Let’s call the whole thing translation — Intervista a Marco Rossari

Casa di Ringhiera
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7 min readDec 9, 2015

Quando leggete (un libro a caso) La Certosa di Parma e riflettete sulla storia, sulla forza dei personaggi, sulle loro azioni e parole, chi state davvero giudicando? Sono ormai sette anni che studio teorie di traduzione e da poco ho cominciato a metterle in pratica, riscontrandole nei testi che umilmente traduco. Tra le diverse pippe mentali che mi faccio dato il mio interesse per la traduzione — e come me tanti altri che se ne occupano — penso ai meriti, alle colpe, allo scrittore, al traduttore, all’editore e a tante altre spinose faccende. Insomma, mi pongo un sacco di problemi, sbattendo poi il muso sempre contro il solito muro: posso ancora accettare il binomio traduttore-traditore? Chi bisogna preservare nella traduzione? E’ giusto che un contesto culturale venga lasciato nel suo involucro o il traduttore italiano può permettersi il lusso di tradurre lo slang americano col dialetto romano? Io la metto sul piano della libertà e i puristi sicuramente storceranno il naso, facendosi difensori della fazione “parola per parola”. Ma esiste davvero un modo giusto per tradurre? Di tutti questi miei personalissimi quesiti ne ho parlato con uno dei traduttori più stimati in Italia, Marco Rossari, che tra l’altro è stato ospite della data milanese del tour di presentazione di Carne viva di Merritt Tierce. Domani sarà alla libreria Gogol & Company di Milano a parlare con Paolo Cognetti di New York stories. Insomma, Rossari ha accettato di rispondere alle mie domande e, come da un cappello si tira fuori un coniglio, ne è venuta fuori una bella chiacchierata su diversi argomenti.

1 Da quanto tempo traduci? Raccontami com’è nata la voglia di tradurre.

Da quando avevo quindici anni, credo. Senza fare troppa agiografia (de che, poi), mi è sempre interessato il rapporto tra le lingue. Forse ero un bambino un po’ scemo. O timido. Da adolescente ho cominciato a tradurre i testi di Dylan e Lou Reed, poi alcune poesie, infine mi sono laureato in letteratura americana e quello della traduzione è stato uno sbocco editoriale naturale. Il gioco delle parole mi affascina ancora come ai primi tempi: è una cosa un po’ da nerd, ma mi dà piacere. Sono rimasto un po’ scemo, anche se oggi ho imparato a mascherarlo meglio citando i saggi di Maurizio Bettini sulla traduzione.

2 Qual è il libro più difficile che hai tradotto?

Mi verrebbe da dire La cura dell’acqua di Percival Everett (Nutrimenti), che è pieno di infernali giochi di parole joyciani, però è stato anche divertentissimo. Oppure i capitoli di Iain Sinclair in un libro scritto a quattro mani con Rachel Lichtenstein (La stanza di Rodinsky, sempre Nutrimenti): è uno scrittore espressionista, pynchoniano, barocco, a tratti incomprensibile. Ma in realtà tradurre è sempre un problema. Uno stile apparentemente pulito come quello di James Cain mi ha dato un mucchio di grattacapi, ad esempio. Qualsiasi bambino può giocare a fare Gaudì, ma prova a riprodurre l’armonia della basilica di Sant’Ambrogio. Tradurre la semplicità è difficile.

3 Quando traduci ascolti musica? Che tipo di musica preferisci?

Nei momenti di pace torno ossessivamente a Dylan. Se no il jazz, che mi concentra: Bud Powell, Bill Evans, Monk. Poi negli ultimi tempi ho ascoltato molto Benjamin Clementine. Nei momenti di buonumore torno però ossessivamente a Dylan. Ogni tanto sprofondo di nuovo in Nick Cave o Sparklehorse o Arab Strap o Mark Eitzel. Nei momenti di stanchezza torno però ossessivamente a Dylan. Ah, per tradurre funzionano bene anche Stravinskij o Bach o l’opera. Nei momenti di tormento torno però ossessivamente a Dylan.

