Phil, dove sei finito?

Casa di Ringhiera
Casa di Ringhiera
Published in
3 min readJan 21, 2016

Una delle domande che amo pormi è: può uno scrittore rimanere rinchiuso in un personaggio da lui costruito? Certo, la veridicità della risposta è molto relativa. Siamo lettori che aspettano con foga il passo falso dello scrittore amato, lo stesso che nelle pagine dei suoi libri ci guida verso qualcosa di profondo, di inaspettato, e ci consegna prontamente una narrazione viva e allo stesso tempo impossibile da prevenire.

Il personaggio entra in scena. Il sipario percorre gli ultimi centimetri che lo separano dalla fine del binario. La platea, dopo un’attesa a dir poco trepidante, è finalmente presa da quel che accede sul palco. Tutti hanno gli occhi fissi sul protagonista. Lo osservano, lo spogliano, lo studiano nei minimi particolari, cercando di cogliere l’attimo in cui egli si priva di tutte le congetture che gli competono. La maestria del povero e indifeso uomo è al suo apice. Il crollo tanto atteso viene rimandato al prossimo spettacolo — ammesso che ci sarà.

Prima e dopo la sua prestazione, il protagonista è solo. Nuota nella solitudine più profonda alla ricerca del forziere che gli varrà la gloria. La sua miopia si trasforma in vista acuta di cui solo il falco dispone. Una lotta contro il proprio sé che porta alla ribalta un’identità che per via del sudore gettato non si è mai messa in dubbio. Si rafforza, si dilata per tutto lo spirito che la abita, fino a farne nuova linfa che scorre per le vie carnali ricoperte dalla pelle rigida, pronta a scongiurare qualsiasi attacco esterno.

Ogni volta c’è una piccola parte che emerge reclamando il suo dovuto riconoscimento. Una parte recondita che viene fuori dall’estenuante lavoro che la scoperta rappresenta. Pensa di aver lasciato fuori dalle mura domestiche i mostri che da sempre combatte, ma questi sono puntualmente pronti a bussare alla sua porta. Colui che era il protagonista tanto acclamato dalla platea si riduce a umile essere umano coinvolto in una guerra spietata, ricca — com’è giusto che sia — di colpi di scena. I panni del personaggio che aveva scelto di interpretare su quel palco ormai gli vanno stretti, e a questo punto si vede costretto a mettere in discussione il suo lavoro, la sua vita.

Sono vesti che dovranno essere messe da parte per lasciare il posto a quello che dentro si cova. Il personaggio deve ritornare uomo, liberarsi dalla morsa del ruolo altrui che lo attanaglia. L’autore dell’opera è nell’opera stessa fino a quando non giunge il momento di lasciarlo andare per la sua strada e venirne fuori una volta per tutte. Il rischio di rimanere rinchiusi in un personaggio uscito dalle proprie mani è alto. Quello che ha messo fuori può ritorcersi contro, dando vita ad una creatura fuori dalla portata di cui egli è in grado di esercitare. Converrebbe stipulare un patto in precedenza, ma sicuramente finirebbe per rimanere solo un insieme di regole da infrangere.

Saremo noi, esclusivi membri di quella platea, a domandarci quanto Philip Roth c’è in Nathan Zuckerman e quanto Nathan Zuckerman c’è in Philip Roth. Costruire un personaggio comprende l’elevato rischio di rimanere prigioniero della stessa creatura. Fare il suo gioco, entrare nei suoi panni senza essere in grado di rimanere a galla per via della corrente che risucchia il corpo dell’autore. Nei protagonisti dei racconti di Raymond Carver c’è una vasta presenza dell’autore. Ma quanto quei personaggi hanno poi inciso nella vita dello stesso Carver? Quanto un esercizio di scrittura salvifica può ritorcersi contro privando il suo fautore della energia salvifica stessa? Sequenze, vite di uomini, realtà claudicanti, si seguono fino ad intrecciarsi l’un l’altro, dando vita ad un filo narrativo attraverso il quale il lettore si lega allo scrittore. Nasce così il sodalizio infrangibile che nutre l’animo folle di due parti che non smetteranno mai di cercarsi a vicenda. L’indagine che conduce dritto alla domanda sempre deviate del “quanto di te c’è in queste pagine?”

Se l’autore resta prigioniero dei suoi personaggi potremmo anche farcene una ragione. La stessa cosa non vale nel caso in cui è il lettore a rimanere prigioniero del personaggio. Le pagine allora diventano il terreno fertile che consente la cattura dell’immaginazione che nell’estraneo prende finalmente vita, celebrando il massimo grado dell’intrattenimento. Un compito, questo, che compete solo a pochi scrittori, maestri artefici delle prigioni altrui.

--

--