Il fantasma di Dubravka — Cap. VII

Fabio Cardetta
Casa di Ringhiera
Published in
6 min readNov 14, 2016

“La segretaria rimase a bocca aperta, mentre cercava invano di riporre il tappo sulla boccetta di smalto.”

La signorina Martina Zelenovà si stava limando le unghie. Ci teneva molto, le portava lunghe e affusolate, sempre. Era anche una grande fan di smalti e decorazioni adatti a ornare quelle incredibili unghia che sembravano scorrere infinite come quelle di una maga. Squillò il telefono ad interrompere la rituale operazione stregonesca.

“Investigazioni Svetlan, mi dica?” — la voce della segretaria esordì come uno scampanellio.

“Sono l’ispettore Velikovà… Posso parlare con il signor Svetlan?”

“No, mi dispiace. Il signor Svetlan attualmente non è in sede.”

“Può dirmi dov’è andato? Ho urgente bisogno di parlargli.”

La segretaria rimase un attimo interdetta.

“Mi dispiace, il signor Svetlan è fuori per affari. Però mi ha detto che sarebbe andato allo stadio.”

“Allo stadio?”

“Sì, è andato a vedere una partita di pallone, così mi ha detto!”

Simona rimase a rimuginare sulla cosa per alcuni secondi, in un evidente stato di incredulità. Non era domenica e pareva abbastanza strano che l’investigatore più quotato della città avesse abbandonato il lavoro subito dopo pranzo per andare a vedere una partita.

“Mi scusi, sa dirmi precisamente dove è andato?”

“No, mi dispiace, non so nulla” — fece la segretaria scocciata — “Vuole che gli riferisca qualcosa?”

Simona si prese altri secondi per decidere sul da farsi. Poi sputò il rospo:

“D’accordo. Gli dica che non è molto elegante da parte sua condurre delle indagini parallele a quelle della polizia. Ho trovato la signora di cui lui sa, e questa si è rifiutata di rispondere a qualsiasi domanda, per poi consegnarmi un verbale firmato da lei stessa in cui afferma varie cose… Ora, gli dica che ho bisogno di parlare al più presto con lui perché questo suo comportamento non è accettabile!”

La segretaria rimase a bocca aperta, mentre cercava invano di riporre il tappo sulla boccetta di smalto.

“D’accordo, riferirò. Desidera altro?”

“No, grazie. La saluto.”

Il telefono fu riagganciato.

Svetlan e Tub sedevano a gambe divaricate sui grandi scaloni che circondavano il campo da calcio di Hrobinova ulica. Era un vecchio campo da calcio precedentemente utilizzato dagli studenti della scuola superiore Stur; era poi andato in disuso e lasciato all’abbandono, una volta costruito il nuovo impianto all’interno della recinzione della scuola stessa. Da quel momento in poi il campo vecchio era stato regolarmente occupato dai ragazzini del quartiere per organizzare partitelle o semplicemente passare il tempo nel pomeriggio dopo l’orario scolastico. Di solito, a parte i ragazzini che giocavano, sugli scaloni stazionavano studenti liceali e universitari, coppiette, anziani, qualche disoccupato annoiato e bizzarri elementi e scapestrati, ubriaconi, drogati e persone senza fissa dimora.

Quel pomeriggio, sul campo ancora infangato, una decina di ragazzini stavano giocando a calcio, schiamazzando, bestemmiando e dandosi pestoni in gran quantità. Sugli scaloni, oltre a Svetlan e Tub, c’erano una mezza dozzina di ragazzi che chiacchieravano e fumavano, una coppietta di marmocchi intenta a sbaciucchiarsi e un vecchio col bastone con lo sguardo fisso nel vuoto.

“Ti sembra di vedere qualche psicopatico?” — fece Svetlan con indolenza a Tub.

“Non mi sembra, chiediamo ai ragazzini.”

Tub si alzò in piedi e discese i gradoni con un’agilità inaspettata. Tirò fuori le sigarette e cominciò ad offrirne a chi voleva, per poi accucciarsi sui ginocchi e cominciare a parlottare con alcuni di loro. L’operazione di accalappiamento testimoni durò alcuni minuti. Dopo un po’ Tub si alzò e diresse il suo sguardo verso Svetlan, scrollando le spalle. Svetlan rimase a guardarlo fisso, poi si girò verso la coppietta e verso il vecchio. Si disse a se stesso che non ne sarebbe uscito niente, non valeva la pena girovagare troppo. Tornò dunque con lo sguardo a Tub e gli fece un cenno positivo, come a dire: “Insisti”

Tub lo guardò e fece un gesto con le dita. Svetlan rispose positivamente. Dopo alcuni minuti Tub tornò da Svetlan accompagnato da un ragazzino in tacchetti da calcio, pantaloncini e calzettoni.