4 Una volta ho letto che bisogna tradurre solo gli scrittori a cui si è particolarmente affezionati. Come funziona per te? Ti affezioni a un autore e poi decidi di tradurlo oppure ti affidi all’istinto?

Sarebbe bello. In realtà ti offrono di tradurre qualcosa e tu decidi (leggi: dici: “Sì, grazie! Ancora!”). Questo per dire che nel corso degli anni ho tradotto moltissime cose che non amavo in modo particolare e che ti insegnano comunque il mestiere. Poi accade anche di proporre un autore a una casa editrice e di curare il libro. Scegliere è un privilegio che mi posso permettere da poco tempo, e solo fino a un certo punto.

5 Come si diventa traduttori?

Come ho detto, bisogna venire attratti da quella zona di confine tra le lingue: terra di nessuno, nebulosa impalpabile, passaggio glottologico, momento psichico, idioletto cosmico, gioco del telegrafo, mettila come ti pare, let’s call the whole thing translation. Poi, da un punto di vista pratico, bisogna studiare, avere orecchio, avere cura, sentire le parole, correggere bozze, rivedere traduzioni, chiedere una prova di traduzione, superarla, affrontare un testo, perseverare, tradurre molto (anche con mestiere, non solo con passione), imparare dagli errori (che sono sempre tanti), arrivare al punto in cui ti puoi definire un traduttore passabile, e comunque resti sempre un dilettante: ti offrono Nabokov e ti metti a piangere perché sei un miserabile (e se leggi come Nabokov ha tradotto l’Onegin vedi che perfino lui avrebbe dovuto piangere: immagine che mi pare emblematica per definire questo lavoro: annichilisce perfino l’autore di Lolita). Ad ogni modo non diventi mai un traduttore e basta: fai sempre un mucchio di altre cose.

6 Che differenza c’è tra la traduzione e la scrittura? Come reputi entrambe e che rapporto hai con ognuna?

Quando traduco, rimpiango i momenti in cui scrivo; quando scrivo, rimpiango quelli in cui traduco. Come Sterling Morrison che quando stava nei Velvet Underground voleva tanto insegnare, poi andò a insegnare e ovviamente… Con la differenza che non ho mai avuto i Velvet, quindi no, non come Sterling Morrison. Scrivere è più bello solo per certi versi, perché mi fa stare meglio, diciamo che mi fa godere di più. Ma tradurre è un piacere più sottile: è difficilissimo, è artigianale, è umile, è rispettoso, è scrupoloso. (I traduttori si uccidono, non ammazzano: quelli sono gli scrittori.) A volte, quando hai tradotto per mesi e torni a lavorare a un romanzo o a un racconto, ti prende una specie di insicurezza o vertigine, perché davvero ti senti nel vuoto, eppure nella scrittura sei più irresponsabilmente libero. Un amico scrittore una volta mi ha detto: “Quando traduci, il culo se l’è già fatto un altro!” Un’indelicatezza che abbiamo risolto fuori dal locale, ma di sicuro lui non aveva mai tradotto niente, perché in verità è una faccenda faticosissima, piena di incertezze e di paure. Certo, resta che ti poggi su un testo altrui. Ma quanto vorrei che le libertà sciatte di molti scrittori italiani venissero messe alla prova da una pagina qualsiasi di uno scrittore cazzuto. È un ring: ne esci distrutto.

7 Come si diventa scrittori?

Devi spedire una tua foto e due mummolarie morte in busta affrancata e completa di indirizzo a: The Tropicana Motor Hotel, Hollywood, California, c/o il giovane Tom Waits. È l’unica e io non ho mai trovato il coraggio di farlo. Inoltre: che cosa diavolo è una mummolaria?

