Il sesso millantato

Il piacere tra autoerotismo e seghe mentali.

Andrea Sabbatini
Casa di Ringhiera
6 min readJan 26, 2017

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Una delle sensazioni più sgradevoli da me nutrite sia per intensità che frequenza è quella generata dalla repressione doverosa dell’istinto sessuale ormai mostruosamente preponderante nel flusso del mio pensiero quotidiano. Repressione mutilatrice che censura la pratica del desiderio fino a rendere quel crudo impulso innocuo, ricreando artificialmente un acquario ove poter affondare in cattività tra veri e propri video pornografici ad occhi aperti, conditi con storielle e ridicole trame di circostanza, trasportato per inerzia dalla corrente sporcata di quell’elettrica perversione che animata vorticava prima fra le meningi. E giuro che è impossibile uscire dalla sega mentale, una volta che la mano abbassa le mutande della mia eccitata materia grigia, questa inizia a pulsare euforica pensieri sanguigni e sudati di erotismo maniacale, alimentando un meccanismo di appagamento placato, fasullo e un po’ scialbo, abbastanza insanamente ingozzato di rimembrante violenta e carnale passione, da permettermi di fuggire per qualche istante dalla pudica antropomorfa realtà claustrofobica che a volte si odora in metro, in classe, o per strada. E svanita quella vacua rilassatezza dell’animo, il desiderio di possedere una donna torna più forte e vivace che mai, ponendomi fastidiosamente davanti all’evidenza che in quel istante o periodo di tempo non mi è in nessun modo possibile soddisfarlo. Palesando il fatto che anche se potessi averla, il fugace piacere dovuto al semplicistico atto sessuale risulterebbe annoiato, spento, privo di significato, deludente. Parrebbe che questa ipocrita se non infantile parte di discorso sia figlia della consapevolezza dell’impossibilità intrinseca nel raggiungimento di un risultato finale a causa di menomazioni del mio essere, quali pigrizia o vergogna, a cui reagisco meschinamente tramite la costruzione di una permalosa barriera di difensiva passività disinteressata per screditare in automatico ciò che per mea culpa è inarrivabile. In parte è così. Ma in aggiunta mi sento di paragonarmi alla volpe che è solamente stufa di cercare di arrivare sempre alla solita uva, i cui acini di per sé si sono già rivelati piuttosto acerbi alla sua lingua alcune delle volte in cui era riuscita a raggiungere il funesto ramo di vite, a dispetto delle favolose valutazioni gastronomiche esposte dalle carismatiche altre volpi che la circondano. La volpe è stufa di desiderare l’indesiderabile che quando per miracolo si materializza in reale, si incarna in maniera meno desiderabile di quanto fosse in partenza. È stato creato un idolo vaginale al quale sono costretto a sottostare dall’abitudine ma in cui non credo veramente. La coscienza spudorata di ciò che sono, ovvero un ignorante maiale con complessi esistenziali, come ogni altro d’altronde, che tra un piagnucolío e un altro alla fine mangia merda come ogni altro porco, non mi rende superiore, anzi, mi avvilisce. Ed è questo che maggiormente mi irrita, l’impotenza di potermi sentire indipendente da questa schiavitù degli istinti, di potermi distaccare da un comportamento meramente animalesco ormai legato ad una sociale concezione negativa, che alla fine non fa altro che trasmettermi una più intensa sensazione di desolazione. Vorrei poter decidere di rimanere del tutto esterno a qualunque malformata attrazione che par prendersi in fondo gioco di me, come se esclamasse sotto voce mentre nel torrente di sogni erotici la mia vicina di casa urla di piacere sotto il peso del mio corpo: “Tanto lo sai che non la potrai mai avere, e se anche potessi averla, situazione che poche volte si propone in rapporto al numero di ambizioni simili che nutri ogni giorno, quando sarai venuto ti renderai conto di quanto quella irrefrenabile voglia fosse ingannevolmente portatrice di una spiccia imitazione dell’eden, di quanto la realtà abbia distrutto le tue floreali aspettative, ossessivamente annaffiate di ingenue speranze inculcate dalla ossessiva pubblicità del piacere, come se una volta sbocciato il fiore della libidine, questi non si mostrasse fonte di una profumata bellezza eterna, ma cominciasse a starnutire un rimarcato e maleodorante polline appiccicoso di incompletezza. Ti accorgerai che quel covalente legame di felicità con un altro umano culminerà nell’egoistico orgasmo, per poi recidersi e rigettarti sul letto come una bistecca masticata. Ti accorgerai che