Le panchine azzurre di Tommasino

Michele Nenna
Casa di Ringhiera
Published in
7 min readNov 2, 2016

Da sei anni incontro un uomo seduto in una delle panchine ai lati della strada che percorro tutti i giorni. Legge e scrive ininterrottamente, divenendo quasi un figura mitologica.

Foto di Mariateresa Pazienza

Prendendo dalla provinciale l’uscita Centro che porta dritto al mio paese, ti ritrovi immerso in un viale sistemato da poco più di dieci anni, ricco di siepi e alberi avvolti dalle erbacce che spuntano fuori dalla campagna circostante. Da questa visione si comprende subito che di sistemato c’è poco quanto nulla. Nel frattempo, dopo appena un chilometro, inizi a costeggiare uno dei quartieri periferici di recente costruzione. Speculazione edilizia e case popolari coesistono da queste parti sin dalla fine degli anni ottanta, quando i mutui a tassi agevolati per i palazzinari erano facilmente accessibili. In questo tratto, prima di raggiungere il centro sventolato dal cartello blu allo svincolo, ti accorgi di quanto le strade siano immense per un paese di provincia. Doppia corsia per senso di marcia, semafori al primo incrocio e fermata dell’autobus di linea che collega Manfredonia con San Giovanni Rotondo, mezzo da sempre pieno di studenti dell’alberghiero e pazienti dell’ospedale tra i più famosi del sud Italia. Un tragitto, quello tra i due paesi, che si distende per quasi venti chilometri, dove per tutto il resto degli inconvenienti ci sono gli auricolari degli smartphone e i chiodi fissi nella mente, a seconda dell’età.

Dopo l’unica piazzola di sosta che invade il marciapiede giallino del viale, parte una serie di panchine installate a dieci metri l’una dall’altra. Nel vuoto abissale di un viale per lo più trafficato a velocità sostenuta, dove di fianco si estende uno dei quartieri più critici del paese, troviamo queste S azzurre che non fanno altro che aspettare di accogliere nel metallo il primo malcapitato con il fiato corto. A farli compagnia ci sono i soliti cestini della spazzatura sopraelevati dal pavimento mediante un paletto nero satinato. Mi sono sempre chiesto se mai qualcuno fosse stato designato per mantenere il decoro di quei secchi in metallo. Nell’ultimo periodo, con l’arrivo della raccolta differenziata porta a porta, sono stati presi di mira da cartoni della pizza vuoti e sacchi di plastica contenenti ogni genere di cosa — definirla spazzatura indifferenziata è un onore, credo. Se non sono le intemperie a trasformare in poltiglia tutta quella roba, allora ci pensa lo spazzino di turno a ripristinare il loro stato.

Era l’estate del 2010 quando tra quelle panchine vidi un uomo sulla cinquantina. Inizialmente era seduto in una delle prime quattro che seguivano i semafori dell’incrocio. La maggior parte delle volte era impegnato nella lettura di chissà quale libro, per tutto il resto riempiva i fogli gialli di un’agenda con la sua penna. Nella luce dei tardi pomeriggi estivi, o sotto le prime piogge autunnali, lui era lì, fermo nella sua posizione con i suoi occhiali da vista a leggere e scrivere come se fosse l’ultimo dei romantici sopravvissuti in un film dallo scenario apocalittico. Passavo davanti a lui sia in macchina che a piedi. I suoi capelli neri e ricci erano il segno indelebile della sua presenza oltre la siepe selvaggia che cresceva nonostante il clima arido dell’estate. Scelsi di dargli un nome perché non avevo il coraggio di fermarmi e scambiare con lui qualche parola. Da quel giorno divenne Tommasino — personaggio proveniente da uno spot della Tim di quegli anni, se non ricordo male.

Da sei anni, insieme al resto degli alberi, è una presenza fissa del viale. Cambia sempre panchina, ma lo trovo puntualmente lì seduto, con il sacchetto di una cartolibreria famosa del paese, un libro o un’agenda tra le mani. Quando legge lo ritrovo in una posizione più rilassata, stende la colonna vertebrale su per lo schienale, incrocia le gambe e si porta il libro all’altezza del volto, oppure lo lascia inerme in direzione delle ginocchia. I suoi occhi sono un tutt’uno con le pagine. Non l’ho mai beccato distratto a guardare chissà cosa. Lui è lì, dietro una siepe che si erige tra le auto in corsa che provengono dalla provinciale con il motore su di giri. Sono sempre curioso di conoscere le sue letture, ma non decido mai di avvicinarlo. Una volta c’ero quasi riuscito: camminavo su quel viale quando lo vidi avvicinarsi ad una delle panchine azzurre con un libro tra le mani. Aumentai la velocità dei miei passi per poter leggere il titolo in copertina, ma quando fui in prossimità della sua panchina era ormai già seduto intento a riprendere la lettura da dove era rimasto. Ho tirato dritto con l’intento di riuscire, prima o poi, a scoprire quello di cui si nutre avidamente. In verità, per farla breve, mi manca il coraggio

La scrittura è stata la cosa che più mi ha colpito, o almeno la sua postura. Lascia la sua agenda sulle gambe mentre con la mano destra scrive interrottamente. A volte, quando raccoglie i suoi pensieri o riformula frasi in un primo momento acerbe, si porta la mano al mento per accarezzare teneramente la sua barba ispida. Rallenta il flusso di parole che lascia cadere sul foglio e la sua bocca sembra muoversi come se ripetesse ad alta voce un periodo poco convincente che lo tiene sulle spine da un po’. Imprime nell’inchiostro il suo mondo ad alta velocità, nonostante il rischio di trovare i suoi pensieri adatti ad uno stile da Baci Perugina si nasconda dietro l’angolo. In fin dei conti, quello che Tommasino esercita su di me non è altro che un fascino esclusivamente estetico, lontano dal peso e dalla potenza dei contenuti, al di là di ogni prestigio che si possa mai rilegare nella scrittura intesa come arte. Conosco il colore delle sue pagine perché ci passo di fianco, ma ignoro la portata delle sue parole. Stessa cosa vale per le sue letture: magari legge Gramellini mentre io immagino stia rileggendo per l’ennesima volta il Moby Dick di Melville per un’analisi più dettagliata del capitano Achab.