8 Hai mai avuto il cosiddetto “blocco artistico”?

Non saprei. Non so nemmeno cosa voglia dire. Ci sono stati periodi in cui non scrivevo quasi niente e non avevo il progetto di un libro, ma se ci ripenso trovo che stavo scrivendo un mucchio di cose, sebbene frammentarie. Non lo so come funziona per gli altri. A volte ho il pensiero ossessivo di scrivere, altre volte no e, ti dirò, si sta molto bene. Alla parola “blocco” mia nonna, saggia, avrebbe raccomandato di prendere un lassativo. Cerco di tenerlo sempre a mente.

9 Come ti comporti davanti all’intraducibilità?

Non esiste intraducibilità, esiste solo la vista che si appanna dopo troppe cartelle e la necessità di un Bloody Mary.

10 Tu ti occupi maggiormente di letteratura americana, c’è una particolare modalità a cui ti affidi per tradurre aspetti culturali che non appartengono al nostro contesto?

La modalità è una sola: trovare il compromesso giusto, sforzarsi di individuare una parola o una frase che restituisca l’equilibrio, momentaneo ma corretto, tra il contesto e il testo di partenza e quello di arrivo. Ci vuole pazienza, acume, talento, costanza, fortuna. E a volte ti mancano tutte e cinque.

11 Cosa ti ispira di solito quando scrivi?

Uno scrittore serio ti risponderebbe: “La bellezza”. Ma forse è il contrario. Di cose brutte è pieno il mondo: cerchi di farne una decente, tutta tua. Viene brutta? Amen, avrai ispirato qualcuno a farne una decente.

12 C’è uno scrittore che senti affine al tuo modo di scrivere?

Vorrei dirti qualche nome, ma mi vergogno. Ti dico i due scrittori che per primi mi hanno spinto a scrivere qualcosa quand’ero ragazzo: Edgar Allan Poe e Dino Buzzati. Mesi fa sono andato in un paesino con un piccolo festival e un signore è venuto a dirmi che nella pagina aveva sentito qualcosa dei Sessanta racconti, cosa che mi ha abbastanza commosso. “Sono queste,” mi dirai, “le soddisfazioni?” No, sono gli anticipi alti. Ma comunque consolano.

13 Pensi che la letteratura inglese abbia influenzato quella americana? In altre parole, quanto devono gli ultimi ai primi?

“Troppa roba, cocca,” direbbe un americano. “Temo di non essere all’altezza della domanda,” direbbe un inglese.

14 Quali sono le difficoltà che affronta quotidianamente un traduttore?

Portare a casa tutte le cartelle che si è prefisso; incappare in una partita di cricket o di bridge; tradurre male; ricevere una telefonata che ti fa perdere tempo; piangere perché l’aggettivo dell’originale è magnifico e sfuggente come certi pesci appena intravisti sotto il pelo dell’acqua; farsi trovare a piangere per un motivo simile.

15 Chi è Il gatto di Platone? Dimmi qualcosa di lui e degli altri animali.

Dà il titolo a una raccolta di poesie per ragazzi stagionati o vecchi bambocci che ho scritto qualche tempo fa e che nessuno vuole pubblicare. Le ho buttate giù per i miei nipoti, mentre mi mangiavo un panino a pranzo, ma pure loro ormai sono grandi. “Zio, ma per chi mi hai preso?” Stiamo parlando, quindi, di una cosa morta.

16 Quali sono i tuoi progetti futuri?

A febbraio uscirà una cosina chiamata il Piccolo dizionario delle malattie letterarie. E poi, credo, qualcosa di più grosso. Vedremo. Intanto, finito il Circolo Pickwick per Einaudi, mi attendono un po’ di altre cose da tradurre. O intendevi per stasera? Devo rivedere una poesiola di Frederick Seidel che mi aveva affascinato e… Ma, ehi, ti sei addormentata?

Marco Rossari: Sito web | Twitter

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