la medicina alla solitudine prescritta dalla tua razza non è poi indispensabile e nemmeno così efficace, che alla fine è l’ingombrante collettivo ad aver preso una decisione per te. E tu non potrai farci nulla”. Esplode un’emorragia di spaventosa rabbia, dato che mi rendo conto dell’esistenza di una immensa disgiunzione fra ciò che il mio IO vuole e ciò che il mio pene vuole, in parole povere e piuttosto fraintendibili. Il rancore riempie in maniera prorompente la mia natura sessuale, alla cui travolgente enfasi non riesco a sottrarmi sia per l’irresistibile e dissetante soddisfazione che si beve dalla sorgente della stima altrui nel momento in cui riesci a dimostrare che potresti trasmettere la tua genia tramite una donna che rappresenta l’incarnazione ideale dei canoni estetici e salutari (e alla fine di questo si parla), sia perché l’aspettativa dell’atto è esageratamente ormonata dal mio cervello, ed essendo dipendente dal mio caro vecchio gulliver alla fine casco ogni volta nei suoi inganni sbarazzini. Quando mi eccito è come se il sangue che schizofrenico comincia a scorrere allarmato per riempire il corpo cavernoso del mio uccello fosse ricco di ferocia, carico di rivendica sociale, trasportando un embolo abnorme di insicurezze, trasformando ciò che dovrebbe in teoria essere l’atto di legame democratico per eccellenza in uno sfogo di dominazione autoritario. Poiché sono incapace della forza necessaria a controllare le irrazionali emozioni intellettualmente troppo marce per poter essere affrontate o comprese, che vengono mascherate da comportamenti defecanti fiacco maschilismo. Il concetto di “Amore” così come lo conosciamo, legato all’azione sessuale, perde di significato il più delle volte, poiché si eleva un comportamento bestiale ad una concezione quasi divina, e non vi è nulla di più squallido che l’apoteosi della pratica. Quindi dobbiamo decidere se accogliere la connotazione di “Amore” come secrezione puramente umana, atemporale, libera da qualsiasi trappola della materia sociale, sopraelevata alla logica della natura animale, oppure se ammettere una più pessimistica visione che vede l’eros come un semplice quanto più evoluto istinto utile alla sopravvivenza della specie, fondato sul dovere egocentrico di lasciare propria traccia sul territorio. Nel “fare l’amore” quindi non vi è nulla di religiosamente aulico, è l’espletazione primaria del proprio ego farcito di inadeguatezza, che infatti si scatena in un operazione di controllo manicheo, come per gridare tramite i glutei convulsi dal fervore della goduria: “Questo sono io, e tu sei costretta ad accettarmi cosí come sono, senza remore. Non mi importa nulla, il mondo può bruciare li fuori, a me non importa. Ci sono io, solo io in questo istante. E se noti una sorta di impegno nel cercare di far si che anche a te piaccia, sappi che è un comportamento del tutto funzionale. Perché so che altrimenti non ci ristaresti, con me. Perché scopriresti una nuda parte di me piuttosto rivoltante, ed è meglio nasconderla sotto un lenzuolo di altruismo. Esiste ovviamente la probabilità che ci sia dell’affetto, della sincerità o fiducia reciproca alla base, non lo sto escludendo, ma è raro, veramente raro, e direi che è più una accessione, un maquillage che rende il tutto più apprezzabile e quieto. Inoltre quello d’amore non è altro che un rapporto ferino che viene al mondo saturato, acquisendo nuove sfumature di sgargianti colori di umanità con lo scorrere del tempo, rimanendo consapevole della desolazione che lievita nelle fondamenta”.
Riassumendo, si copula perché spinti da un’istintiva voglia alla quale non si puo’ fuggire per poter tramandare subconsciamente il codice genetico che però viene miseramente eliminato prima che possa adempiere al suo scopo da un preservativo, ergo il fine procreativo viene messo da parte. Quindi cosa ne rimane dell’atto? Il piacere. Ma se effettivamente il piacere che ne viene è simile se non pari a quello generato dall’autoerotismo (perlomeno negli uomini), non è forse il sesso in se una bisognosa manifestazione del contradittorio rapporto servo-padrone? È una disperata ricerca di empatia e comprensione, oppure una infausta necessità di mostrarsi incuranti proprio di queste attenzioni, è la rappresentazione massima del difetto umano, è una fuga dalla solitudine, è una purga della cattiveria. È un trofeo dietro al quale nascondersi, con cui arredare, cercando disperatamente consensi, le vischiose pareti di fango della pace dei sensi.

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