La trilogia della città di K., l’Upside down di Agota Kristof

Martina Germani Riccardi
Casa di Ringhiera
Published in
2 min readDec 6, 2016

Agota Kristof ha uno stile asciuttissimo. La sua bravura sta nel dire molte cose con pochissime parole.

Photo credit: Aaron Burden

Sono le tre del pomeriggio, potrei correre, ma piove. Così finisco il caffè e comincio a leggere. Bevo acqua e leggo. Bevo e prendo tutto quello che Agota Kristof ha da darmi: ininterrottamente, come se fosse un’amante che continua a cercarmi senza lasciarmi riposare. Voglio vedere dove arriva.

Scorro le pagine de La trilogia della città di K. e sono nell’Upside down che sembra sia stato disegnato per me. Seguo i bambini nella Piccola Città, fino alla casa della nonna che li chiama Figli di cagna. Cammino con loro, vedo quello che vedono e come loro ho freddo. Fanno esercizi per abituarsi al dolore: digiunano, si prendono a botte, si abituano all’assenza dell’altro. Sento la miseria della vita che conducono, guardo attraverso la loro agghiacciante visione delle cose, vivo la simbiosi di bene e male in cui sono immersi. Penso ai versi di Lucio Dalla: se la sua è cattiveria/ io la prendo per mano/ ce ne andremo lontano. E infatti non cedo di un passo: seguo Claus e Lucas e mi faccio strappare da tutte le madri che vanno via, dal pensiero della guerra, da quelli che non dormono per aspettare chi non ritorna, e restano soli.

Ho tra le mani un libro crudele e lo so, ma non lo respingo: è la carne viva di un quadro di Bacon, un urlo di cui respiro l’atmosfera: ci appoggio gli occhi e sono dentro.

Agota Kristof

Agota Kristof ha uno stile asciuttissimo. La sua bravura sta nel dire molte cose con pochissime parole. Costruisce, scrivendo, un castello imponente, nero, di cui mi rendo conto solo quando lo guardo finito, anche se l’autrice fa passare dalle mie mani ogni singolo mattone della fortezza (anche un capolavoro è fatto di laterizi, di pezzi piccoli). Spezza i capitoli, li rende minuscoli, assaggi di una pietanza buonissima che non smetto di mangiare. Sono luminosi dittici in sequenza.

Giro l’ennesima pagina, ne voglio un’altra. Si sono invertiti i ruoli: adesso sono io l’amante che non si stanca. Ma il libro è finito, sono le otto, ho letto centosettanta pagine in cinque ore. Lo chiudo, spengo la luce, mi stendo.

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