In questi sei anni, Tommasino è diventata per me la figura chiave che riassume la lotta eterna tra l’essere e l’apparire, tra la superficialità dell’immagine e la profondità di quello che si nasconde oltre la parete — in questo caso oltre le siepi sempreverdi che nascondono la sua sete di conoscenza. Con alle spalle il disagio di una periferia qual è quella che vivo ogni singolo giorno, la sua presenza si veste di notevole spessore per via della presenza di un libro, eppure non sappiamo quanto possa essere realmente notevole questo strato significativo che lo avvolge. Un’immagine che diffonde l’inganno, la finzione dinanzi alla realtà che scuote al contrario il contesto che abitiamo.

Con molto ritardo, devo ammetterlo, ho lasciato che in me diffondesse le proprie radici un nuovo dubbio, un dubbio che fino a qualche anno fa non rientrava affatto nei miei programmi. Se in tutta questa storia fossi io invece a lavorare di fantasia davanti a quello che in realtà è la vita di Tommasino? In fin dei conti io non lo conosco, ma riesco tranquillamente a girarci dei film su di lui, azzardano ipotesi di lettura e di scrittura che per nessuna ragione al mondo hanno delle fondamenta nella realtà, proprio perché la ignoro. Tommasino se ne sta lì seduto per i fatti suoi, legge quello che gli pare e scrive quello che gli pare. Non per questo sono in grado di conoscere il vero intento che si cela dietro gli schienali di quelle panchine azzurre. Su quel viale incontro migliaia di persone, tutte rinchiuse nei loro abitacoli mentre sfrecciano sotto il verde — e qualche volta anche sotto il rosso — dei semafori all’altezza dell’incrocio. Tommasino è l’unico che si siede. Quelle panchine sembrano essere state messe lì apposta per lui. Ferma il tempo, i suoi occhi sono appiccicati alla carta, la sua mente è altrove. Ma come posso io, semplice passante privo di coraggio, sapere cosa realmente combina? Scrive un diario? Un romanzo? Dei racconti? Oppure dei personal essay? Sono io il regista di tutte queste ipotesi. Sono io che voglio vedere in Tommasino la figura del lettore avido e dello scrittore prolifico che sta scrivendo il nuovo romanzo italiano sulle periferie dimenticate e lasciate allo sbando della fase iniziale di una raccolta differenziata porta a porta.

Il viale costruito poco più di dieci anni fa ha qualche problema non da poco. Quando piove l’acqua non defluisce dove dovrebbe. I calcoli effettuati dagli ingegneri non sono stati mai efficaci su questo tratto di strada e le pendenze sono inesistenti. Un giorno, sotto la pioggia fitta, Tommasino aveva con sé un ombrello scuro, uno di quelli che una volta richiusi entrano comodamente nella borsa o nella tasca del cappotto. Aspettava che il semaforo tornasse di nuovo rosso per poter passare oltre una grossa pozzanghera. Le auto lo avrebbero sicuramente schizzato dalla testa ai piedi, c’era poco da scommetterci. Nell’altra mano teneva stretto il manico del solito sacchetto viola con il marchio della cartolibreria — molto probabilmente è lì che si rifornisce dei suoi materiali preziosi. Nonostante la pioggia non aveva rinunciato al suo appuntamento pomeridiano. Io provenivo dalla corsia opposta e sapevo che allo scatto del mio verde sarebbe scattato il suo atteso rosso. Andò proprio così, infatti. Le auto si fermarono e lui poté tranquillamente tornare sui suoi passi. In lui resiste anche una certa continuità nel lavoro che conduce.

Ad oggi, dopo sei anni trascorsi a dire ogni volta che lo vedevo dalla mia auto «ecco Tommasino», non lo vedo da qualche mese. Con la fine dell’estate non credo sia tornato a sedersi su quelle panchine. Forse non ha più nulla da leggere — cosa impossibile –, forse non ha più nulla da scrivere come Philip Roth. Potrebbe aver cambiato posto in cambio di una panchina al coperto piantata chissà dove. In tutto questo tempo, ai miei occhi, ha letto e scritto parecchio. Pur ignorando le sue intenzioni dovrei prenderlo come esempio, fare mio il suo gesto di non fermarsi difronte a nulla, sopratutto quando gli impedimenti appaiono insuperabili e non dipendono da te.

Percorro la strada e lancio un’occhiata tra quella lunga fila di panchine. Sullo sfondo, oltre il terreno lasciato allo stato selvaggio nella speranza che un nuovo piano regolatore trasformi la sua destinazione d’uso in edificabile, ci sono palazzi e palazzi che riempiono gli occhi oltre ogni immagine. Di lui non c’è nessuna traccia. Nell’attesa di tempi migliori, continuo riflettere sulla sua condizione, sulla sua immagine, sul suo valore estetico che lascia ogni mente libera di fantasticare oltre i limiti della realtà. Nuovi film sono all’orizzonte, nonostante la corsa sfrenata delle auto che imboccano l’uscita Centro dalla provinciale.

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