Le fotografie che non ho mai pubblicato

Il selfie come mezzo di scoperta e riscoperta del proprio corpo.

Michele Nenna
Casa di Ringhiera
8 min readFeb 21, 2017

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Lena Dunham, Girls seconda stagione.

G. è ferma davanti ad una grossa parete bianca. La sua schiena sfiora il muro gelido. Con la mano destra tocca il piccolo neo che ha sulla scapola sinistra. Ci passa sopra le dita, cercando di capire l’entità di quella macchiolina che infastidisce l’ordine del suo corpo. Nella mano sinistra ha azionato la fotocamera anteriore del suo telefono. Sta cercando di cogliere l’angolazione migliore attraverso cui immortalare una delle parti del suo corpo che più preferisce. Le piace molto l’arroganza di quell’osso che sporge fino a formare una linea orizzontale quasi parallela al resto dell’ambiente. G. si osserva da quella fotocamera, eppure sa che un selfie non lo scatterà mai. Quel neo la infastidisce, quel neo ha praticamente mandato all’aria tutte le buone intenzioni che aveva investito nel voler scattare una foto alla sua scapola.

In realtà, quella che ha esercitato G. altro non è che una forma di autocensura a tutti gli effetti. Sentire inappropriato quello che si sta inquadrando con la fotocamera è ormai una prassi. Nonostante siamo testimoni di una super produzione di materiale fotografico — ad essere precisi visivo –, allo stesso tempo esiste una grossa quantità di riproduzioni che si perdono per sempre nelle memorie dei nostri telefoni, fino a svanire come se nulla fosse.

I puristi della fotografia, quelli che nei forum ancora discutono sull’uso indiscriminato che i giovani fanno della loro arte, si lanciano contro il fenomeno dei social network — qualche anno fa era tutta colpa della memorie espandibili e prima ancora delle fotocamere digitali. Alcuni studi di settore hanno dimostrato che dietro ogni fotografia pubblicata su Instagram, Facebook e Snapchat ci sia un numero impreciso — e assai alto — di materiale scartato. Se i puristi danno la colpa alla fotografia 3.0 votatasi all’uso super commerciale e poco coscienzioso, e gli studi accademici alla fragilità del tempo, nessuno ha mai rivolto la sua attenzione alla realtà della censura auto-inflitta. Nel caso di G. è stata tutta colpa di un piccolo neo apparso così su due piedi, ma esistono vere e proprie situazioni che vanno oltre la semplice imperfezione, situazioni che portano l’autocensura a godere di una sterminata prateria di privilegi che neanche riusciamo ad immaginare.

Una delle prime forme di autocensura che sono riuscito a captare negli anni è stata quella nascosta nella fatidica frase della zia che, prima che qualcuno scattasse una qualsiasi foto di famiglia, diceva puntualmente «no, io nelle foto vengo male». A conti i fatti non ho scoperto nulla di sensazionale, e neanche questo pezzo potrebbe contribuire a cambiare qualcosa sotto chissà quale aspetto, ma questa è stata la prima forma di autocensura con cui io abbia fatto i conti. Per questo motivo raramente ritrovo mia zia nelle foto di famiglia. I soliti bambini, i soliti volti, ma del suo nessuna traccia. La sconfitta ha preso il sopravvento su tutto e su tutti. False convinzioni che abitano la mente, che succhiano la loro linfa vitale dai fantasmi che la popolano, hanno dato vita ad una assenza, la stessa che tutti — chi più, chi meno — hanno vissuto sulla propria pelle.

Per quanto mi riguarda, fino a qualche anno fa, comparire in una foto era una tragedia. Evitavo in tutti i modi l’obiettivo — ho ceduto in poche occasioni, lo ammetto. All’inizio facevo di tutto pur di scampare al pericolo, e ci riuscivo. L’autocensura era la mia compagna preferita, non mi lasciava mai solo, neanche quando capitavo in una di quelle feste dove non conoscevo nessuno. In questo modo la mia presenza si trasformava in un’assenza, un’assenza che per quelli del “se non hai una foto non ci credo” vuol dire tutto. Allora in questo caso la fotografia è prova tangibile dell’evento, della mia partecipazione, della mia esistenza. Sarà, ma io non ne sono affatto d’accordo.

Lo scorso 12 febbraio HBO ha mandato in onda il primo episodio della sesta ed ultima stagione di Girls. È la serie tv di Lena Dunham, quella che ha reso celebre una ragazza che non ha fatto altro che interpretare sé stessa davanti alle telecamere. Sorvolando sulla trama e l’intera costruzione narrativa che porta sotto i riflettori la vita delle quattro amiche di New York, l’impatto di Girls risiede decisamente nella sua protagonista. Lena Dunham non ha paura dell’obiettivo e la sua recitazione ne è una chiara dimostrazione. Mettere a nudo il proprio corpo con tutte le sue forme, farlo ballare a ritmo di musica e farlo agitare sul proprio letto nel pieno di un rapporto sessuale è la dimostrazione di quanto abbia fallito l’autocensura — almeno nel suo caso — che alla nostra G. ha permesso di chiudere la fotocamera anteriore del proprio telefono.

Lena Dunham, Girls.

