Le traiettorie degli sguardi

Un’intensità inenarrabile di alfabeti sconosciuti, di storie, di tribolazioni, di bisogni primordiali.

Ada Zegna
Casa di Ringhiera
3 min readApr 26, 2017

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Toby Harvard

Lo sguardo è il nostro principale veicolo di espressione. Un ponte leggero e indistruttibile tra le cose esterne e il nostro corpo. Ammettere che gli occhi siano come uno specchio è una scontata verità fatta per proteggere la fragilità di ciò che siamo e di quello che non vorremmo essere. Questo perché il corpo è una magnifica successione di dettagli tra decine di difetti, che per la maggior parte delle volte vogliamo nascondere, così come vogliamo celare i più fastidiosi sentimenti e i pensieri più miseri. Ma lo sguardo non si inganna, è primordiale e allo stesso tempo sempre nuovo. Se si potessero classificare ce ne sarebbero cento per ogni paia di occhi, per ogni corpo sporco di umanità.

Non corpi puri, santi, limpidi, casti o inoffensivi, ma corpi fatti di carne, sangue, muscoli, sudore, umori, ossa, nervi. Non un tempio immacolato da ignorare, da padroneggiare per non averne più paura o repulsione, ma materia viva che pulsa ogni secondo. Accettare il proprio corpo è in fondo un’ipocrita favola occidentale raccontata per permettere di mostrarci più nudi, in una finta emancipazione: il corpo può essere libero solo se segue certi canoni estetici. Una contraddizione, perché in realtà la vergogna di stare senza vestiti c’è sempre. Non importa quanto sia aperta o evoluta la società, quando si tratta delle cose più semplici e primitive, come l’amore per il proprio corpo e per quello degli altri, si indietreggia in un pudore estremo e bigotto: eppure siamo stati concepiti nudi, siamo nati nudi.

Giulia Boggio, On Loving.

Non c’è nessuna esaltazione, in fondo il corpo è misero e semplice: fra strati di pelle, organi viscidi, riflessi incondizionati e abitudini imperfette, si nutre di squallidi piaceri. E nonostante questo esso sa e conosce tutto di noi, perché è luogo di errori e origine di ogni esperienza. Ci rende unici e simili agli altri, anche se di quello degli altri in fondo abbiamo paura. E’ il “diverso da noi” che ci attrae e spaventa, ed è soggetto continuo dei nostri sguardi giudicanti ed evitanti, come dei piccoli animali selvatici che si rincorrono, si osservano di nascosto e poi si ritraggono nelle loro tane per timore di far capire, nel groviglio inestricabile degli occhi, qualcosa di sé. Un gioco di conflitti ambivalenti che a tratti vogliono toccare le rispettive dimensioni di intimità, di cui gli occhi ne sono l’accesso. Essi comunicano con un dialogo muto ciò che il corpo non dice. E se il confronto è con occhi chiusi, ciechi, impenetrabili, allora è ancora più difficile, e il contatto deve essere stabilito direttamente con il corpo, con il resto dei sensi.

Un’intensità inenarrabile di alfabeti sconosciuti, di storie, di tribolazioni, di bisogni primordiali. Conviviamo con il nostro corpo dalla nascita alla morte, avviene tutto lì, si patisce e si gode, si cerca nutrimento per permettergli di continuare a mantenersi corpo. Tra fame, sete, dolori, malattie, è capace di richiamare l’attenzione su qualcosa che non va della nostra vita, come un riverbero che obbliga a dirigerci dove non facciamo attenzione e farci trovare un modo, nella parte più scura di noi, di ascoltare il corpo.

E di conseguenza per non aver paura di guardare, di guardarsi.

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