“Questo giovane ha da dirti qualcosa”

Svetlan dette un’occhiata al ragazzo: avrà avuto diciassette-diciott’anni, aveva lo sguardo impaurito e in mano aveva ancora le banconote dategli da Tub. Svetlan gli sorrise: “Ciao amico, come ti chiami?”

“Mi chiamo Zdenko… E gioco sempre qui il pomeriggio…”

“Bene. Immagino che tu voglia parlarmi di un tizio bizzarro che hai visto da queste parti, non è vero?”

Il ragazzo abbassò lo sguardo intimorito. Poi fece un lungo respirò e rialzando gli occhi, disse:

“Sì, c’è un ragazzo, è come noi, cioè è un bravo ragazzo… Ma a volte fa cose un po’ strane… Non so se è importante… Cioè, anche i miei amici a volte fanno delle cazzate… Beh, non come le cose strane che fa lui… Però ci vanno vicini, ecco… Non voglio mettere nei guai quel ragazzo… Cioè, credo abbia già dei problemi e non mi va di…”

Svetlan lo fissò con ammirazione e al contempo con commiserazione. Un’espressione dolce e paterna si impresse sul suo volto, mentre il ragazzo ancora incespicava nelle parole. Svetlan, a quel punto, accarezzò dolcemente con le dita il mento del ragazzo, e gli disse:

“Ehi, Zdenko… Non ti preoccupare, è tutto apposto. Guardami…”

Zdenko alzò lo sguardo e lo indirizzò a quell’uomo gentile, quasi rincuorato dalle sue premurose attenzioni. Così Svetlan, continuando a guardarlo con dolcezza, gli disse:

“Zdenko, devi capire una cosa. Noi sappiamo dove abiti. E, se non sputi subito il rospo, prima quest’uomo ti spezza le gambe… Poi per sicurezza ti passo sopra con la macchina. Così non potrai più giocare a pallone. Infine, andiamo dai tuoi genitori e gli diciamo che fumi. Così loro ti spezzano le braccia e tu nella vita non potrai più fare nulla. Che ne dici, Zdenko?… Te la senti adesso di parlare?”

Il ragazzo, inutile dirlo, era sbiancato. Le pupille gli si erano dilatate e le spalle avevano cominciato a tremare freneticamente. Svetlan pensò per un attimo che stesse per svenire. Tub guardò il suo capo con disprezzo. Svetlan, invece, sorrideva come un demonio sul trono. Il ragazzo cominciò a parlare:

“Si chiama Daniel… Viene a giocare a volte il pomeriggio, da solo… Ci parli e sembra normale, ma a volte fa cose da ritardato. Viene sempre da solo e se ne va da solo. Non credo abbia amici, noi lo facciamo giocare con noi perché ci fa pena, è un poveraccio!… Sembra pure molto più grande di noi… E poi a volte va per pisciare dietro gli alberi oppure va a cagare… E fa come i gatti!”

“Che significa ‘fa come i gatti’?” — lo interruppe Tub.

“Significa che prende la cacca con le mani e poi la seppellisce… Oppure la prende e la butta via o contro i tronchi degli alberi. A volte la sparge intorno… Poi torna e fa come se non fosse successo niente.”

“E voi, dopo che avete visto queste cose, continuate a farlo giocare con voi?” — gli fece Svetlan.

“E che dobbiamo fare? Una volta gli abbiamo detto che quello che aveva fatto ci faceva schifo… E lui si è arrabbiato e ci diceva che non era vero, che ci stavamo inventando tutto… Così per pietà l’abbiamo fatto giocare di nuovo. Ma ormai è da un po’ che non viene…”

“E quante volte è venuto a giocare con voi?”

“Mah, tre o quattro… Non di più, è da poco che lo conosciamo”

Svetlan fece cenno a Tub che bastava così.

Si alzarono di scatto e Tub ficcò nelle mani del ragazzo un’altra banconota.

“Tu naturalmente non ci hai mai incontrato. Ricordati che sappiamo dove abiti” — fece Svetlan, col solito sorriso malefico. Poi aggiunse: “Sai dove abita questo pazzoide?”

“Sì, di fronte al Billa. Via Majernikova, però non so il numero!…L’ho visto una volta entrare, quando sono uscito dal supermercato.”

I due uomini se ne andarono. Zdenko rimase lì a guardarli come uno stoccafisso. Si girò a guardare i suoi amici e incrociò i loro sguardi preoccupati. Mentre il fumo delle loro sigarette si andava mescolando ai riflessi violacei del tramonto, e un’altra giornata su Bratislava stava finendo, come se niente fosse accaduto.

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