non si fida di nessuno… E ha alle sue fisime, ci tiene molto alle sue cose!”

Tub, si sporse, piegandosi sulla sedia e guardando in corridoio; emise un enorme sospiro, poi si alzò e fissò da lontano la porta incriminata. Si rivolse di nuovo al ragazzo, e sbuffò alzando gli occhi al cielo; poi prese un mazzo di chiavi dalla tasca del giubbotto e uno strano aggeggio metallico con tanti ganci e lame arcuate. Infine, si chinò sul tavolo e disse:

“Io ora apro quella porta. Quando la chiuderò, sarà come se non fosse mai stata aperta, capito?… Tu non dirai niente a nessuno e tutto andrà liscio come l’olio. Al contrario, se dirai qualcosa a quel demente o alla tua donna…”

L’uomo non terminò la frase, che un enorme coltello militare a forma di serpente passò davanti agli occhi del ragazzo. Il giovane, con le pupille dilatate e il sudore che gli colava a fiotti dalla fronte, annuì convinto.

Tub si mosse come uno spettro verso l’ostacolo. Armeggiò per un paio di minuti, poi la porta magicamente si aprì. La visione d’una stanza in perfetto ordine e che dava di pulito gli si spalancò di fronte. Tub sembrò deluso, ma qualcosa in quell’ordine gli sembrava fuori posto.

Aprì un cassetto e, sotto alcuni cd e quaderni colorati, trovò finalmente quello che andava cercando.

Svetlan arrivò affannato. Si era trangugiato una birra di corsa, dopo aver ricevuto la chiamata. Tub gli aprì la porta con uno sguardo indecifrabile, sottolineato da una leggera increspatura delle labbra.

L’investigatore non comprese subito a cosa era dovuta quell’espressione. Poi l’omone lo condusse nella stanza, mentre il ragazzo in cucina ancora si teneva la testa tra le mani e mestamente sorseggiava un caffè. Il gorilla esitò un attimo, con la mano sopra la maniglia della porta.

Svetlan lo guardò con occhi preoccupati. Poi la porta si aprì.

E un lungo momento d’oscurità gradualmente lasciò spazio a una lama bianca che, come in un sogno, sbocciò in un profluvio di luce abbacinante. E davanti a Svetlan apparve una stanza luminosa, con un letto, un armadio con le ante aperte, una scrivania con sopra un grande album aperto e nell’angolo una stampante nera.

L’investigatore notò subito che sul letto erano stati posizionati numerosi contenitori di plastica e l’armadio era vuoto; a terra dei sacchi e degli zaini aperti e il cassetto della scrivania evidentemente scassinato.

Tub prese l’album, lo aprì, e lo porse a Svetlan:

“Prima devi guardare questo.”

Ciò che gli apparve fu qualcosa di inaspettato.

L’investigatore fu preso dalla nausea: immagini di donne legate, violentate e costrette a subire atti sessuali estremi; foto di ragazzine sommerse dai liquami e inondate di urina da diversi aguzzini; alcune immagini ritraevano anche uomini intenti a compiere sesso con animali o con quello che ne rimaneva. Mentre Svetlan teneva l’album spalancato, Tub girò la pagina e mostrò il seguito: affianco a quelle immagini c’erano altre foto: una donna che dormiva, nuda e ignara nel suo letto; la stessa donna ritratta di spalle, nella doccia. Tub continuò a sfogliare l’album: ancora le stesse immagini, sempre più orrende e subdole, e ancora quella donna, ritratta in vari momenti della sua vita quotidiana: vestita, nuda, di spalle, mentre dormiva, in bagno, o intenta alle sue faccende personali, intime, private.

Svetlan riconobbe in quella donna la signora Simko.

Tub, con un gesto di stizza, strappò l’album di mano a Svetlan e lo gettò a terra. Poi prese ad aprire quella dozzina di contenitori accumulati sul letto. E svelò l’ulteriore squallore. L’espressione di Svetlan assunse tratti atroci. Nei contenitori di plastica erano accumulati escrementi di tutti i tipi, e l’odore nauseabondo che ne usciva, prima occultato dagli aromi profumati della stanza, cominciò a espandersi come una nebbia nell’ambiente.

Merda ovunque. Svetlan si tenne a malapena dal vomitare, tappandosi la bocca e cercò rifugio verso il corridoio.

“Fai le foto e richiudi tutto!” — riuscì a ordinare, scappando.

Tub era ormai trasfigurato.

Tant’è che, dopo aver richiuso i contenitori, riuscì solo a sbottare amaramente:

“Che lavoro di merda!”

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