Non innamorarti mai
Lo scorso 3 marzo è uscito per la Maciste Dischi Superbattito, il disco di Gazzelle. Al termine della fiera — e dell’ascolto –, vi consigliamo di non innamorarvi mai, così evitate di star male una volta per tutte.
Dello zucchero filato non ho una bella immagine impressa nella mente. Ricordo le labbra e le mani appiccicose, senza contare quel sapore sul palato che sfiorava alti livelli di dolcezza — se così possiamo definirla, dato che si avvicinava molto al suscitare un principio di attacco di diabete. Era una festa patronale, l’ennesima, con tanto di ambulanti, giostre luminose uscite dai video di Madonna e la musica di Gigi D’Agostino pompata a cassa dritta. Per tutto il resto, oltre agli anni ’90 e ai miei capricci di bambino dai capelli ricci e gli occhiali di topolino, ricordo il rumore di quelle macchine dello zucchero filato sistemate una di seguito all’altra. Segno di una concorrenza spietata in dissolvenza, perché alla fine non me ne fregava niente. Era troppo appiccicoso per i miei gusti. Un amore finito prima che nascesse per davvero.
Zucchero filato è stato anche uno dei singoli estratti da Superbattito (Maciste Dischi, 2017), l’album d’esordio di Gazzelle, giovane romano che in molti non hanno perso tempo a definire «un Calcutta fatto bene». Contenti loro, direbbe qualcun altro. Resta però il fatto che lo zucchero filato è un interessante punto di partenza per scoprire quello che in realtà sorregge tutta la baracca. Passato alla storia come una delle icone degli anni ‘80/’90, questo enorme cotton fioc utile forse a sturare esclusivamente i cessi dimenticati degli Autogrill, racchiude in sé la grandissima contaminazione di suoni che vanno a costruire quel quadro finale che è Superbattito.
L’album, composto da otto tracce, si apre con Non sei tu, una dichiarazione ufficiale di malessere dovuto alla rottura della storia d’amore dei propri sogni. Tempi lenti che introducono poi un ritornello scanzonato che urla “che ne sanno gli altri” sopra un synth che riporta alla gloria Paradise dei Coldplay e spruzza colori da ogni singolo poro dei loro corpi. A dire il vero, la chiave di lettura di Superbattito — nessuno degli otto brani esclusi — è proprio questa: il sedere preso a calci dalla profonda delusione che solo un ragazzo talmente innamorato può vivere dalla sera alla mattina, quando vede l’alba spuntare dietro ai palazzi di quindici piani dopo aver trascorso la nottata in veranda a consumare tutto il pacchetto da venti di sigarette. Non sei tu anticipa Quella te, così come il resto dei sei brani fa l’uno con l’altro. Un’immensa catena che abbraccia gli ingranaggi della bicicletta che a stento viene pedalata su per la salita.
Arriva poi il turno di Meltinpot, un grande punto di domanda che accomuna il senso di inadeguatezza a quel senso tipico di spaesamento che ci prende di soprassalto quando non sappiamo minimamente cosa diavolo fare in determinate situazioni. Sono attimi che a loro volta vengono schiacciati sotto il peso della nostalgia e della voglia di voltare pagina. I vari Marco e le varie Marta che si susseguono — e le polaroid utilizzate per terminare il proprio livello a tetris — sono personaggi comuni che abitano la vita di tutti e che compaiono neanche fossero delle chimere con tanto di coda fiammante.
“Ti porterò sopra la mia schiena” di Balena è la massima dichiarazione di prostrazione ad ogni tipo di schiavitù amorosa pur di riuscire nelle proprie intenzioni. Su per le montagne e per le mete impossibili, farsi carico della sconfitta annunciata con la speranza di riuscirci davvero, almeno questa volta. Se Démodé vuole portarti fuori dalla discoteca — e fuori da una dimensione sfuggita al controllo del tempo — Nmrpm sembra quasi un addio sofferto che, in fondo, celebra qualcosa che si stacca definitivamente da quella situazione iniziale che accennavamo sopra.
