Il fantasma di Dubravka — Cap. X

Fabio Cardetta
Casa di Ringhiera
Published in
7 min readDec 21, 2016
Photo credit: Alex Knight

“Birra?”

Era la risposta di Svetlan a tutti i problemi della vita.

Se n’era andato per fare due chiamate molto importanti, così aveva detto a Tub. E l’uomo Tinozza era restato lì davanti a una pinta di birra Zlaty Bazant e un piatto di haluski con pancetta fritta.

Lo guardava da lontano, mentre l’altro camminava avanti e indietro parlando e parlando, a volte fermandosi con uno sguardo stranito nel vuoto. Intorno a lui il parco cinguettava d’una musica ornitologica particolare e la luce pallida del sole diffondeva un gelido tepore, in quel mezzogiorno ancora addobbato dall’umidità del freddo della notte prima.

Poi, mentre Tub trangugiava quelle patate strapazzate che gli piacevano tanto, Svetlan tornò e si sedette.

“Allora, hai fatto le chiamate che dovevi fare?” — Tub lo interrogò curioso.

“Sì” — rispose l’altro — “Ho prima chiamato un amico psichiatra per farmi meglio spiegare che tipo di scimunito c’abbiamo davanti.”

“Poi?”

“Poi ho avvisato la nostra amica Simona che può venire a ritirare il suo pacco qui alla fermata di Trnavske Myto oggi pomeriggio.”

Dopo la ritirata di Svetlan, infatti, Tub aveva continuato a frugare e a mettere insieme tutti gli elementi che potessero inchiodare Daniel. Aveva fatto le foto che Sveltan gli aveva chiesto e aveva raccolto fogli, pagine e agendine, trovate nei cassetti, in cui lo psicolabile sparlava del suo odio per le donne, del suo amore ambiguo per la madre e della sua voglia di rivincita verso una società che lo guardava di malocchio e dalla quale si sentiva escluso. Tra questi fogli, pagine e diari, Tub aveva anche trovato un’agenda delle cose da fare. Nella lista di quel giorno vi erano alcuni puntini con affianco delle scritte vagamente interpretabili:

Ore 9.00 — sigarette e Nam SNP

Ore 11.00 — Comensko

Ore 15.00 — fare amici

Ore 17.00 — zaino e Tesco

Ore 18.00–19.30 — briciole T. Myto

Svetlan aveva prontamente avvisato Simona che Daniel sarebbe stato a Trnavske Myto dalle 18 alle 19.30. Quella parola ‘briciole’, messo accanto al luogo, non si capiva bene cosa fosse. Ma Svetlan aveva una sua teoria:

“Credo che il nostro amico venga qui a fare rifornimento.”

“In che senso?”

“Non lo vedi?… Siamo circondati dai suoi fornitori!”

Tub mollò per un attimo il cibo per guardarsi attorno. Ma non riuscì a distinguere null’altro che una vecchia ferma al semaforo, macchine, donne con bambini, cani e padroni di cani, un netturbino che spazzava il viale e una folla di piccioni intenti a beccare qualcosa nello spiazzale.

“Ti aiuto io” — e Svetlan prese il tappo della bottiglia d’acqua e lo gettò a qualche metro dalla verandina del bar. Proprio in mezzo ai piccioni, che svolazzarono via sbattendo convulsamente le ali.

“I piccioni?” — fece Tub.

“Bravo. A terra cosa vedi?”

Tub dette di nuovo un’occhiata, cercando di focalizzare e, spalancando gli occhi, esclamò: “Delle briciole di pane”

“Bravo… Ecco cosa viene a fare il pazzoide a Trnavke Myto!”

Tub ricordò che in quei contenitori di plastica c’erano differenti tipi di feci, selezionate e smistate quasi come una vera e propria collezione. A prima vista aveva saputo riconoscere quelle di cani, gatti, galline e quelle umane. Ma in alcuni contenitori aveva anche scorto roba meno consistente, e sedimentata lì a strati, forse in un lungo periodo. Quella roba sembrava proprio merda d’uccello.

“E il tuo amico psicologo che t’ha detto?” — riprese Tub.

“Mi ha detto che ormai è certo che il nostro amico Daniel sia il Pazzoide della Merda… E che molto probabilmente i suo complessi sono proprio dovuti alla negligenza della madre e allo strano rapporto che hanno tra di loro.”

Tub piegò la testa d’un lato, come fanno i cani quando non capiscono.

Svetlan cercò di chiarirgli le idee:

“Il mio amico mi ha spiegato che atteggiamenti di manipolazione, di collezionismo o spargimento di feci sono tipici di alcuni bambini che sono rimasti alla fase anale… Non ti sto a spiegare in termini scientifici… Insomma, quando il bambino si sente trascurato dalla madre, questo si mette a cagarsi addosso oppure a spargere le feci per casa. Forse per attirare l’attenzione della madre o per farla tornare a sé. Ora: questo complesso si manifesta nei bambini di qualche mese d’età, ma a volte si protrae anche in bambini più grandi, che non riescono ad accettare l’assenza della madre o il fatto che non sono i soli ad avere bisogno d’attenzioni a questo mondo. Bene. A quanto pare, in casi particolari, questo complesso può durare fino all’età adulta, se non si interviene con terapie d’urto. E così abbiamo gente con problemi psichici del genere che vanno in giro a fare cose strane… che si sentono trascurati dalla madre, magari non scopano e vedono tutte le donne come delle puttane indifferenti e insensibili… e infine si mettono a perseguitare fanciulle indifese. Ti ho fatto un riassunto spicciolo. Ora hai capito tutto?”

Tub annuì, pensoso.

