L’ordine sparso delle cose

Michele Nenna
Casa di Ringhiera
Published in
8 min readNov 24, 2016

Brani che non seguono la giusta cronologia, album che non si fanno gli affari loro e abbonamenti sempre più vantaggiosi. Il mio rapporto con Spotify oltre ogni banalità.

Photo credit: Mr Cup / Fabien Barral

L’App Store è pieno di applicazioni per lo smartphone a cui, in un modo o nell’altro, sono riconoscente. C’è VSCO che uso per la post produzione delle foto che scatto, Messenger che mi consente di chattare con i contatti che possiedo sul mio profilo Facebook, Epson Iprint per le stampe e tutta una lunga serie di piccole realtà — in alcuni casi cresciute a dismisura — che sono sistemate in base alla popolarità raggiunta nelle fasi più delicate della loro esistenza. Il caso di WhatsApp è forse quello più noto, ovvero l’acquisto da parte di Mark Zuckerberg della startup di messaggistica istantanea più famosa al mondo. Il signor Facebook ha sborsato una cifra pari a 19 miliardi di dollari, con buona pace di tutti coloro che insinuavano l’arrivo di una pubblicità spregiudicata che avrebbe messo in discussione la tranquillità degli 0,89€ annuali. Tutto quello che ne è conseguito è stato un ammasso di polvere alzata dal vento delle false informazioni che girano sul web.

Un’altra applicazione che occupa una parte significativa della mia giornata tipo è Spotify. Una pallina verde con tre linee curve che indicano la diffusione delle onde sonore di un brano — o della voce squillante della pubblicità che interrompe la riproduzione ogni 30 minuti — sistemata di fianco a quella azzurra di Facebook. Quando la installai per la prima volta era abbastanza diffidente. La usavo di rado, e poi mica c’erano tutti gli artisti che ascoltavo. Le cose sono cambiate col passare degli anni, fino a che non l’ho fissata nella barra del mio computer. Per un periodo era la prima cosa che avviavo la mattina dopo aver fatto colazione. Di solito mettevo il classico album, quello che ti trasmette una certa dose di calma per far fronte agli impegni della giornata. Quando non ci riusciva cercavo invece di scavare in qualcosa di particolarmente vecchio, magari qualcosa che proveniva dritto dagli anni ’90, un Mark Lanegan buono, rauco e dal suono distorto. Poi ho avuto i miei due mesi da me definiti albarniani, ma sono passati in fretta, giusto il tempo di fissarsi nella testa con una cadenza ormai ridondante.

Man mano che il mio computer perdeva colpi, ho lasciato perdere la mia nuova abitudine. Ho rimosso l’app dalla barra e sono tornato ad ascoltare la musica sul dispositivo mobile. Per una strana coincidenza di codici improbabili e versioni prova, ho avuto l’onore di utilizzare Spotify per desktop senza alcun tipo di restrizione. Forse era tutto merito di fraintendimenti in HTML tra le due parti, oppure avevo combinato un disastro nell’istallazione — cosa molto probabile. Ripreso l’uso dell’app sullo smartphone ho scelto di ascoltare esclusivamente playlist a tema, pescate tra quelle che mi capitavano nella homepage. C’era quella della mattina, quella per la sera e quella per l’attività fisica, di cui io sono un esperto latitante. Beccavo artisti mai sentiti prima, soprattutto nella mia amata selezione Folk Americana. Mi capitava di tutto, e quelli che più mi colpivano li memorizzavo nella mente — inutile dire che la maggior parte di loro sono andati perduti per i meandri dei miei mille pensieri.

Obama mentre ascolta la sua ultima playlist

Scelsi di dedicarmi alle playlist perché non riuscivo a sopportare l’ordine sparso di riproduzione di un album. Inizia col terzo, poi prosegue con l’ottavo e poi torna ancora al quinto. C’era da diventare pazzi, quindi tanto valeva riservare il piacere dell’ascolto integro a qualcosa come YouTube — senza la possibilità di lasciare l’app in background — o all’album acquistato tramite i soliti canali ufficiali. Nel frattempo la pubblicità aveva mandato sul lastrico la mia umile soglia di sopportazione, sopratutto quando nel bel mezzo dell’ascolto dei brani di Neil Young partiva il promo della compilation estiva pompata a tutto volume nelle cuffie intorno alla mezzanotte. Il mood andava a farsi benedire e quello che mi rimaneva da fare era lanciare gli auricolari nel buio, lì dove non potevo più raggiungerli se non attraverso innumerevoli tentativi scordinati.

Stando alle statistiche dello scorso settembre, Spotify ha superato i 40 milioni di utenti paganti. Tra piani famiglia e offerte di ogni genere, il servizio di streaming on demand ha incassato il colpo migliore che potevano prefigurarsi nelle varie ricerche di mercato. Le case discografiche riscuotono le loro percentuali sui brani riprodotti. Nonostante le mosse di Kanye West & Co. con Tidal, tra una fuga ed un ritorno, Spotify ha avuto la meglio nel settore.