Alla fine c’è Greta, si direbbe. Colei che canalizza tutta una sorta di consigli per riuscire a restare a galla in questa melma che immobilizza il corpo e non ti lascia mantenere la testa fuori per assorbire tutto l’ossigeno del mondo. Non innamorarsi mai, in qualsiasi situazione si presenti davanti ai nostri occhi assetati di desiderio oltre ogni spasmodica cifra sentimentale. Greta è l’incarnazione dello stesso Gazzelle, la figura cardine di tutto il disco. È lei che, inseme a tutti gli altri, manda il cuore in aritmia segnando così la nascita di un superbattito deciso che spolpa ogni brandello di carne della gabbia toracica.
Il disco lo si ascolta nel giro di pochi minuti, per questo si ha tutto il necessario per comprenderlo e farci due passi mentre passa nelle cuffie dell’iPhone. Inconsapevolmente — oppure no –, Gazzelle riporta l’attenzione sulla scena musicale romana, continuamente in fermento e che porta con sé i moti tutt’altro che disastrosi di un pop che nell’ultimo periodo siamo abituati ad ascoltare. I Cani, Calcutta e Thegiornalisti — giusto per fare qualche nome — hanno ottenuto ottimi risultati sotto ogni punto di vista — decisamente meno sotto quello della critica. Eppure la questione centrale in Gazzelle resta questa: aver raccontato il disagio scaturito dalla separazione. Va in scena un certo romanticismo da botta sul collo, quella che ricevi quando meno te l’aspetti. L’amore che dilaga per le strade, la primavera con i suoi fiori e i corpi che si scambiano fluidi sotto il cielo buio ai margini di una strada di periferia. L’epilogo di una storia finita male, la corsa verso la svolta e il nodo alla gola che attanaglia ogni singolo respiro fino a farti girare la testa.
Gli occhi di Gazzelle si nascondono sotto le stelline delle emoji, i suoi primi piani sono sfumati e la sua immagine è quasi sempre inafferrabile — beh, se proprio siete interessati, basta vedere le foto di altri in cui è taggato. Tutto questo contraddistingue il suo personaggio lontano dalla calca, lontano dal chiasso del tempo euforico che rende viva ogni singola condizione, indipendentemente dalla connotazione positiva o negativa. Gli abbandoni e gli insuccessi assumono forme meno spigolose se srotolate sui pattern delle strumentali che accompagnano le sue parole. Video come quelli di Zucchero filato e Quella te, girati entrambi da Paula Lingyi Sun, trasmettono perfettamente l’idea di distacco totale dal proprio punto di ancoraggio presente in alto mare. E poi la giovinezza, grande e onnipresente, lascia che la materia diventi più liquida, quindi uniforme, tanto da abbracciare ogni punto segreto della strada tutta curve e tornanti da percorrere.
Allora l’atto di nascondersi assume dei significati diversi dal solito. Nascondersi vuol dire assumere una posizione dura da abbattere, una posizione che nella sua stessa fragilità diviene scoglio insormontabile per qualsiasi tipo di sciagura si possa presentare nella solitudine. Quello di Gazzelle sembra essere un modo come un altro per ripararsi dalle conseguenze dell’amore, dal suo continuo attaccare ogni punto debole pronto a sgretolarsi in mille pezzi al prossimo colpo basso. Per questo, la domanda fondamentale di questo disco è se ancora valga la pena innamorarsi.
Io che dello zucchero filato non ho mai apprezzato nulla, nemmeno la più stupida sfumatura, resto in disparte ad osservare l’evolversi della situazione. Fermo sopra una panchina qualunque do fuoco all’ennesima sigaretta e aspetto che qualcosa si muova nonostante l’immobilità dei corpi che non decidono se lanciarsi o meno in quel vuoto che, tutto sommato, è l’amore. Se Gazzelle abbia fatto la stessa cosa non saprei dirlo — a dire il vero potrebbe anche essere azzardata tutta questa chiave di lettura autobiografica di cui mi faccio carico. Potrei anche sbagliare se in quella Greta, in quella Marta e in tutte le altre figure femminili che compaiono nel disco, riuscissi a vedere una Nasten’ka dei giorni nostri, catapultata direttamente da Le Notti Bianche di Dostoevskij, che lascia il suo sognatore — in piedi, davanti alla panchina sul lungofiume — per un altro.
Nel frattempo continuo ad ascoltare Superbattito per l’ennesima volta, cercando di fare spazio alle tante parole che sottendono emozioni e sentimenti che, dalle cuffie sgangherate di un’Iphone, implodono in questi pomeriggi assolati di primavera.