Su Instagram ho conosciuto molte persone che, parlando della propria fotografia — senza alcuna grossa convinzione di star lì a realizzare dell’arte vera e propria –, mi hanno detto chiaramente quale fosse il rapporto con il proprio corpo e di quanto lavoro ci fosse dietro ad ogni singola fotografia, di tutte le volte che avevano eliminato definitivamente ogni traccia di quello che avevano scelto di immortalare solamente perché non corrispondeva a dei canoni ben precisi. Allora mi sono chiesto quali fossero in realtà questi canoni che tutti cerchiamo di rispettare quando ci ritroviamo a tu per tu con l’obiettivo della fotocamera. Sappiamo bene quanto l’estetica perfetta che muove ogni singola forma sin dai tempi dei greci sia irraggiungibile. Lo stesso artista, ogni volta che taglia il nastro del proprio traguardo, ne da subito vita ad un altro. Una fame insaziabile che si lascia inserire in un conseguire di eventi che avanza quasi per circolarità, come quando un cane tenta di mordersi la coda.

L’autocensura si nutre di quella stessa estetica a cui cerchiamo di attingere a tutti i costi. I corpi perfetti, la tonalità di un colore prestabilito, il livello zero di un muro perimetrale che sorregge uno dei palazzi più interessanti che abbiamo mai visto prima. La nostra autocensura si nutre di quella perfezione estetica che a sua volta nutre una certa idea di bellezza che è materia esclusiva delle macchine. Se desideriamo un corpo perfettamente in linea con determinati canoni di bellezza allora dobbiamo ricorrere agli algoritmi di Photoshop e riuscire a partorire così una figura che non presenta nessuna imperfezione, un corpo figlio di un’estetica binaria. A questo punto G. potrebbe ugualmente scattare il suo dannato selfie per poi riprenderlo con VSCO — o app affini — ed eliminare definitivamente quel piccolo neo che tanto la infastidisce. Con Photoshop io potrei sminuire tutte le forme poco consone all’estetica della perfezione e creare una figura di me stesso che per nulla mi appartiene. Ma così facendo, dove vanno a finire i corpi e tutti i loro punti di riconoscimento? Dove vanno a finire le nostre imperfezioni? E ancora, dove vanno a finire tutte le Lena Dunham del pianeta?

Il mondo della moda, ad esempio, cerca — almeno in superficie — di combattere il fenomeno delle taglie minuscole. Nel frattempo abbiamo assistito all’elogio delle modelle curvy, alle critiche rivolte a Meghan Trainor e Adele, fino alla lunga serie di campagne governative mirate a diffondere tutte le informazioni possibili sui disturbi alimentari. Rispettare i canoni di bellezza auto-imposti ha poi dato vita ad una polemica che ha sfiorato la sfera patologica della questione, permettendo a molti di rimanere indignati davanti a certe affermazioni a mezzo social.

In tutto questo marasma di invettive pro e contro il regime estetico dilagante, con l’affermarsi del selfie si è constatata tutta la sua potenza rivelatrice. Quello che per i puristi della fotografia si chiama autoscatto, per molti è divenuto finalmente mezzo di auto-affermazione nella giungla sempre in fermento dei social network. Se oggi su Instagram — e ieri su Tumblr — si è diffuso un modo ben specifico di apparire, allo stesso tempo sono molti gli esempi che avvalorano l’utilizzo del selfie come scoperta e riscoperta di sé stessi. Il neo di G., le mie forme sconclusionate e tutte le miriadi di immagini imperfette, hanno trovato il loro posto in quella che non smettiamo di definire rete di contatti. L’autocensura lascia gradualmente il posto all’accettazione, nonostante la grossa mole di fotografie scartate quotidianamente. Si tratta pur sempre di un primo passo verso la presa di coscienza che, latente, muove le sue braccia in direzione di una continua avanzata.

Dell’autocensura rimane l’assenza, una mancanza del proprio corpo che con l’avanzare del tempo lascia avvertire tutto il suo peso. Il neo sulla scapola sinistra di G. ha deviato il percorso delle sue intenzioni, lasciando agitare una tale forza proveniente direttamente dai canoni estetici costruiti in precedenza. Un’imperfezione che nega un riflesso che si ripercuote nel tempo.

Todd Hido

Non oso nemmeno immaginare a quanto ammonti il numero di fotografie che non ho mai pubblicato per via di un timore immotivato fino a qualche anno fa — non sono neanche convinto di aver risolto qualcosa. Ho sempre invidiato chi riusciva — e riesce tutt’ora — a mettersi in gioco dinanzi ai gusti altrui, sopratutto quando si sceglie di svestire l’intimo di tutto il suo privato e lo si coltiva per metterlo a confronto con un altrui indefinito. La pancia, il naso, le smagliature. Piccole parti che hanno fatto sì che qualcosa non fosse possibile mostrare, lasciando che venga continuamente ammirato in momenti che non riescono ad essere segnalati dal like di passaggio. Mettere in discussione le basi apparentemente solide delle nostre esistenze è una disciplina consigliata ai forti di stomaco, a tutti coloro che sotto la fragilità di una vita riescono a tirare fuori una volontà fino a poco tempo prima sconosciuta.

Parte delle fotografie che non ho mai pubblicato le ho dimenticate, altre invece continuano a tornarmi in mente nei momenti più stupidi della giornata. A G. vorrei parlare di un sacco di cose, dalle quelle più elementari a quelle più complesse, ma so bene che anche per lei arriverà il momento in cui riuscirà a prendere coscienza del fatto che quel neo sulla scapola sinistra, in fin dei conti, non ha nulla di inappropriato. Dei continui riscontri col corpo ne abbiamo bisogno. Dei corpi ne abbiamo bisogno.

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