“A quanto pare” — riprese Svetlan — “La signora Simko è sempre stata un po’ distratta nei confronti del figlio. Metti anche che le è venuto a mancare il marito e lei non è mai in casa. Poi aggiungi che ora le è venuta la bella idea di scoparsi un ragazzino dell’età del figlio, e addirittura se l’è portato in casa… Capirai che lo psicolabile, che già si sentiva trascurato, non l’avrà presa molto bene!”

Tub fece una faccia sbalordita. L’investigatore, invece, soddisfatto della sua arringa, si scolò tutto d’un fiato la mezza pinta che gli era rimasta e si accese una sigaretta. Tub, si pulì la bocca, e chiese quasi disarmato:

“E ora che facciamo?”

Svetlan lo accolse con il suo solito ghigno: “E ora restiamo qui, ci scoliamo altre birre, e aspettiamo che la nostra amica Simona acchiappi il pervertito.”

“Mi sembra un ottimo piano” — replicò il Tinozza.

Poi Svetlan si drizzò sulla sedia, come se avesse dimenticato qualcosa d’importante. Estrasse un foglio dal taschino e prese il cellulare.

“Cazzo, Tub, mi ero dimenticato una cosa importantissima!”

“Che cosa?”

“Io e Simona… domani…”

“Non capisco” — echeggiò di nuovo Tub.

“Devo prenotare il ristorante per domani!”

Cinque uomini per catturare quel mentecatto potevano bastare. O almeno così s’era detta tra sé e sé, prima di istruire la squadra a prendere possesso della zona X. Lei si sarebbe posizionata vicino al semaforo, con l’identikit in mano, pronta a catapultarsi sul pervertito non appena lo avesse riconosciuto. Altri due agenti erano stati messi di guardia ai due capi estremi del piazzale, in modo da tagliare ogni via di fuga. Un altro avrebbe fatto da spalla a Simona, coprendole le spalle da lontano e un altro avrebbe giocato da libero girovagando per il parco con la ricetrasmittente accesa per eventuali aggiornamenti.

La gente che passava e spassava per il crocevia di fronte al parco era la solita, con gli sguardi spersi, le voci, le chiacchiere, le risate delle studentesse, il lamentio ridondante delle vecchie, il rombare della auto e una sirena indecifrabile in lontananza.

Simona era lì a scrutare tutto e tutti, accompagnata da una fremente agitazione che riusciva a tenere ben nascosta, sotto la posa da gentil donna, dietro la maschera da fumatrice, sopra i pensieri oscuri come nuvole prima d’una tempesta. Guardava quegli occhi, che passavano e spassavano, e che erano l’unico certo tratto distintivo del mostro di Bratislava. L’identikit fornito dall’ultimo testimone riportava una lunga barba, come nel caso precedente. Ma negli altri casi il soggetto era sbarbato e vestito diversamente. Restavano gli occhi chiari e il naso a punta. Ma di occhi chiari in città ce n’erano a bizzeffe e solo con un colpo di fortuna, magari cogliendo quella tuta striata o l’impermeabile, la donna sarebbe riuscita a riconoscere il molestatore.

E gli occhi chiari erano tanti e andavano di fretta: alcuni più azzurri del cielo; altri turchesi, altri grigi come fumo, altri striati da fini smerigliature. E tutti questi occhi, occhi su occhi le passavano davanti, fondendosi l’uno nell’altro e rincorrendosi per le strade come fanali di auto in corsa.

Ad un tratto un agente si proiettava verso un individuo sospetto, lo vedeva, per poi ritrarsi riconoscendosi in errore; a volte anche lei, osservava un altro tizio in impermeabile e cappello, tornava a guardare l’identikit, si diceva “Sì, è lui!”, poi si avvicinava, lo guardava, si chiedeva se chiedergli i documenti; puntualmente si rispondeva di ‘no’, e tornava alla postazione precedente.

E questo per almeno due ore, e ormai erano le 19.48 d’una anonima giornata d’inverno, col solito viavai, le solite facce di lavoratori, borghesi, vecchi e giovani. E Simona non sapeva più dove guardare, tanto simili le sembravano quegli essere umani che, qualche ora prima, avrebbe con certezza definito così diversi.

Poi qualcuno alle sue spalle le chiese:

“Scusi, lei è della polizia?”

Simona si voltò. E vide altri occhi. Degli occhi che assomigliavano a tanti occhi che aveva già visto durante le ultime ore.

“Mi può aiutare?”

“Perché?”

Il ragazzo esitò, poi rispose:

“Non è colpa mia… Sono loro che sono così… Perché devono essere tutte così indifferenti?”

Simona guardò quell’abisso che aveva davanti, e si rese conto di non avere risposte.

“Per piacere, dite a mia madre che sto bene… Però portatemi via, non voglio più vedere nessuno!… Voglio solo stare da solo… Voglio stare in camera e voglio dormire… Glielo può dire alla mamma?”

Quattro agenti erano già attorno all’uomo che, con le mani allargate quasi in preghiera, esponeva al cielo i palmi sporchi. La gente intorno era ammutolita, e guardava con gli occhi spalancati la scena. L’uomo, che altro non era che un ragazzo, sembrava incantato dagli occhi della donna, che lo fissava di rimando.

Simona fece gesto agli altri di non toccarlo. Poi un sorriso forzato di condiscendenza e, disincantatasi da quel gelido abbraccio, disse:

“Sì, glielo diremo noi alla mamma”

E, avendo realizzato pienamente chi avesse di fronte, si fermò per un attimo e concluse:

“Ora vieni con noi, Daniel…

…Vedrai che andrà tutto bene.”

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