Eppure nella lotta tra paganti e non, chi vince è sempre lei. L’applicazione ha scelto un modo di inserire la pubblicità che è ormai diventato il segno distintivo di ogni ascolto. La scorsa estate ho attivato il piano trimestrale per 1€ e alla sua scadenza, ormai disabituato all’idea di riascoltare la voce squillante, ho avuto prima uno scossone, poi ho iniziato a ridere come si fa davanti alla battute di gente che non vedi da parecchio e che un po’ ti sono mancate. Oltre allo smacco pubblicitario, in quei tre mesi ho avuto modo di valutare meglio il servizio. Se prima cliccavo su un album e questo partiva seguendo l’ordine cronologico dei brani, adesso quel saltare da una parte all’altra dell’intero disco fa sì che questo perda notevolmente il suo preciso valore artistico. Nessuno di noi si è mai sognato di prendere in mano un romanzo e iniziare a leggerlo a casaccio, senza seguire l’ordine dei capitoli. La storia — o la narrazione, se vogliamo — va a perdersi come se fosse lo scarto di un capriccio irreale. Gli album, il loro concept, svaniscono nel pieno svolgimento di una sera qualsiasi, quando rientri a casa e hai solo voglia di ascoltare della musica. Non è un viaggio che si interrompe, bensì è un viaggio che non ha mai inizio proprio per la sua mancata realizzazione di quello che aveva escogitato in precedenza l’artista.

Photo credit: Markus Spiske

Se leggere un romanzo da una pagina qualsiasi non ha alcun senso — tranne per quelle poche prove di puro sperimentalismo –, leggere un racconto a caso, senza seguire l’ordine con cui si presenta all’interno della raccolta, non nuoce nessuno — tranne per quelle raccolte in cui c’è un filo conduttore ben definito. I dischi, con l’arrivo di Spotify, sembrano essere diventati esclusivi contenitori dove l’ordine scelto in studio non ha più nessuna forma di espressione. In fin dei conti, qualcuno potrebbe avvicinarsi e dire: «per quale stupido motivo non paghi quello che vuoi utilizzare a tutti costi?». La domanda non merita alcuna risposta fatta di inutili giri di parole. La soluzione è sotto il naso e ce l’hanno anche fatto notare più di una volta. Per lo spirito che ci contraddistingue preferiamo ricorrere alla comune stratagemma del «e perché mai devo farlo?».

Nella playlist Folk Americana c’era, e c’è tutt’ora, The White Buffalo. Oltre ad averlo ascoltato nelle colonne sonore di Sons of Anarchy, ogni volta che cercavo di selezionare un suo album, l’ordine inesatto ha contribuito al fatto che io creassi in me un’idea sfalsata dell’intero disco. Potrei riempirvi le scatole di esempi, ma alla fine non facciamo altro che tornare al punto di partenza. Per via della mia cocciutaggine ho dato vita a quello che possiamo definire un falso mito. Ad oggi non conosco nemmeno un album di The White Buffalo secondo le forme che gli sono state ben definite in studio. Durante l’ascolto di un determinato brano non sono capace di prevedere la successione corretta, senza contare le varie intrusioni di brani che appartengono ad altre pubblicazioni che non hanno nulla a che fare con quella che ho selezionato. Arrivati a questo punto era di gran lunga migliore il periodo in cui il mio computer aveva nella barra quell’icona verde dove passava musica senza interruzioni pubblicitarie e secondo l’ordine esatto dei brani. Una ciofeca di computer che attualmente utilizzo solo per scrivere era la risposta migliore alle mie — e con me quelle di tanti altri — strambe esigenze.

Eppure leggendo il motto di Spotify sembra quasi di leggere uno di quei manifesti di propaganda comunista dell’ex URSS. La musica è per tutti cita la frase che compare nei risultati della ricerca Google. In realtà rendere il servizio di streaming musicale completamente gratuito sarebbe un grosso danno per tutte le case discografiche, comprese le piccole che alla fine della giostra fanno capo alle solite grandi. Siamo da poco usciti dagli anni d’oro dei servizi di download pirata, dove i p2p e i torrent dettavano legge. Dovremmo comprendere la reale portata di un fenomeno che attualmente pare stia rientrando sotto la soglia prevista dai colossi del mercato discografico e dai legislatori. Quelli che resistono sono gli irriducibili, quelli che fanno loro una certa ideologia e ci ricamano sopra la tela per un mondo fatto di scambi condivisi e forme di governo a suon di codici battuti sopra una tastiera di un computer assemblato per tenere lontano chiunque voglia intromettersi nei propri affari. Una psicosi che, come abbiamo potuto ben vedere, è sfociata nel populismo dell’ultima ora, fino a lacerare ancora più a fondo il tessuto sociale in cui siamo tutti immersi, nessuno escluso.

Nick Cave e gli anelli

Due giorni fa, preso da una spropositata voglia di ascoltare Skeleton Tree, ho messo da parte tutte le mie seghe mentali su quello che rappresenta Spotify ed ho cliccato play con tutta la decisione di questo mondo. Il primo brano che è stato Distant Sky, seguito a ruota da Rings of Saturn. In un primo momento mi è subito salita la voglia di mandare tutto in frantumi. Ma che diamine, mi sono detto tra una speranza e l’altra di riuscire a cogliere un bug che mi consentisse di azzerare una volta per tutte questo annoso problema da sfigato con cui mi ritrovo a fare i conti. Poi così, dal nulla, è stata la volta di Skeleton Tree, giusto per mandare sangue pulsante alla mia giugulare. Volevo sentire integralmente il dolore di Nick Cave, volevo viverlo sulla mia pelle nell’ordine da lui scelto, e non incassare alla rinfusa le sue lacrime e le sue carezze. Quando è partito I Need You ormai ero immerso fino al collo nella rassegnazione più totale. In fondo cosa potevo aspettarmi se non una storpiatura del genere? Era stato bello ascoltare durante l’estate tutti i suoi album, con i brani nella successione corretta e la pubblicità nascosta chissà dove. Ahimè, all’uscita di Skeleton Tree il mio periodo di prova era ormai terminato. Avevo avuto l’occasione di sistemare la faccenda una volta per tutte, ma me la sono lasciata scappare. Da adesso non mi resta altro da fare che ascoltare Nick Cave ad capocchiam.

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