Oltre la parete

Empty Space è una serie di autoritratti realizzati da Miriam Altomonte.

Michele Nenna
Casa di Ringhiera
5 min readMay 24, 2017

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Fissare a lungo una grossa parete vuota, conduce la propria immaginazione ad affiggerci sopra le figure che ci abitano. I sentimenti danno vita a cerchi, triangoli e rombi in sostituzione alle identità che si materializzano nella nostra mente in quel preciso istante. Poi nascono le emozioni, che a loro volta entrano in contrasto, finché non prendiamo le nostre cose e usciamo dalla porta di servizio senza nemmeno salutare. Una fuga in piena regola. Il frastuono interiore potrebbe fissarsi sulla nostra pelle. A quel punto saremmo costretti a trascinarci dietro tutta la montagna di roba che ci contraddistingue. Niente di nuovo, di questo ne siamo pienamente consapevoli. Basta osservare le nostre ansie, le nostre paure, ed esaminarle per qualche secondo. Noi stessi, davanti al disagio più profondo, con un pizzico di fatica, sappiamo riconoscerci alla perfezione.

È questo quello che ho provato quando ho visto gli autoritratti di Miriam Altomonte contenuti in Empty Space, suo ultimo progetto. Una serie di fotografie in bianco e nero che la ritraggono davanti ad una parete riempita dalle espressioni del proprio corpo, circostanza che ha fatto nascere in me l’insistente interesse di andare oltre ad uno sguardo riduttivo. Le sue braccia non fanno altro che accogliere e rifiutare, proprio come accade in presenza della più grande dualità di tutti i tempi: l’amore e l’odio. I movimenti del suo corpo, le forme indefinite che prendono vita nell’instante immortalato nella fotografia stessa. Un insieme di movenze che trasmetto la grandezza dei sentimenti più disparati, quelli di cui siamo fatti e di cui non smettiamo di nutrirci giorno dopo giorno.

È questa la potenza intrinseca dell’autoscatto. Dalla parte del mirino non c’è nessun occhio diverso dal nostro, nessuno che possa dirigerci lì dove non vogliamo. Ci trasferiamo dall’altra parte della macchina fotografica nel momento in cui sono appena trascorsi i 5/10 secondi che ci dividono dal click finale. Una sorta di traslazione del proprio sguardo che dà vita ad una coesistenza di visioni: da una parte la posa, dall’altra l’occhio che la vuole catturare. È un continuo vedersi e rivedersi con i propri occhi. Una capacità di misurarsi con il giudizio più intransigente che conosciamo, ovvero il nostro. Eppure, quando riusciamo ad intravederci in quello che è il risultato finale, un po’ ci meravigliamo, anche quando ormai siamo abituati alle nostre forme, ai nostri spigoli, ai nostri angoli.

Siamo completamente immersi in quello che è il tempo del selfie che forse nemmeno più ci facciamo caso a quello che in realtà costruiamo. Imbronciamo le labbra, storciamo il muso e incliniamo il volto come diavolo ci pare. Il gioco è fatto, non servono strumenti astrusi se non un’app per il fotoritocco. Secondo molti un mezzo banale che ha finito per intasare le timeline dei social network in cambio della tanto agognata affermazione di se stessi all’interno della società. Al contrario, io non me la sento di appoggiare questa posizione. Sono del parere che l’autoscatto — e il selfie, in questo caso — aiuti a scoprire qualcosa di noi che non riuscivamo a cogliere prima dell’avvento della fotocamera anteriore. L’autoritratto è la capacità che abbiamo di accettarci così come siamo, c’è poco da aggiungere.

Miriam Altomonte, da sempre impegnata nelle sue performance artistiche, riesce a consegnare un’immagine del suo corpo in sintonia con il proprio sguardo. Sceglie l’angolatura, la luce e la serie di piccoli dettagli — come quelli che si intravedono nel vestito bianco — per inserire d’impatto la sua vita in Empty Space. Attraverso di esso emergono emozioni e sentimenti che gravitano intorno ad una realtà di cui solo lei — almeno in gran parte — è consapevole. Una comunicazione di stati interiori che sfuggono al più classico degli schemi sociologici e si mostrano senza alcun artificio stridente. Lo fa davanti ad una parete, la stessa che avrei tappezzato con le figure più congeniali provenienti dalla mia immaginazione. Sono i contrasti che ci tengono a precisare quanto siamo ancora fermi nella più comoda delle posizioni possibili che possiamo assumere, e Miriam Altomonte li lascia andare fino a farli esprimere attraverso i gesti semplici del suo corpo.

In Empty Space quasi si gioca a carte scoperte. Piacere, paura e ansia convivono con la smania della rivelazione. C’è la tachicardia della meraviglia, il timore della vulnerabilità e la potenza dell’intimo che viene sputato contro l’obbligo di apparire in un modo ben preciso. Arrivati a questo punto, la fotografia — massima espressione per antonomasia del non detto –, corrode ogni limite disegnato dalla luce e sceglie di incoronare definitivamente quello che, fino ad un attimo prima, si nascondeva nelle ombre calme di un pomeriggio qualunque. Segue la scoperta, quella componente fondamentale della nostra esistenza che ci trasmette accettazione e rifiuto, un po’ come accade quando si incontrano amore e odio. Nessuno dei due sentimenti nutriti sembra voler cedere il proprio posto all’altro. Questione di convivenza, potrebbe dire qualcuno. Questione d’orgoglio, potrebbe dire qualcun altro.

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